La psichiatra (Wulf Dorn)

Ellen Roth lavora in un ospedale psichiatrico tedesco.

Un giorno inizia a occuparsi di una paziente di cui non si conosce il nome: è piena di lividi, traumatizzata, fatica a parlare e si rannicchia negli spazi più assurdi nella speranza di nascondersi. Ha paura dell’Uomo Nero, e dice a Ellen che verrà a prendere anche lei.

La paziente le è stata lasciata dal fidanzato, anch’esso psichiatra, che è dovuto partire per l’Australia, in un luogo che non è raggiungibile dai cellulare, per cui Ellen non ha modo di confrontarsi con chi ha trattato la paziente per primo.

Ad aiutarla è un altro collega, Mark, che però, quando cerca di parlare con la paziente, non la trova. Sparita. Non ci sono neanche i documenti che attestano il suo passaggio per il pronto soccorso. Mark, dunque, inizia a dubitare della sanità mentale di Ellen che a sua volta, inizia a dubitare di Mark quando viene aggredita nel bosco da un uomo incappucciato.

Nei pochi momenti di riposo, Ellen fa molti sogni, dove compaiono cani neri (il lupo di Cappuccetto Rosso?), una casa in fiamme, due bambini che bruciano al suo interno. Sono sogni pilotati, dove lei ha un certo margine di manovra per scoprire indizi.

Alla fine, quando si scopre il colpevole e che fine ha fatto la donna che Ellen cerca disperatamente di aiutare, si capisce che gli indizi erano tutti sotto gli occhi del lettore.

Io non sono mai stata una brava detective, mi ero solo fissata sul fatto che Ellen non riuscisse a contattare il suo fidanzato Chris, e che ovviamente ha una ragione molto forte.

Un libro che ho letto in due giorni. Intrattenimento facile, stile americano, solo con i nomi propri tedeschi.

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Un posto nel mondo (Fabio Volo)

Il romanzo inizia con Michele che è nella sala d’aspetto di un ospedale: nella stanza accanto, la compagna sta partorendo. Così Michele inizia a ricordare i passi che lo hanno portato fino a quel punto, e ricorda Federico, l’amico più importante di tutti.

Michele e Federico sono amici fin dalla prima media. Hanno diviso tutto, dalle donne alle partite di subbuteo. Ma arrivati a 28 anni, Federico si accorge che vuole di più della vita, e allora parte.

Ma prima di raccontarci di Federico, Michele ci racconta di come ha incontrato Francesca: nel bar dove lei lavorava e lui andava a prendere il caffè.

Ho sempre sentito pareri discordanti su Volo, ma prima di parlarne male, dovevo leggere qualcosa di suo. Adesso ho letto solo cinquanta pagine, ma non ce la faccio ad andare avanti e mi arrogo il diritto di parlarne male…

Per due motivi principali.

Uno: troppe smancerie. La storia dell’incontro con Francesca è piena di patemi d’animo, bigliettini pseudo-poetici, feste, la chiamo o non la chiamo, rimbambimento, amore e baci… Volo ci dice tutto. Tutti i pensieri che lo assillano durante l’innamoramento, anche se si tratta di immaginarsela seduta sul water, e di chiedersi se prende subito la cartaigienica o se lo fa dopo.

La letteratura dovrebbe essere anche svelamento. Non puoi mettere tutto in piazza. Ci vuole un po’ di rispetto del pudore. E non mi riferisco all’uomo seduto sul water con i cerchietti sulle ginocchia dove ha tenuto i gomiti appoggiati. E’ una questione di sentimenti: sono ciò che abbiamo di più intimo, non puoi spiattellarli così sulla carta senza un minimo di attenzione.

Due: lo stile.

Michele e Federico parlano come mangiano. Hanno qualche difficoltà con il congiuntivo e non dispongono di un lessico molto ampio.

L’idea del giovane (relativamente giovane, a 28 anni) che cerca la propria strada è uno dei temi più sfruttati dalla letteratura, e mai pienamente approfondito, perché ogni persona lo affronta a modo proprio. Il romanzo di formazione è un genere per conto suo, ma ogni romanzo di formazione è diverso dall’altro.

Dunque il tema era apprezzabile.

Ma non me lo puoi approcciare con parole così:

“La propria cosa, la propria chiamata, il proprio talento o capacità da esprimere. Insomma, quella roba lì”

Cosa, roba: due parole che non dicono nulla nella stessa frase. E’ una frase che ci sta, col personaggio Federico. Ma io ho bisogno di imparare qualcosa dai libri, non di tornare indietro.

No, mi fermo qui, ho altri libri da leggere.

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Esercizio di poesia

SASSO TRA I SASSI

succubi

sotto la suola sottile

odorano di eternità ignorata

di Eco sciolta nelle lapidi

sollevato dalle dita

Uno anela al suolo

con lamento muto, muffoso.

E lanciarlo alle nuvole

e mancarle, sempre!

E centrare il vulcano

e mai, farlo eruttare!

E mangiarlo, pure

senza fame, né bolo…

invano:

preludio patologico,

dondola dalla costola

turibolo senz’orbita né aroma

grumo di tempo condensato

assopito su anestetici scaffali

tra macigni amebici

globulo di ere passate

posatesi a strati sul nucleo denso

avulso da ogni astratta geologia

sunto di volontà e desideri

dissolti come cupo sudore

sul boato di un nuovo

ipnotico

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I segreti della corona (Kitty Kelley)

Devo sospendere la lettura di questo libro perché mi innervosisce scoprire come i reali se la spassano alle spalle del popolo. Un popolo, tra l’altro, che li rispetta e li mantiene. E li difende, pure! Soprattutto dopo che sono morti, come è successo nel caso della cara e dolce vecchietta Regina Elisabetta…

Kitty Kelley è una giornalista che ha chiesto l’appoggio della casa reale per ottenere delle informazioni di prima mano, ma tale appoggio è stato rifiutato. La Kelley ha dovuto allora ricorrere spesso a dipendenti reali che non poteva nominare, perché tali dipendenti sono assunti con la clausola di riservatezza assoluta in merito a quello che i nobili fanno e dicono, anche quando stanno facendo e dicendo cose che non hanno niente a che fare con il loro ruolo governativo.

I dipendenti che non rispettano tale clausola di riservatezza vengono licenziati e, se sono in pensione, perdono la pensione.

Ma le informazioni circolano, e i reali hanno tanti, tantissimi parenti e “amici”. E anche se la stampa ha l’ossessione dei reali, la Kelley è venuta a scoprire delle cose che magari non fanno cadere la monarchia (non era questo il suo scopo), ma che ne ridimensionano molto l’alone morale di cui la corona si è rivestita.

Prendiamo ad esempio i genitori della regina Elisabetta:

Poche persone ricordavano che (…) erano stati restii a opporsi a Hitler e che come primo ministro vedevano meglio Chamberlain di Churchill. (…) lo zio preferito della principessa (Margaret) aveva osannato la Germania nazista come salvatrice dell’Europa e che il principe suo cugino aveva diretto un campo di concentramento.

La sorella della regina Elisabetta, Margaret:

In una discussione sull’India, affermò di odiare “quegli ometti dalla pelle scura. (…) usò parole di fuoco contro tutti gli irlandesi. “Sono maiali”.

Parlando del film Schindler’s List,

Consigliò al suo maggiordomo di non sprecare denaro per quel film (…). Era così sgradevole e disgustoso che ho dovuto alzarmi e andarmene.

E poi, durante la guerra:

Sebbene l’uomo della strada fosse portato a credere che il re e la regina e le due piccole principesse si stessero privando della carne, del pane e del burro come tutti e condividessero il magro vitto dell’Inghilterra fatto di patate bollite, cavoletti di Bruxelles e uova in polvere, al di qua dei cancelli del palazzo si sapeva che le cose stavano diversamente. Il re e la regina non rispettavano il rigido razionamento del cibo, mangiavano regolarmente roast beef e bevevano champagne. Sui panetti di burro era inciso lo stemma reale.

Il re ordinava ogni giorno per colazione due uova e sei fette di pancetta alla griglia e pernici quand’era stagione di caccia per cena tutte le sere. La regina (…) continuava a mangiare le sue focacce di avena, un ricco dessert preparato dallo chef di corte, che la fece aumentare di cinque chili in un anno.

Quando andarono negli Stati Uniti alla Casa Bianca, la regina si portò dietro diverse damigiane di acqua londinese per farsi preparare il té.

Benché la vendita della seta al pubblico fosse stata proibita e ne fosse consentivo l’uso solo per la fabbricazione dei paracadute, per la regina furono fatte eccezioni, e quando giunse il momento di partire per gli Stati Uniti era solita cambiarsi s’abito almeno quattro volte al giorno.

Non è così strano che i reali si trattino bene, ma cosa ne avrebbe pensato l’uomo comune se l’avesse saputo? Credo sia giusto che il popolo che mantiene il governo sappia queste cose.

Il problema è anche nostro: non sappiamo quanto mangiano alle nostre spalle i governanti.

E loro lo tengono nascosto. Perché hanno paura.

Ho avuto una settimana pesante.

Ho dovuto litigare col gaglioffo dentista di mio padre, perché si è approfittato che un ottantacinquenne che non ci sente e gli ha fatto delle operazioni che non erano state richieste (sebbene io fossi andata con lui alla visita di controllo, queste operazioni a me non le ha neanche nominate).

E mi son dovuta sorbire un’urlata di sfogo dalla titolare perché un agente della Puglia gli ha riferito informazioni parziali e incomplete. Ho chiarito, ma intanto le orecchie mi fischiano ancora dalle urla. A 48 anni non è simpatico farsi urlare come fossi una bambina delle elementari.

Dunque, perché devo leggere un libro che invece di rilassarmi, mi fa innervosire di più?

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Occhio di gatto (Margaret Atwood)

Elaine Risley è una pittrice ormai affermata che ritorna a Toronto per una mostra retrospettiva delle sue opere. Ripercorrendo le strade che il tempo ha trasformato a volte in modo quasi offensivo, inizia a ricordare il suo passato.

Gli anni della guerra, la povertà, i viaggi in macchina con i genitori, le soste nei motel o nelle tende in mezzo ai boschi (il padre era un biologo), ma soprattutto, Elaine ricorda Cordelia, un’amica dei tempi dell’infanzia che è per molti anni un’aguzzina psicologica a capo di altre due ragazzine.

Elaine, da bambina, ha una vita anticonvenzionale in compagnia quasi esclusiva dei genitori e del fratello Stephen: quando entra nel mondo della scuola e scopre le altre bambine della sua età, inizia a desiderare di essere accettata. E’ un desiderio spasmodico, che la porta al limite dell’esaurimento e fino al punto di mettere in pericolo propria vita.

Come ancora di salvezza, c’è solo una biglia, un occhio di gatto, da tenere nel palmo della mano.

I ricordi si allargano poi alla giovinezza, quando Elaine inizia una relazione con un professore di disegno dal vivo, e poi con il suo futuro marito. Ci sono i ricordi del matrimonio, delle litigate, della sua arte che fatica a farsi strada in un mondo prevalentemente maschile.

Molti identificano la Atwood come una scrittrice femminista: secondo me è uno sbaglio. Tra le righe si legge sempre una certa diffidenza nei confronti degli estremismi di qualunque tipo, anche sessisti. Ad esempio, c’è una lieve ironia nell’iconoclasta richiesta di non radersi le gambe da parte di un gruppo di donne: lei si depila, e si sente esclusa dal gruppo.

E’ un romanzo intimista, con pochi eventi ma molto approfonditi, dove i ricordi saltano sulla pagina con la loro forza dirompente. Su tutto, l’attesa di Cordelia, l’amica piena di luci e ombre che forse verrà alla mostra, forse no.

Ma il libro contiene anche tanti accenni a una certa idea di arte: quella che se ne frega dell’estetica, e che parte tutta da una metabolizzazione dei propri ricordi.

Non un romanzo avvincente, forse, ma riflessivo sì.

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I genitori della regina Elisabetta: film e libro

Ho rivisto ieri il film “Il discorso del re”: bello, ti ispira a darti da fare, ti dona fiducia nell’amicizia.

Quattro premi Oscar.

Colin Firth, che interpreta il ruolo del re Giorgio VI, padre della regina Elisabetta, è un uomo traumatizzato da un’infanzia all’ombra di un padre-padrone e di tate senza scrupoli, nonché della sfortuna fisica (rachitismo).

Riesce tuttavia a riscattarsi dalla balbuzie che lo affligge dai cinque anni e a portare avanti la monarchia attraverso la seconda guerra mondiale.

La moglie, interpretata da Helena Bonham Carter, è saggia e composta.

Insomma, tutti eroi senza macchia e senza paura. La bellezza del film ti fa dimenticare che la realtà non è mai unidimensionale.

Ho iniziato a leggere il libro della giornalista Kitty Kelley, “I segreti della corona”, e già alle prime pagine ci ricorda che la dinastia dei Windsor non è inglese al 100%, perché è ha radici tedesche. L’inglesizzazione si è resa necessaria nel 1915 ed è stata portata avanti da Giorgio V, il nonno della regina Elisabetta, che ha rinnegato parenti e amici tedeschi pur di salvare la corona dall’ondata antiprussiana che era sorta in quegli anni.

Ma questo non è così grave: le monarchie e gli aristocratici erano tutti imparentati tra loro (e credo lo siano ancora).

Quello che esce dalle prime pagine del libro, però, è un’immagine molto meno favoleggiante dei genitori della regina Elisabetta:

“… erano stati restii a opporsi a Hitler e (che) come primo ministro vedevano meglio Chamberlain di Churchill”.

La madre della regina Elisabetta “ricevette solo un’istruzione approssimativa, ma molto attenta alle virtù necessarie a un buon matrimonio”. Fu una regina amatissima, molto presente in tantissime cerimonie ufficiali: “tagli dei nastri, visite ai reggimenti, vari di navi e posa delle prime pietre”.

“Fu geniale nel promuovere se stessa e il marito, soprattutto negli anni della guerra, quando sostenne il debole e incerto uomo che aveva sposato e gli conferì l’aspetto di un re”.

Era talmente amata, che la stampa britannica si autocensurava: non dissero mai una parola in merito alla sua propensione all’alcool e al gioco d’azzardo, minimizzandole come hobby di una vecchia signora, e non venne mai condannato il suo appoggio alla minoranza bianca che governava in Rhodesia. Era una figura intoccabile.

Sembra comunque che, lungi dall’essere dolce e premurosa come Helena Bonham Carter, fosse dura, dispotica e decisa a diventare regina ben prima di sposare il marito (tant’è che ci furono chiacchiere di lei col cognato David, che invece preferiva le donne filiformi e sposate, e che infatti ha rinunciato al trono per un’americana divorziata).

Ovvio, che nessuno diffuse la notizia che le principesse Elisabetta e Margaret nacquero con l’inseminazione artificiale: sembra infatti che il padre, per una serie di fattori psicofisici, non fosse in grado di procreare.

Niente di grave, fino a qui.

Ma mi sono buttata giù questi pochi appunti per ricordarmi di dubitare sempre delle storie troppo romantiche.

Sempre.

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Il saluto romano nel mio paese? Anche no…

Cerco di non parlare di politica in questo blog, ma se non ti interessi di politica, alla fine è la politica che si interessa di te.

L’episodio del saluto romano di Laura Motta nell’amministrazione del neo-eletto sindaco Gianluca De Stefani è semplicemente vergognoso.

Dopo quarant’anni di amministrazione di sinistra, a S. Stino di Livenza sale al “potere” un’amministrazione di destra, e cosa combina nella sua prima uscita pubblica? Fa parlare tutti i giornali del saluto fascista di una neoeletta.

Posso vergognarmi a nome del mio paese (anche se acquisito)?

Ora… come può saltare in testa a una persona di fare una cosa del genere? Il saluto romano è un simbolo con implicazioni molto profonde, e, anche se è stato giuridicamente accertato che non è reato, se uno arriva a compierlo così, senza pensarci, significa che non ha la più pallida idea di cosa significhi assumere un ruolo pubblico, e che dunque di quel ruolo pubblico non è degno.

Infatti sembra che De Stefani abbia chiesto le dimissioni della signora.

Spero che Laura Motta abbia la decenza di seguire il consiglio (e sarebbe bello che facessero lo stesso anche i politici a livelli più elevati che hanno commesso lo stesso errore…).

I simboli di questo tipo sono come i sintomi di una malattia: bisogna curarli ai primi sentori, o la malattia rischia di cronicizzarsi.

E non ditemi che sto esagerando: quando il fascismo è salito al potere, agli inizi non era che un manipolo di esaltati. Se poi è diventato quello che è diventato, non è stato solo grazie a quel manipolo di esaltati. Le colpe più grandi forse le hanno avute tutti quegli “ignavi” che sono rimasti a guardare senza far nulla, in attesa degli eventi, o che qualcun altro reagisse.

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La tristezza ha il sonno leggero (Lorenzo Marone)

Dopo aver letto “La tentazione di essere felici”, che mi è piaciuto, mi son detta: proviamo a leggere il secondo libro pubblicato da Lorenzo Marone, appunto, “La tristezza ha il sonno leggero”.

Vi dico subito che non è stato all’altezza delle aspettative. Sì, un libro carino da leggere, ma non così coinvolgente.

Il protagonista è Erri, un quarantenne che è appena stato lasciato dalla moglie: Matilde gli ha infatti confessato di essere andata a letto con un collega. Marito e moglie avevano cercato per anni di avere un figlio, ma non è mai successo nulla finché, dopo la separazione, Matilde gli fa sapere di essere incinta.

Di chi sarà il figlio? Questo è il primo nodo da sciogliere.

Ma di nodi da sciogliere, Erri ne ha tanti.

E’ il primogenito di due famiglie, perché i suoi genitori si sono separati e si sono rifatti entrambi una vita con altri compagni e altri figli.

Col padre, Erri non ha mai avuto un vero e proprio rapporto; va più d’accordo con la nuova moglie di lui, spagnola, e con la sorellastra Flor.

Con la madre, è impossibile avere un rapporto: è una generalessa (lui la chiama “capo miliziano”) con un passato in politica che deve avere tutto sotto controllo e che sa rendersi antipatica più del dovuto.

In compenso, la madre si è sposata con un uomo d’oro, tale Mario, comprensivo e sensibile, che non solo sa andare d’accordo con la donna, ma sa anche guadagnarsi l’affetto del figliastro.

E poi c’è la figlia che Mario ha avuto dal primo matrimonio: Arianna. Di Arianna, Erri è sempre stato segretamente innamorato.

Erri è un tipo infelice di professione: poco attraente, per alcuni anni ha svolto un lavoro che non gli diceva nulla, finché, dopo la separazione, apre un negozio di fumetti. Questo però non basta per farlo sentire a posto: si sente sempre fuori contesto, sia in una famiglia che nell’altra, e gli sembra che tutti abbiano delle vite felici, tranne lui.

Ovviamente la verità è diversa, e il libro ce la fa scoprire un po’ alla volta.

Non l’ho però trovato molto coinvolgente perché, con tutti questi personaggi, per renderli ben distinti, l’autore ha dovuto estremizzare certi comportamenti: Flor è piuttosto improbabile, Arianna è ambigua (tanto), il padre è un intellettuale ma vive per un pezzo vendendo biglietti al Luna Park, la madre maltratta le donne delle pulizie, le corna abbondano…

Forse presi singolarmente non sarebbero personaggi così fuori di testa, ma, messi tutti insieme, compongono un puzzle caotico, dove si perde il tema di fondo.

E quale è questo tema di fondo? Sempre la felicità, come nel primo libro. E, come nel primo libro, Erri è un personaggio che non prende le sue decisioni in modo consapevole, perché preferisce lasciar scegliere agli altri o accodarsi agli eventi. Non solo: è un personaggio che, come nel primo libro, ha paura di soffrire, e dunque, per evitare le emozioni negative, ha attutito anche quelle positive.

Se nel primo libro questo tema delle non-scelte era ben intonato, dopo il secondo libro comincia a suonare un po’ come self-help.

Sono critica, lo so, ma non lasciatevi fuorviare: è comunque una lettura carina, che si tira su grazie a una serie di frasi che, anche se a volte sono un po’ banalucce, sembrano fatte apposta per venire appuntate da qualche parte. Insomma: il mio non è un giudizio totalmente negativo. E’ che partivo da aspettative alte.

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DIVA IN BIANCO E NERO

Gli anni Sessanta… quelli sì che erano anni da vivere! Tutti gentili, tutti che le facevano complimenti, uomini che gareggiavano per sedersi accanto a lei alle feste… al colmo della sua notorietà, le arrivavano in media una dozzina di mazzi di fiori a settimana, di cui, senza esagerare, la metà erano rose rosse. Per non parlare degli uomini che le si dichiaravano: poesie, discorsi, lacrime! E Viviana Giorgetti si concedeva, e più quelli che le toglievano l’aria a forza di starle attorno: erano troppi!

C’erano anche quelli che che mostravano disinteresse nei suoi confronti: fingevano solo, certo, perché poi quando lei faceva un passo, magari con la gamba dalla parte dello spacco, allora anche i bei tenebrosi cadevano come cachi sfatti. E lei passava ad altro, lasciandoli con le loro facce di cenere.

A quelli che non appartenevano al mondo del cinema, il suo atteggiamento sembrava frivolo, quando non venivano usati termini meno signorili. Ma Viviana Giorgetti compativa tutta la gente che non era abituata, come lei, a stare dentro a uno schermo: vite monotone, senza viaggi a Hollywood, senza armadi a sei ante pieni di scarpe e vestiti da sera, senza paparazzi a inseguirti per strada come se la loro vita dipendesse dalla sorpresa che riuscivano a imprimere sul suo viso.

Gente incapace di imparare a memoria un copione, spesso limitata nelle capacità economiche, quasi sempre in quelle estetiche. Gente che non sa cosa sia l’arte.

Gente come quella che la circonda adesso, a questea premiazione del concorso letterario intitolato allo scrittore Nino Toriche.

Maria Toriche, la figlia del compianto artista, ha chiesto a Viviana – anche quest’anno – se poteva presenziare e legger il racconto vincitore e lei si è accorta di avere del tempo libero e che può farle questo piacere.

Fatto sta che ora la Giorgetti è qui, attorniata da uomini, come sempre: il presidente della giuria, il suo vice, il sindaco, che avrà quarant’anni e non si sa chi può aver eletto uno così giovane a una carica del genere; Ugo Rossi, un vecchio amico dei Toriche che non manca mai all’incontro annuale, e un vecchietto mai visto prima che la guarda in estasi: si vede che la Giorgetti, a ottantatré anni appena compiuti, sa ancora attirare gli sguardi. Per fortuna ha chiesto di essere messa su un tavolo a parte per il pranzo al ristorante, non con questa gente avida di farsi i selfie con la famosa attrice.

Ecco che arriva Maria: “Viviana, la prego, venga, le presento la vincitrice del concorso”, e le mette davanti una famigliola di tre persone che di sicuro ha comprato l’abbigliamento alla bancarella dei cinesi. Non deve esser stato facile per loro trovare le taglie giuste, considerando la larghezza media degli orientali: questi tre sono extra large. Padre, madre e bambino di un anno: sbordano pance e fianchi nei due adulti, ma anche il piccolo ha una faccia a pallone che lascia presagire come sarà da grande.

“Questo bambino avrebbe bisogno di un po’ di dieta” dice Viviana prima di accorgersi che la frase non è molto felice. Poco male: i due genitori ne ridono come se fosse stata una battuta, del tutto ignari del dato di fatto che un bambino grasso sarà un adulto obeso. La madre fa un gioviale commento sugli orecchini di Viviana: a forma di acchiappasogni, lunghi, ancora riescono a mettere in risalto il suo lungo collo, ma lei svicola il complimento, prima chiederà quello che deve chiedere e prima potrà allontanarsi dai tre esponenti del popolino.

“Bello il suo racconto, certo. Ma se lei mi permette, visto che lo leggerò io, farei una piccola modifica, piccola, davvero.”

“Che modifica?” chiede l’aspirante scrittrice, un granello di sabbia grasso nela squallida spiaggia degli aspiranti scrittori.

“Aggiungere alla fine un ‘Mah!’, tanto per lasciare il dubbio se quello che è successo è successo davvero o no.”

“Oh, va bene” risponde l’altra. “Faccia pure!”

“Un Mah! Su cui finisce tutto.”

“Ma certo, certo, si figuri.”

E’ così tronfia del suo momento di gloria che non si accorge neanche come quel piccolo “Mah!” alla fine stravolga tutto il suo racconto, che non lasciava invece alcun dubbio sulla veridicità della vicenda. Poveraccia.

Dopo pochi minuti la accompagnano nella sala dove si svolgerà la lettura e la premiazione. Con la coda dell’occhio, Viviana Giorgetti intravede un ragazzetto che consegna un enorme mazzo di gerbere alla Maria nella saletta attigua: quelle saranno per lei o per l’aspirante scrittrice? Per lei, di sicuro. All’altra già spetta una stampa firmata da Eugenio Bocci, di cui quella famigliola non capirà neanche il valore.

Si incomincia coi saluti e i ringraziamenti di rito. Parla il sindaco e poi il presidente della giuria, col solito prologo sull’alta qualità di tutti i testi inviati, e poi, prima di presentare (come se servisse) e lasciare la parola all’attrice, dice: “Lasciatemi però anche fare gli auguri per il compleanno che cade proprio oggi al nostro Benito Laurenti” e indica il vecchio che la fissava come in trance poco prima. “Senza di lui a occuparsi degli sponsor, difficilmente saremmo qui oggi. Ai tuoi settant’anni, Benito!”

Applauso.

Viviana non si unisce subito al battimani. Settanta? Tredici meno di lei. Tanti. E sembra già così vecchio? Lo scroscio di mani che accoglie lei quando viene presentata dal presidente scalda l’aria già messa alla prova dalle undici di quel sabato agostano. Poi, finalmente, il silenzio.

Viviana Giorgetti si aggiusta sulla sedia, allinea i fogli davanti a lei, sui quali ha segnato dei simboli tonici per ricordarsi dove puntare la voce, e lascia che Maria le metta davanti il microfono, non troppo lontano ma neanche troppo vicino da farle ombra o coprirle il viso. Piccoli gesti per separare il suo momento da tutto quello che è esistito prima. Una cesura, un sipario invisibile che si solleva lento e pesante, finchè sulla scena compare lei, solo lei, sempre lei.

E quando inizia a leggere, scompare quel pubblico bruto, ci sono solo fotografi e microfoni e telecamere, le bocche si aprono, gli occhi si socchiudono come se stessero vivendo un sogno durante la veglia, o come se fossero davanti a una luce troppo intensa per le loro retine.

E’ Viviana Giorgetti che sta recitando, quella di cinquant’anni prima, quando vivevano ancora i registi seri, dediti alla musa. E’ seduta, ma il suo viso si muove come se lei fosse la vecchia di cui sta leggendo la storia: una vedova spaurita che sente il marito defunto parlare dal televisore.

Le viene il dubbio, mentre legge, che l’autrice del racconto non avesse voluto renderla così spaventata, che dopo la prima sorpresa la vecchia dovesse ricominciare a parlare col defunto come faceva quando era vivo, riacquistando quel tono a metà tra l’imperativo e l’ironico che nascondeva il gran bene che non si poteva mostrare.

Ma il dubbio di Viviana Giorgetti è solo un ronzio di zanzara che subito se ne va: ormai ha cominciato con la voce lamentosa e rotta, non può cambiare così, di botto. E poi, diciamolo, spettava all’aspirante scrittrice mettere bene giù lo stato d’animo della sua protagonista, senza dialoghi ambigui, altrimenti il tono lo decide chi legge, e Viviana ha deciso.

Il racconto si avvia alla fine.

Viviana Giorgetti pronuncia l’ultima frase scritta sul foglio, e ora si accinge alla pausa che la separa dal suo tocco d’artista, quel “Mah!” che ribalterà tutte le aspettative di chi l’ha ascoltata fin qui trattenendo il fiato.

Ma succede qualcosa a cui non aveva pensato.

Subito dopo aver pronunciato l’ultima frase del racconto, proprio nella pausa che lei ha programmato prima del “Mah!”, viene travolta dall’entusiasmo di un pubblico che, invece di limitarsi ad ascoltarla e guardarla, stava seguendo il racconto sul foglio che è stato consegnato all’entrata. La sua sillaba, che voleva essere potente e sfacciata, è sommersa come una capanna dalla valanga.

Eppure il disappunto non ha il tempo di maturare del tutto. Una o due persone si sono alzate in piedi e continuano a battere le mani. Ha sentito qualcuno gridare “brava!”, le pare. Non saprebbe distinguere i più entusiasti, tutti i visi si amalgamano tra loro nella liquida visione che le lacrime le permettono.

Le si chiude la gola. Per una frazione di secondo le sfugge il controllo delle labbra che si stirano e si abbandonano a un tremolio.

Spera che nessuno se ne sia accorto.

L’applauso dura un minuto, forse novanta secondi. E quando anche l’ultimo battimano si spegne, Viviana Giorgetti giura a se stessa che l’anno prossimo, qualunque cosa succeda, lei tornerà; e l’anno dopo ancora, e ancora, dovesse cascare il mondo, lei sarà qui, a leggere per loro, per ognuno di loro lei tornerà la giovane attrice degli anni Sessanta, giovane, splendida e divina; per loro soltanto si trasformerà come nessun intervento di chirurgia plastica può fare.

Per loro, compirà la magia: per il suo pubblico.

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Oriana Fallaci vs. Matteo Renzi

Un paio di giorni fa Matteo Renzi ha scritto su “Il riformista” un articolo, per così dire, di augurio al novantanovenne Henry Kissinger.

E chiude l’articolo così: “In un mondo di grigi burocrati Kissinger è il Machiavelli di cui avrebbe bisogno il mondo”.

Grande ammirazione dunque da parte di Renzi per questo onnipresente politico statunitense che ha guidato la politica del suo paese per qualche decennio sotto diversi presidenti.

Allora mi è venuta in mente l’intervista fatta a Kissinger da Oriana Fallaci, e pubblicata nel suo libro “Intervista alla storia”.

Sappiamo, perché lei non ne ha mai fatto mistero, che Oriana ha sempre avuto il dente avvelenato nei confronti del potere, e Kissinger non fa eccezione.

Non è stato facile per la giornalista ottenere l’intervista, perché Kissinger non dava intervista individuali, tant’è che lei ha dovuto superare una specie di pre-intervista per ottenerne una vera.

Innanzitutto, l’ha fatta entrare nel suo ufficio e l’ha fatta restare in piedi per una decina di minuti senza neanche guardarla perché doveva leggere un documento: e questo mi basterebbe per far perdere punti all’uomo.

“Qui mi dimenticò mettendosi a leggere, le spalle voltate, un lungo dattiloscritto. Era un po’ imbarazzante restarmene lì in mezzo ala stanza, mentre lui leggeva il dattiloscritto e mi voltava le spalle”.

E poi è stato un politico difficilissimo da indagare, anche per lei. Qualche frase buttata là, però, ci fa capire qualche nodo essenziale del suo pensiero:

“L’intelligenza non serve per fare i capi di Stato. La dote che conta, nei capi di Stato, è la forza. Il coraggio, l’astuzia, e la forza”.

“Quando si ha in mano il potere, e quando lo si ha in mano per un lungo periodo di tempo, si finisce per considerarlo come qualcosa che ci spetta”.

“Io penso che la reputazione di playboy mi sia stata e mi sia utile perché ha servito a rassicurare la gente (…). Per me le donne sono soltanto un divertimento, un hobby”.

Il mio post non è un articolo a favore o contro Kissinger.

E’ un post che mette a confronto Matteo Renzi, uno dei tanti trasformisti che sono passati in Italia, con Oriana Fallaci, che può anche essere antipatica, ma che non può essere accusata di esser stata incoerente.

Un Matteo Renzi, che si vanta su un quotidiano online che Kissinger lo ha incontrato in ascensore e gli ha detto, dopo aver girato il suo badge e aver letto il suo nome, che era stato bravo, con una Oriana Fallaci la cui intervista è stata, al tempo, quanto mai scomoda, e che sembra abbia messo in difficoltà il rapporto tra Nixon e il suo consigliere/diplomatico preferito.

Matteo Renzi, che scrive un articolo apparentemente su Kissinger, e che in realtà lo scrive su di sé, e Oriana Fallaci che si industria per far le domande giuste e scoprire il mistero Kissinger (magari non ci riesce, ma almeno ci ha provato).

Non chiedetemi a chi vanno le mie simpatie.

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