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Le rane (Mo Yan)

Un drammaturgo, detto “Girino”, racconta la storia della zia ostetrica in Cina durante la rivoluzione culturale.Era un’ostetrica un po’ particolare, perché, dopo aver aiutato molte madri a partorire, il partito le chiede di supportare la politica del figlio unico, facendo abortire le donne che rimangono incinte “illegalmente”.La regola era infatti che si potesse avere solo un figlio. Si poteva restare incinte la seconda volta solo se il primo parto aveva dato alla luce una femmina.La zia di Girino prende gli ordini alla lettera e si ritrova a rincorrere madri col pancione che scappano a nascondersi in tutta la sua provincia.Detto così sembra una storia comica, in realtà la tragedia è dietro l’angolo, visto che gli aborti sono adottati anche se le gravidanze sono molto avanzate.La figura della zia è drammatica: se agli inizi della carriera era innamorata del fatto di far nascere bambini, quando deve dedicarsi agli aborti lo fa con una dedizione al limite del fanatismo, utilizzando astuzie che la rendono odiosa agli occhi di tutta la popolazione, parenti e amici inclusi.Lei è una donna dal carattere forte, che tiene testa agli uomini e ai funzionari, ma il logorio e i sensi di colpa a cui è sottoposta si farà sentire negli ultimi anni.Girino è un personaggio più sottomesso: accetta le decisioni del partito e della zia, e quando la prima moglie gli muore perché l’aveva convinta a sottoporsi all’aborto al settimo mese di gravidanza, non se la prenderà con la zia, ma piuttosto con se stesso.Ci sono tanti personaggi: è un libro che parla della Cina, più che di alcune figure specifiche.Voto: 4+/5

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1918 L’influenza Spagnola (Laura Spinney)

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Dal 1918 al 2020, l’atteggiamento umano davanti a una pandemia è cambiato poco sotto diversi punti di vista.

Oggi come allora diamo la colpa dello scoppio dell’influenza ai paesi stranieri (sembra che la Spagnola sia nata in Kansas, ma che tutti dessero la colpa alla spagna o alla Cina).

Oggi come allora diamo la colpa agli immigrati: oggi sono quelli che vengono dal bacino del mediterraneo, allora negli Stati Uniti se la prendevano con gli italiani, che sembravano più sporchi e dissoluti degli altri.

Oggi come allora una larga percentuale di popolazione, davanti al brancolare della scienza, si rivolgeva alle cure cosiddette “alternative“, anche se nel 1918 la distinzione non era così chiara.

Oggi come allora, si dà la colpa agli spiriti e agli dei, e molti si affidano alle preghiere e ai riti per guarire.

Le differenze, ovviamente, ci sono, Oggi l’OMS è funzionante ed attiva: nel 1918 ancora non c’era, anzi, la Spagnola è stata un elemento che ne ha favorito la costituzione, in qualche modo, visto che eventi del genere non si possono controllare a livello nazionale.

Nel 1918 eravamo in piena guerra mondiale, il che ha favorito certamente la diffusione dell’epidemia (oggi la diffusione è favorita dai viaggi e dal commercio).

Nel 1918 molti paesi non avevano un sistema sanitario, oggi ce l’hanno quasi tutti.

E’ un libro certamente interessante, con un taglio storico, e meno attento agli aspetti scientifici rispetto ad altri testi sull’argomento.

Vengono citati molti personaggi: Freud, Klimt, Egon Schiele, il nonno di Trump (sì, proprio lui), Amelia Earhart (l’aviatrice), il compositore ungherese Béla Bartok… più tutta una serie di personaggi semi-sconosciuti che hanno combattuto contro il corona virus dell’inizio del Novecento (interessante come, in tempi più recenti, i medici sono andati a cercarsi il DNA della Spagnola).

Forse (opinione mia) l’autrice attribuisce alla Spagnola più conseguenze di quelle che ha avuto: epidemie di depressione, o addirittura di encefalite letargica (Vi ricordate il film “Risvegli”?), fino ad arrivare a ipotizzare scenari politici alternativi.

Se guardate le recensioni su Amazon, ce ne sono diverse che lamentano l’abbondanza di descrizioni macabre: morti abbandonati in strada, cadaveri in putrefazione, fosse comuni… M a me non sembra che l’autrice si sia soffermata molto su questi aspetti.

Dobbiamo considerare che il libro esamina l’epidemia a livello globale: ci sono stati anche casi macabri. Sorvolarli non sarebbe stato un atteggiamento obiettivo.

Consiglio finale: leggetelo.

Leggetelo soprattutto per capire come l’animo umano resta sempre lo stesso, non importa quanto evoluti e “scientifici” ci consideriamo.

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Nella testa del dragone – Giada Messetti @LibriMondadori

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Saggio sulla Cina, uscito a febbraio del 2020: ma vi assicuro che non è il classico libro che approfitta della visibilità data alle pubblicazioni legate al Covid19, semplicemente perché è ben scritto, ben documentato, e ben approfondito, dunque la Messetti ha di sicuro iniziato a scriverlo in tempi non sospetti!

La Cina sorprende sempre.

Col barbone che, al posto della classica ciotola per le offerte, ha un IQR code; con l’enormità dei suoi investimenti in Africa e sulla Via della Seta; con le App statali a punti, che sono attribuiti sulla base della tua affidabilità sociale (attraversi col rosso? Meno cinque punti, e se continui così, poi non puoi più comprare i biglietti della metro!).

Ma soprattutto mi lascia sbalordita la lungimiranza dei governanti cinesi: programmano ragionando per… decenni.

Un esempio su tutti, è la sua politica di influenza sui paesi africani. Oltre agli investimenti sulle infrastrutture, il governo cinese accoglie migliaia e migliaia di studenti africani. Paga vitto, alloggio, studi.

Perché? Perché sta formando la futura classe dirigente africana. E a chi saranno grati, questi leader, una volta che saranno saliti al potere?

Capite che investire milioni su studenti stranieri è una tattica che può funzionare solo nel lungo periodo… E il confronto con l’Italia, incapace perfino di emanare una finanziaria annuale, è inevitabile!

Ci sono state molte altre pagine di questo saggio che mi hanno tenuta incollata fino a tardi. Ad esempio quelle in cui racconta come il governo crea legami diplomatici attraverso la politica dei panda (!!); oppure quelle in cui si spiega quanto la tecnologia abbia pervaso la vita cinese.

La Cina mi affascina, ma mi fa paura, anche.

Quando sono stata a Pechino, al centro olimpico, le scritte in inglese sui cartelli erano state tutte cancellate col pennarello. E nessuno parlava inglese (se non le due tipe che ci hanno fregato). Il nazionalismo è una costruzione sociale, e i cinesi sono bravi in questo.

Basti pensare al fatto che nessun cinese si lamenta delle violazioni alla privacy effettuate tramite la tecnologia di Stato. Accettano limitazioni a certe libertà, se questo garantisce loro sicurezza.

Un’altra cosa che mi fa paura? Gli investimenti cinesi nel settore militare.

Sono enormi.

Certo, molti sono funzionali alle infrastrutture all’estero. Così dicono. Ma quanto ci vuole per passare all’ingerenza politica, o peggio?

Insomma: la Cina va studiata. Non solo perché ci sono cinesi dappertutto, anche dietro ai film che guardiamo e ai vestiti che indossiamo.

Che la Cina meriti una più approfondita attenzione, me lo dice il fatto che la nipote di Trump, cinque anni, parla cinese.

Voglio dire: la nipote di Trump, il biondo che fa la guerra doganale ai cinesi, ha la nipotina che parla cinese mandarino!!!

Pensiamoci.

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Open (Andre Agassi) @LibriEinaudi

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Ho deciso di dedicarmi a questa biografia, solo dopo aver letto molte recensioni positive: non mi interessa il tennis e quasi non mi ricordavo di Agassi, perché avrei dovuto perdere tempo con 496 pagine di sport?

Per fortuna, qui di tennis non si parla molto.

Inoltre, il testo in sé è stato scritto da Moehringer, un premio Pulitzer: e si sente.

Ben fatto! Senza fingere che il nome in copertina sia anche quello dell’autore, Agassi ha deciso di svelare nell’ultimo paragrafo il nome di chi si è occupato della stesura. E’ una sincerità che mi piace: odio le bio di personaggi che si spacciano per scrittori.

Le parti più sconvolgenti, sono quelle che parlano del padre di Agassi. Armeno-iraniano, è immigrato negli Stati Uniti con documenti falsi. Già in Iran era famoso come pugile (aveva partecipato anche alle olimpiadi). Arrivato negli Stati Uniti, decide che i figli devono diventare ricchi e famosi col tennis.

Li fa morire!

Allenamenti estenuanti, spara-palle costruito da lui, monotematicità dei discorsi, pillole, spinte, scuola-prigione, urli e umiliazioni: tutto per cercare di farli sfondare.

Ci riesce solo con Andre, anche se, per anni e anni, Andre odierà il tennis.

Incapace di accettare le sconfitte, Andre sarà spesso tentato di mollare tutto: una volta regalerà racchette da centinaia di dollari ai barboni, una volta darà fuoco a fogli e foglietti in una camera d’albergo…

Incredibile come le persone ricche e famose siano insicure di sé, incredibile quante paure le tormentino.

Andre Agassi sarà sempre incompreso dai giornalisti, che criticavano il suo look simil-punk, e lui sarà sempre incapace di passare incolume sopra certi articoli.

Un’altra fisima saranno i suoi capelli: li perdeva. Era arrivato al punto di indossare un parrucchino, con tutta l’ansia che poteva provocargli il rischio che cadesse durante un match.

E poi… la sua amicizia con Barbra Streisand, i suoi matrimoni con Brook Shields e Steffi Graf… i suoi amici, importantissimi…

Inquieto, insoddisfatto, lunatico: sono tanti gli aggettivi che gli si addicono. Si sente davvero felice solo quando aiuta qualcuno: la figlia di un amico ferita in un incidente, il cameriere di un ristorante che non ha soldi per l’università dei figli… E la sua fondazione per l’educazione in un quartiere degradato.

Lui, che ha mollato la scuola in terza media, raccoglie milioni di dollari per mandare avanti una scuola modello.

E su tutto, su ogni vicenda, personale o pubblica, incombe il tennis, l’odiato tennis.

Quanta gente conoscete che fa un lavoro che odia eppure lo fa bene?

Il fatto è che una volta intrapresa una strada, bella o brutta, cambiare è difficilissimo.

Una volta che il tuo curriculum mostra un certo ruolo professionale, continuano a cercarti per quel ruolo professionale. Non ti schiodi più.

Scusate, sto divagando…

 

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Exodus (Leon Uris) – 1° volume

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Per raccogliere il materiale necessario a questo libro ho percorso circa ottantamila chilometri. I metri di nastro inciso, il numero di interviste, le tonnellate di libri consultati, la quantità di pellicola impressionata e di dollari spesi raggiungono cifre non meno impressionanti.

Ecco cosa dichiara Leon Uris nella prefazione del libro, uscito nel 1958.

Exodus è il nome di una vecchia nave che – una volta finita la seconda guerra mondiale – porta 300 bambini in Palestina. La nave del romanzo, che si ispira a una vicenda realmente accaduta, parte da Cipro, dove gli ebrei scampati allo sterminio hitleriano erano rinchiusi in campi inglesi!

Bisogna ricordare che gli inglesi avevano il Mandato sulla Palestina ed erano contrari all’immigrazione ebraica, perché questo li avrebbe messi in difficoltà con le popolazioni arabe di cui erano, storicamente, alleati.

Pensate: centinaia e centinaia di persone sfuggite dalle camere a gas europee che credono di essere in salvo e invece si ritrovano di nuovo rinchiuse in campi recintati!

I personaggi del romanzo sono un’invenzione letteraria, ma necessariamente entrano in gioco molti nomi di vere personalità storiche (Ben Gurion, Churchill, gli zar russi, i muftì…).

I protagonisti principali sono pochi: uno è Arì Ben Canaan, ebreo palestinese ed ex soldato inglese, con un passato di lotte e dolore.

Poi c’è Kitty, una giovane vedova infermiera che si dedica ai bambini ebrei e che decide di andare in Palestina per seguire una ragazza che le ricorda la figlia morta a pochi anni di età.

Altri personaggi sono meno delineati dal punto di vista psicologico, ma sono necessari perché, attraverso la loro storia e la storia dei loro genitori, nonni, avi, viene narrata la storia ebraica nel mondo, dalla distruzione del Tempio fino ai giorni della vicenda.

Sono digressioni lunghe molte pagine, a volte sembra di leggere un libro di storia, e, considerando le origini ebraiche dell’autore, ci si chiede quanto obiettive siano (ma… esistono libri di storia obiettivi?).

Il romanzo, appena uscito, è diventato subito un bestseller tradotto in decine di lingue, eppure il gotha letterario lo ha molto criticato.

Stando ai critici, il romanzo soffre di difetti sia letterari che contenutistici.

Non sono un’esperta, ma neanche io credo di aver tenuto nelle mani una grande opera d’arte. Il registro cambia spesso e in modo repentino, ci sono troppi punti esclamativi, è troppo simile a una sceneggiatura cinematografica (Uris era anche sceneggiatore, e infatti questo romanzo è diventato un film diretto da Otto Preminger, starring Paul Newman).

Per quanto riguarda i contenuti, molti hanno accusato Uris di propaganda antipalestinese. 

Dal mio punto di vista, sì, è vero che i musulmani sono spesso identificati come ladri, ignoranti e violenti, ma stiamo parlando di tribù seminomadi che attaccavano i neo-insediati ebrei: in un romanzo di poche pretese psicologiche è “normale” che si prendano le parti dei protagonisti che devono affrontare le difficoltà per arrivare al loro scopo (una nazione ebraica).

Tanto più che certi musulmani diventano amici di Ben Arì e di suo padre, dunque la caratterizzazione negativa non mi sembra così generalizzata.

Nel romanzo si parla molto peggio degli inglesi! Quelli sì che erano i veri traditori!

Il primo volume finisce con l’Exodus che, dopo aver gabbato gli inglesi facendo leva sull’opinione pubblica mondiale, arriva sulle coste della Palestina.

Per ora mi fermo al primo volume. Seppure interessante dal punto di vista storico, secondo me è un po’ debole sulle caratterizzazioni psicologiche.

Prendiamo Kitty, ad esempio: resta vedova dell’uomo tanto amato e poi le muore la figlioletta. Pochi anni dopo, incontra una adolescente nel campo di internamento inglese a Cipro e scatta il colpo di fulmine, e addirittura pensa di adottarla… il passaggio è troppo rapido e poco verosimile.

Uris è più efficace quando allarga lo sguardo, quando, attraverso i lunghi flash back, ti fa capire come è stato trattato il popolo ebraico nei secoli, e soprattutto come i governanti dei vari stati, per motivi di volta in volta diversi, siano riusciti a trasformare gli ebrei in capri espiatori.

Una cosa ho notato: è più facile instillare l’odio verso certe minoranze sfruttando il senso di inferiorità delle popolazioni. Chi si sente escluso, chi si sente impotente, chi crede (o è) vittima di ingiustizie… tutta questa gente ha bisogno di qualcuno su cui sfogarsi.

Una volta erano gli ebrei.

E oggi?

Gente frustrata ce n’è a iosa, guardate i social!

Basta raccontare una storia in modo leggermente diverso e il capro espiatorio… è qui!

 

 

 

 

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La fenice rossa (Tess Gerritsen) @LibriLonganesi

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Un thriller, ogni tanto, ci vuole, per rilassarsi.

Questo l’ho scelto, in particolare, per la copertina dai richiami cinesi (eh, sono fissata, lo so). Infatti la vicenda è ambientata nella Chinatown di Boston.

La protagonista è Jane Rizzoli, detective, e indaga sull’omicidio di una sconosciuta a cui è stata mozzata di netto una mano con una lama molto affilata. Il fatto è accaduto sul tetto di uno stabile nel quale, diciannove anni prima, è avvenuta una strage: il cuoco è uscito dalla cucina, ha sparato a tutti i presenti, e poi si è sparato in testa.

Nel corso della vicenda, le indagini si incasinano quando viene coinvolto un boss della malavita irlandese, quando si trovano dei strani peli animali di cui non si capisce l’origine e quando e si scopre una sfilza di ragazzina scomparse nell’arco di venticinque anni; ma non dico oltre.

La trama è ben orchestrata, con i tasselli che vanno al posto giusto pian piano, ma facendo anche venire a galla anche nuove domande ad ogni nuova scoperta.

Tra gli altri personaggi, ci sono una misteriosa insegnante di Wushu, che era sposata al cameriere del ristorante cinese; un’anatomopatologa professionalmente inflessibile ma sentimentalmente incasinata; il marito di Jane Rizzoli, agente speciale; e tutta una serie di poliziotti in servizio o in pensione.

Il finale?

Ogni volta che credi di essere arrivata a una soluzione, ti accorgi che mancano ancora troppe pagine alla fine, e dunque te la metti via, perché sta per arrivare un altro colpo di scena.

A me è piaciuto: 4 stelline su 5.


 

L’autrice è di origini cinesi. Ha scritto il romanzo sfruttando alcune delle storie che le raccontava sua madre, tutte ambientate nel paese della Grande Muraglia. Ha lavorato un periodo come medico alle Hawaii, col marito, poi si sono trasferiti nel Maine dove ora lei vive di scrittura.

 

 

 

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Il desiderio di essere come tutti (Francesco Piccolo)

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Oggi è il 25 aprile, e, come ogni anno, (quasi) tutti si sentono in dovere di postare una bandiera italiana, una foto di ambientazione partigiana o le parole di una canzone patriottica. E’ il desiderio di essere come tutti. E, come tutti, da domani torneremo ad essere i soliti criticoni, qualunquisti, aspiranti emigranti (eccomi qua).

Perché in Italia la partecipazione politica dei cittadini (salvo eccezioni) si riduce a questa lamentela sullo stato del Paese e a un arroccamento elitario sulle proprie posizioni. Azioni concrete per favorire il cambiamento? Eh, beh, ecco, io…

Francesco Piccolo si è comportato in modo diverso, nel corso della sua vita?

In questa biografia, ce ne parla. Ci racconta del suo primo risveglio alla “cosa pubblica”, a nove anni, e poi, del compromesso storico, del rapimento Moro, del suo attaccamento a Berlinguer e del suo odio per Berlusconi.

Ma ci parla anche come è cambiato negli anni il suo atteggiamento politico: partito da un ideale di purezza, è approdato a una visione più pratica (il passaggio da una politica dei principi a una politica della responsabilità, direbbe Weber).

Chi fa politica secondo l’etica dei princìpi, segue le sue idee e tiene conto soltanto di quelle – in pratica si sottrae a un vero e proprio atto politico; chi fa politica secondo l’etica della responsabilità, si pone ogni volta il problema di ciò che accadrà in seguito a una sua decisione – in pratica mette in atto un’azione politica.

E’ quello che auspica, tra le righe, per la sinistra italiana: Berlusconi è salito al potere perché allora, Bertinotti, decise di seguire la via etica, rifiutando di appoggiare il governo con Prodi. E’ stata una scelta dettata dalla convinzione di stare dalla parte dei giusti, ma che effetto ha avuto? Il governo Prodi è caduto ed è arrivato Berlusconi.

E quando Berlusconi era al governo, la sinistra ha cominciato a denigrarlo dal punto di vista morale, invece di attaccarlo nella sua veste istituzionale, perché la sinistra sapeva di essere moralmente superiore. Peccato che questo l’abbia isolata e l’abbia privata di efficacia.

Si è ridotto tutto a un esercizio retorico dell’opposizione, dell’estraneità: con ogni probabilità, questo fenomeno ha avuto luogo per combattere la paura della diversità, la paura verso il potere di quest’uomo, con una denigrazione sul piano personale che ne abbassasse il pericolo. Ma l’operazione di dissacrazione del mito ha soprattutto distratto dalla lotta politica, dal centro delle questioni. Dalla costruzione di un’alternativa più efficace che potesse piacere al Paese.

Ma la biografia non parla solo di purezza e impurità, di impegno e superficialità. Parla anche del rapporto tra pubblico e privato, di come le due sfere debbano in qualche modo parlarsi per far sì che i cittadini siano buoni cittadini.

Ho finito di leggere questo libro proprio oggi, 25 aprile, quando tutti si sentono in dovere di scrivere da qualche parte parole come “libertà”, “fascismo”, “Italia”.

E’ il libro di uno che, a partire dai 9 anni, si è sempre interessato di politica: ne ha letto, scritto, discusso. Di uno che ammette i propri errori e gli errori del proprio partito, e che è arrivato alla conclusione che questi errori possano esistere, e non li esclude a priori solo per il fatto di appartenere ad un certo schieramento.

L’abitudine è quella di sentirsi estranei agli errori, estranei alle brutture del Paese. L’estraneità rende impermeabile la conoscenza, e senza conoscere le ragioni degli altri, non si può combatterle.

E invece, nel grande come nel piccolo, vedo sempre questa convinzione di essere nel giusto (quando va bene… quando va male, vedo totale disinteresse per la politica).

Non sono ottimista per il futuro dell’Italia.

Mi dispiace, Piccolo, ma se potessi emigrare, oggi, con famiglia e burattini, lo farei.

 

 

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Il mandarino bianco (Jacques Baudouin)

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Romanzo sulla vita di Teodorico Pedrini, musicista (e pure prete, ma… a fasi alterne!).

Vissuto a cavallo tra il 1600 e il 1700, il Papa lo mandò in Cina per controllare i gesuiti (che stavano “cedendo” troppo su certe questioni ritualistiche) e con la speranza di convertire al cattolicesimo niente popò di meno che… l’imperatore Kanxi!

Bisogna dire che Pedrini era diventato prete in modo particolare: la sua più grande passione era la musica, ma senza appoggi nobiliari o ecclesiastici aveva poche possibilità di sfondare. Cedette alla tonaca solo dopo la morte della ragazza di cui si era innamorato (schiacciata dai cavalli durante il carnevale, per la cronaca).

Ovviamente, come in ogni avventura che si rispetti, per andare da Roma a Pechino, il Papa non gli ha fatto fare la strada più breve, via terra: lo ha mandato prima nel nord della Francia, a S. Malo; poi con la nave gli ha fatto attraversare lo stretto di Magellano, passare per il Cile, andare in Messico (dove stava per restare a causa di una meticcia) e poi ripartire per la Cina.

Il viaggio per arrivare in Cina è durato solo (!!) sette anni, anni molto difficili, considerando i pericoli dei viaggi a quei tempi.

A Pechino viene ricevuto dall’imperatore Kanxi soprattutto grazie alle sue capacità musicali, ed assurge fino alla carica di mandarino: onore tra gli onori!

Peccato che l’imperatore sia sotto l’influenza dei gesuiti…

I gesuiti nel 1600-1700 sono molto potenti perché dispongono di conoscenze matematiche ed astronomiche che sono utili all’imperatore.

Le fortune di Pedrini, così come sono salite alle stelle in maniera repentina, in maniera altrettanto repentina cadono nelle fogne.

Viene arrestato, picchiato e incarcerato con una scusa qualsiasi.

Durante la prigionia, pensa di continuo alla concubina e al figlio (ve l’avevo detto che era prete a fasi alterne), ma riflette anche sull’opportunità di costringere i cinesi ad adottare i riti romani: è davvero così necessario che rinuncino a prostrarsi davanti alle tavolette dei loro antenati?

Quando muore Kanxi e sale al trono il figlio, le fortune di Pedrini si risollevano.

Per poco: perché arriva il terremoto e lui resta vedovo.

Sono 317 pagine, dunque potete capire che il mio riassunto qui sopra è stato davvero succinto. Ho sorvolato su tutti gli intrighi di corte (sia occidentali che orientali) che hanno determinato il destino di Pedrini, e sull’inutilità dei suoi sforzi per convertire chicchessia in Cina.

Certo, l’autore non ha uno stile da eccelso scrittore, ma il libro si fa leggere grazie all’andamento episodico, che tralascia i tempi morti di una vita e allontana la noia.

E’ inoltre istruttivo vedere come l’atteggiamento e il pensiero di Pedrini cambino negli anni: all’inizio è convinto della sua missione e i suoi stessi discorsi sono pieni di ragionamenti sulla necessità di convertire i cinesi anche dal punto di vista ritualistico.

Alla fine, Pedrini quasi abbraccia le modalità con cui hanno agito i gesuiti e cerca (tramite interposta persona) di convincere il Papa che se la Chiesa non adotta le tesi gesuitiche, rischia di perdere la Cina per sempre.

Questo non si chiama essere voltagabbana.

La realtà cambia di continuo. Non cambiare idea (quando necessario), non è mancanza di coerenza, ma è sintomo di rigidità mentale.

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Lettura sospesa: “Gridare amore dal centro del mondo” (Kyoichi Katayama)

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Sospendo la lettura a pag. 62 (su 162) perché lo trovo banale. Non mi dà niente né dal punto di vista dei contenuti né dal punto di vista dello stile. Se c’è qualcosa che si salva, è solo l’ambientazione in Giappone.

La storia inizia con il giovane Sakutaro che parte per l’Australia, dove deve gettare le ceneri di Aki, la sua fidanzata, morta di leucemia. Così inizia a raccontare di come si sono conosciuti e della loro vita insieme a scuola.

Secondo me, parlano di amore in un modo molto banale… come potrebbero farlo due adolescenti (come infatti sono).

L’attenzione mi si era risvegliata un po’ quando il nonno di Sakutaro gli ha chiesto di andare a rubare un po’ delle ceneri della donna che ha amato per tutta una vita senza poterla sposare, ma poi questo argomento passa in secondo piano, e la mia attenzione si è spenta di nuovo.

In Giappone questo libro ha venduti circa quattro milioni di copie.

Boh, forse sono io poco portata per i libri rosa.

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Sulle madri lavoratrici: “La ragazza dell’altra riva” (Mitsuyo Kakuta)

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(Mi trovo nella fase delle letture orientali…)

Romanzo ambientato ai giorni nostri: i problemi incontrati dalle due protagoniste sono anche molto occidentali; ad essere diverso, però, è il modo in cui entrambe reagiscono a tali problemi, che è prettamente orientale.

Sayako, trentacinquenne, decide di rientrare nel mondo del lavoro, dopo esserne uscita a causa della nascita della figlia. Trova un posto in una ditta di pulizie: è un’attività estenuante e la sovrintendente è scorbutica, ma Sayako si accorge che uscire di casa le fa bene, parla di più con le persone, è più aperta ed ha più fiducia in se stessa.

Instaura inoltre un bel rapporto con la titolare, Aoi, sua coetanea, ma dal carattere molto più aperto e positivo del suo.

Ho trovato molto verosimile la descrizione delle difficoltà incontrate da Sayoko, una donna con famiglia a carico che decide di lavorare.

I familiari non la appoggiano: il marito, contrario al fatto che la moglie lavorasse fuori casa, fa commenti sprezzanti, senza mai alzare una mano per aiutare. La suocera critica in continuazione. Sayoko stessa prova molti sensi di colpa nei confronti della figlia.

Altri problemi incontrati da Sayoko sono simili ai nostri: le liste d’attesa agli asili, i rapporti con la suocera, i pettegolezzi sul posto di lavoro, i mariti che non aiutano, l’attenzione all’economia domestica, i gruppetti delle mamme, la preoccupazione che i figli non si integrino coi compagni…

Poi ci sono le difficoltà specificatamente giapponesi, ad esempio, il fenomeno del bullismo scolastico, che è spesso collegato a quello dei suicidi adolescenziali.

Molto “giapponese” è anche la reticenza a esprimere i propri sentimenti.

Aoi, ad esempio, ha alle spalle una storia pesante: da giovane si era molto legata a un’amichetta; assieme a lei aveva anche tentato il suicidio lanciandosi da un palazzo, ma dopo essere scampate entrambe alla morte, si sono perse di vista. Ebbene, Aoi non riesce ad esprimere la sofferenza che ha provato dopo la sparizione dell’amica. Se è costretta a scambiare due parole sull’argomento con Sayoko, lo fa scherzandoci su. Non si apre, è sulla difensiva, ha paura di soffrire ancora.

Anche in questo libro, come in quello di Yu Miri (v. post precedente), i protagonisti cercano di mostrarsi sempre allegri e di non far trapelare tristezza o rabbia. Tale ritrosia ostacola la costruzione di un vero rapporto tra due persone e, ovviamente, genera solitudine: è uno dei motivi per cui i suicidi giovanili sono così diffusi.

294 pagine, ma lette in tre giorni: non perché ci siano avventure all’Indiana Jones (non ci sono neanche gran colpi di scena), ma proprio per questo senso di “mal comune mezzo gaudio” che ho provato davanti alle esperienze di una mamma lavoratrice, di questa donna altamente insicura di sé che accetta il rischio di rimettersi in gioco, nonostante le difficoltà.

Dà speranza.

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