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I genitori della regina Elisabetta: film e libro

Ho rivisto ieri il film “Il discorso del re”: bello, ti ispira a darti da fare, ti dona fiducia nell’amicizia.

Quattro premi Oscar.

Colin Firth, che interpreta il ruolo del re Giorgio VI, padre della regina Elisabetta, è un uomo traumatizzato da un’infanzia all’ombra di un padre-padrone e di tate senza scrupoli, nonché della sfortuna fisica (rachitismo).

Riesce tuttavia a riscattarsi dalla balbuzie che lo affligge dai cinque anni e a portare avanti la monarchia attraverso la seconda guerra mondiale.

La moglie, interpretata da Helena Bonham Carter, è saggia e composta.

Insomma, tutti eroi senza macchia e senza paura. La bellezza del film ti fa dimenticare che la realtà non è mai unidimensionale.

Ho iniziato a leggere il libro della giornalista Kitty Kelley, “I segreti della corona”, e già alle prime pagine ci ricorda che la dinastia dei Windsor non è inglese al 100%, perché è ha radici tedesche. L’inglesizzazione si è resa necessaria nel 1915 ed è stata portata avanti da Giorgio V, il nonno della regina Elisabetta, che ha rinnegato parenti e amici tedeschi pur di salvare la corona dall’ondata antiprussiana che era sorta in quegli anni.

Ma questo non è così grave: le monarchie e gli aristocratici erano tutti imparentati tra loro (e credo lo siano ancora).

Quello che esce dalle prime pagine del libro, però, è un’immagine molto meno favoleggiante dei genitori della regina Elisabetta:

“… erano stati restii a opporsi a Hitler e (che) come primo ministro vedevano meglio Chamberlain di Churchill”.

La madre della regina Elisabetta “ricevette solo un’istruzione approssimativa, ma molto attenta alle virtù necessarie a un buon matrimonio”. Fu una regina amatissima, molto presente in tantissime cerimonie ufficiali: “tagli dei nastri, visite ai reggimenti, vari di navi e posa delle prime pietre”.

“Fu geniale nel promuovere se stessa e il marito, soprattutto negli anni della guerra, quando sostenne il debole e incerto uomo che aveva sposato e gli conferì l’aspetto di un re”.

Era talmente amata, che la stampa britannica si autocensurava: non dissero mai una parola in merito alla sua propensione all’alcool e al gioco d’azzardo, minimizzandole come hobby di una vecchia signora, e non venne mai condannato il suo appoggio alla minoranza bianca che governava in Rhodesia. Era una figura intoccabile.

Sembra comunque che, lungi dall’essere dolce e premurosa come Helena Bonham Carter, fosse dura, dispotica e decisa a diventare regina ben prima di sposare il marito (tant’è che ci furono chiacchiere di lei col cognato David, che invece preferiva le donne filiformi e sposate, e che infatti ha rinunciato al trono per un’americana divorziata).

Ovvio, che nessuno diffuse la notizia che le principesse Elisabetta e Margaret nacquero con l’inseminazione artificiale: sembra infatti che il padre, per una serie di fattori psicofisici, non fosse in grado di procreare.

Niente di grave, fino a qui.

Ma mi sono buttata giù questi pochi appunti per ricordarmi di dubitare sempre delle storie troppo romantiche.

Sempre.

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In quelle tenebre (Gitta Sereny)

Franz Stangl è stato il comandante di Treblinka, uno dei quattro campi di sterminio polacchi.

Leggendo questo libro ho scoperto un fatto che non mi era molto chiaro: i campi di sterminio nazisti, in cui si andava esclusivamente a morire, erano solo quattro. Gli altri erano campi di concentramento: anche in questi era molto facile morire, ma era solo un evento, per quando orripilante, accessorio al lavoro e alle condizioni in cui gli internati vivevano.

Da un campo di concentramento c’era qualche possibilità di uscire vivi; dal campo di sterminio, no. Gli unici sopravvissuti (parliamo di poche decine di persone) sono stati alcuni lavoratori addetti all’uccisione e al mantenimento del campo.

Gitta Sereny ha intervistato Stangl e molte altre persone che lo hanno conosciuto in vita, ed è un’esperienza molto istruttiva vedere come quest’uomo abbia reagito alle domande che la giornalista gli poneva.

E’ stato uno dei rari nazisti che ha svolto un ruolo attivo nello sterminio e che non ha mostrato solo superba insofferenza. A differenza di altri che hanno sempre rifiutato ogni tipo di colpa, lui ha mostrato in più di un’occasione che le migliaia di morti che ha causato non gli erano… indifferenti.

Questo non vuol dire che si sia dimostrato apertamente dispiaciuto, ma almeno non ha giustificato lo sterminio di donne e bambini come altri gerarchi nazisti hanno continuato a fare anche una volta messi davanti al fatto.

Stangl era un poliziotto austriaco, che, prima dell’Anschluss del 1938, era pure antinazista (a suo dire); appena dopo l’Anschluss, è stato addetto al progetto Eutanasia: dirigeva un programma di eutanasia di malati fisici e psichici. Lui autorizzava l’uccisione in base ai referti dei medici, e qui si è sempre difeso adducendo come scusa, da un lato, la gravità delle malattie e, dall’altro, una sorta di clemenza.

Questa esperienza è stata probabilmente decisiva per adibirlo al comando dei campi di sterminio (prima Sobibor e poi Treblinka).

Durante l’intervista, che è durata molti mesi, la sua versione ufficiale è stata che, una volta capito cosa stava davvero succedendo, non poteva più tirarsi indietro se non a rischio della vita, sua e della sua famiglia.

Alla moglie non ha mai detto cosa succedeva in quel campo e quando lei ha sentito delle chiacchiere in giro, lui ha sempre negato. Bisogna anche dire che Stangl, che di solito a casa era morigerato, ogni sera al campo annegava i pensieri nell’alcool. Ciò non toglie che il suo lavoro è sempre stato impeccabile, preciso, non ha mai ritardato o saltato il programma dei gasaggi. Ogni mattina, nel periodo di maggior affluenza, arrivavano da uno a cinque treni: migliaia di persone che alla sera non esistevano più.

E’ un libro di quasi 500 pagine, ho riportate qui solo alcune delle tante impressioni che ha suscitato.

Se resta un mistero come abbia potuto succedere una tragedia del genere, è perché gli uomini stessi che l’hanno compiuta sono rimasti un mistero, nonostante tutti gli studi e le inchieste e i processi che li hanno presi in esame.

Erano persone come noi, cerchiamo di non dimenticarcelo.

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Ida (Katharina Adler)

Ho letto un po’ di recensioni in giro sul web: tutte più o meno positive. Io mi posiziono tra quelle “meno positive”.

E’ la storia di Ida Bauer, che è stata una paziente di Freud, che ne ha scritto un saggio in merito alla sua presunta isteria, chiamandola Dora.

Bisogna dire che Ida si è fatta psicanalizzare da Freud solo per qualche mese e poi ha abbandonato la terapia, scontenta delle conclusioni a cui arrivava il medico.

Il romanzo biografico, però, lascia un po’ l’amaro in bocca perché dalla presentazione dell’editore ci si aspetterebbe più spazio per il rapporto tra Freud e Ida; invece il padre della psicanalisi resta una figura secondaria che, se non sbaglio, non parla neanche mai in prima persona, le sue parole sono sempre riportate nel discorso indiretto.

La stessa psicologia di Ida viene sempre descritta dall’esterno, non si riesce a legare un legame leggendo la sua storia. E’ una descrizione meccanica, molto fredda.

Certo, la sua vita non presenta nulla di sensazionale: famiglia ebrea benestante, matrimonio, le serate al teatro, il fratello (Otto Bauer, leader del movimento socialdemocratico austriaco)… ma neanche l’arrivo del nazismo e la fuga di Ida riescono a creare un po’ di immedesimazione.

Ida ha una serie di sintomi che non si spiegano (tosse, svenimenti, afonia, dolori di varia origine), ma neanche lei sembra interessata a cercarne una causa, li sopporta e li descrive senza farsi tante domande: è forse questo atteggiamento poco introspettivo che l’ha portata, alla fine, alla rottura con Freud, che invece andava a far le pulci ad ogni suo pensiero.

Insomma, al di là del rapporto con Freud, Ida mi appare come una donna abbastanza superficiale, che vive nel suo tempo senza farsi troppo coinvolgere se non quando strettamente necessario o perché trascinata dalle compagnie (ma mai con una comprensione profonda dell’ambiente e delle motivazioni altrui).

La vita di Ida, Insomma, non presenta grande interesse.

Questo non sarebbe un ostacolo a una bella biografia, se la biografia fosse romanzata bene, cosa che con questo libro non accade.

Le descrizioni sono scollegate dalle emozioni dei protagonisti e la storia è raccontata con continui salti temporali che non hanno motivo di esistere: l’impressione che ne ho avuta io è che l’autrice abbia inizialmente scritto il romanzo in modo strettamente cronologico, per poi spezzettarlo e mischiarne le parti nel tentativo, fallito, di fargli un po’ di movimento.

Ovviamente sono la prima a mettere in dubbio le mie valutazioni se qualcuno ha letto il romanzo e riesce a convincermi dei miei errori.

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Potere e sopravvivenza (Elias Canetti)

Di Canetti spero di leggere presto “Massa e potere”, che è la summa del suo pensiero sulla materia, ma già questo libretto ne contiene alcuni punti.

Si tratta di una raccolta di saggi che non sono omogenei tra loro ma sono legati dai due temi del titolo, appunto il potere e la sopravvivenza.

Sembra incredibile, ma questi due argomenti li ritroviamo in tutti i saggi, sia quando parla del suo ex idolo Karl Kraus, il cui potere si incarnava nelle accuse che gettava intorno a sè, quando parla del diario, di HItler e del suo architetto Speer, di Confucio e di Tolstoj.

Data la varietà dei soggetti, è inutile neanche provare a fare un riassunto, ma vi lascio solo un paio di estratti che riguardano la scrittura dei diari, visto che io ne tengo uno da quando avevo sette anni (7!).

Nel diario non si parla soltanto con se stessi: si parla anche con gli altri. Tutti i colloqui che nella realtà non si possono portare fino in fondo poiché finirebbero in atti di brutalità, tutte le parole assolute, irriguardose, spietate, che spesso sentiamo di dover dire agli altri, tutto questo si deposita nel diario.

Le astuzie e le misure precauzionali per tenere segreto un diario non saranno mai troppe. Delle serrature non c’è da fidarsi. Molto meglio le scritture cifrate. Io uso una stenografia modificata che nessuno sarebbe in grado di decifrare senza un lavoro di settimane.

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Exodus (Leon Uris) – 1° volume

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Per raccogliere il materiale necessario a questo libro ho percorso circa ottantamila chilometri. I metri di nastro inciso, il numero di interviste, le tonnellate di libri consultati, la quantità di pellicola impressionata e di dollari spesi raggiungono cifre non meno impressionanti.

Ecco cosa dichiara Leon Uris nella prefazione del libro, uscito nel 1958.

Exodus è il nome di una vecchia nave che – una volta finita la seconda guerra mondiale – porta 300 bambini in Palestina. La nave del romanzo, che si ispira a una vicenda realmente accaduta, parte da Cipro, dove gli ebrei scampati allo sterminio hitleriano erano rinchiusi in campi inglesi!

Bisogna ricordare che gli inglesi avevano il Mandato sulla Palestina ed erano contrari all’immigrazione ebraica, perché questo li avrebbe messi in difficoltà con le popolazioni arabe di cui erano, storicamente, alleati.

Pensate: centinaia e centinaia di persone sfuggite dalle camere a gas europee che credono di essere in salvo e invece si ritrovano di nuovo rinchiuse in campi recintati!

I personaggi del romanzo sono un’invenzione letteraria, ma necessariamente entrano in gioco molti nomi di vere personalità storiche (Ben Gurion, Churchill, gli zar russi, i muftì…).

I protagonisti principali sono pochi: uno è Arì Ben Canaan, ebreo palestinese ed ex soldato inglese, con un passato di lotte e dolore.

Poi c’è Kitty, una giovane vedova infermiera che si dedica ai bambini ebrei e che decide di andare in Palestina per seguire una ragazza che le ricorda la figlia morta a pochi anni di età.

Altri personaggi sono meno delineati dal punto di vista psicologico, ma sono necessari perché, attraverso la loro storia e la storia dei loro genitori, nonni, avi, viene narrata la storia ebraica nel mondo, dalla distruzione del Tempio fino ai giorni della vicenda.

Sono digressioni lunghe molte pagine, a volte sembra di leggere un libro di storia, e, considerando le origini ebraiche dell’autore, ci si chiede quanto obiettive siano (ma… esistono libri di storia obiettivi?).

Il romanzo, appena uscito, è diventato subito un bestseller tradotto in decine di lingue, eppure il gotha letterario lo ha molto criticato.

Stando ai critici, il romanzo soffre di difetti sia letterari che contenutistici.

Non sono un’esperta, ma neanche io credo di aver tenuto nelle mani una grande opera d’arte. Il registro cambia spesso e in modo repentino, ci sono troppi punti esclamativi, è troppo simile a una sceneggiatura cinematografica (Uris era anche sceneggiatore, e infatti questo romanzo è diventato un film diretto da Otto Preminger, starring Paul Newman).

Per quanto riguarda i contenuti, molti hanno accusato Uris di propaganda antipalestinese. 

Dal mio punto di vista, sì, è vero che i musulmani sono spesso identificati come ladri, ignoranti e violenti, ma stiamo parlando di tribù seminomadi che attaccavano i neo-insediati ebrei: in un romanzo di poche pretese psicologiche è “normale” che si prendano le parti dei protagonisti che devono affrontare le difficoltà per arrivare al loro scopo (una nazione ebraica).

Tanto più che certi musulmani diventano amici di Ben Arì e di suo padre, dunque la caratterizzazione negativa non mi sembra così generalizzata.

Nel romanzo si parla molto peggio degli inglesi! Quelli sì che erano i veri traditori!

Il primo volume finisce con l’Exodus che, dopo aver gabbato gli inglesi facendo leva sull’opinione pubblica mondiale, arriva sulle coste della Palestina.

Per ora mi fermo al primo volume. Seppure interessante dal punto di vista storico, secondo me è un po’ debole sulle caratterizzazioni psicologiche.

Prendiamo Kitty, ad esempio: resta vedova dell’uomo tanto amato e poi le muore la figlioletta. Pochi anni dopo, incontra una adolescente nel campo di internamento inglese a Cipro e scatta il colpo di fulmine, e addirittura pensa di adottarla… il passaggio è troppo rapido e poco verosimile.

Uris è più efficace quando allarga lo sguardo, quando, attraverso i lunghi flash back, ti fa capire come è stato trattato il popolo ebraico nei secoli, e soprattutto come i governanti dei vari stati, per motivi di volta in volta diversi, siano riusciti a trasformare gli ebrei in capri espiatori.

Una cosa ho notato: è più facile instillare l’odio verso certe minoranze sfruttando il senso di inferiorità delle popolazioni. Chi si sente escluso, chi si sente impotente, chi crede (o è) vittima di ingiustizie… tutta questa gente ha bisogno di qualcuno su cui sfogarsi.

Una volta erano gli ebrei.

E oggi?

Gente frustrata ce n’è a iosa, guardate i social!

Basta raccontare una storia in modo leggermente diverso e il capro espiatorio… è qui!

 

 

 

 

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Solo io posso scrivere la mia storia (Oriana Fallaci)

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Non è un’autobiografia, nonostante il titolo, bensì una raccolta di scritti scelti e catalogati in base ai principali temi affrontati dalla Fallaci durante la sua vita.

Si inizia con il resoconto della sua infanzia sotto il regime fascista e sotto le bombe della guerra: è un passaggio necessario per capire la durezza e la determinazione che l’hanno guidata durante la sua carriera e la vita privata.

Il padre era uno dei capi della resistenza, è stato imprigionato e torturato, e lei stessa, ancora bambina, ha fatto la staffetta per i partigiani. Ecco perché è sempre stata molto sensibile al tema della libertà e della politica.

Una buona parte del libro è dedicata alla sua storia con Alekos Panagulis, ovviamente: molti testi li ho letti qui per la prima volta, altri invece erano già contenuti in libri precedenti, o in articoli già pubblicati, ad esempio non ricordavo delle difficoltà che la Fallaci aveva avuto coi parenti dell’uomo dopo la sua morte.

E’ sicuramente un libro interessante, considerando la vita che ha vissuto questa giornalista.

Ha anche i suoi limiti, però.

La catalogazione è a volte imprecisa, ad esempio, sotto il capitolo “Il mestiere di scrivere” ci sono dei paragrafi dedicati al padre e alla guerra in cui non si parla di vera e propria scrittura.

Un altro limite di questo tipo di raccolte è che, essendo ogni testo tratto da una fonte diversa, a volte è difficile contestualizzare e bisogna andare alla fine del libro per capire – almeno – in che anni è stato scritto.

Passando ai contenuti specifici di quello che dice la Fallaci: beh, sì, è la Fallaci, però era anche un essere umano… dunque bisogna evitare di sottomettersi al principio di autorità, accettando tutto quello che dice, e valutare le sue opinioni caso per caso.

Ci sono ad esempio affermazioni che condivido, come queste:

In Italia i giornali non sono quasi mai fatti per la gente: sono fatti per i politici, per i partiti, per gli interessi di pochi.

Il nostro compito [dei giornalisti] non è compiacere il potere. Il nostro compito è informare e risvegliare la consapevolezza politica delle persone.

L’amore non si misura nel momento in cui fai l’amore ma dopo.

Altre invece sono troppo lapidarie e/o sono il frutto di una visione quanto mai personale:

Quando un padre impazzito ammazza un figlio, ammazza anche sé stesso. Quando una madre impazzita ammazza un figlio, non si ammazza affatto.

L’odio è un sentimento. E’ una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico.

Insomma, un libro da leggere per ragionare, non per imparare a memoria delle frasi astratte dal contesto.

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Himmler (Bernard Michal) – Edizioni di Cremille

IMG_20200215_080230[1]L’aspettativa è la madre della delusione: mi aspettavo una biografia di Himmler e invece ho trovato un libro di storia del Fascismo.

Di Himmler, il “fedele Heinrich”, si parla solo di riflesso.

Le parti più personali sono la prefazione e la fine, che riporto sotto.

Dopo un tentativo di fuga, finita la guerra, Himmler si consegna agli inglesi ma durante la visita medica riesce a schiacciare la capsula di cianuro che aveva in bocca. A niente serve forare la lingua del prigioniero per tirargliela fuori impedendogli di inghiottire: troppo tardi.

Il 23 maggio il cadavere di colui che fu senza dubbio il più grande boia della Storia viene posto in una coperta dell’esercito e avvolto in una rete metallica legata con filo telefonico. Il sergente maggiore Austin, spazzino di mestiere, scava la tomba nelle vicinanze di Lunenburg. Mai, malgrado le proposte che gli vengono fatte in seguito, Edwin Austin svelerà dove giacciono i resti del fedele zio Heinrich.

Ma il resto del libro parla poco di Himmler. Di lui si conoscono le nefandezze e l’assoluta mancanza di partecipazione emotiva nei confronti degli ebrei; di lui si conosce l’assoluta fedeltà ad Hitler e la sua fede nella soluzione finale.

Ma su cosa pensava e sentiva davvero, non si sa quasi niente.

Il suo stesso diario era stringatissimo: Himmler era puntuale nel compilarlo ma si limitava ad avvenimenti di poche righe e raramente aggiungeva qualche pensiero personale.

Certo, però, che l’autore della biografia poteva sforzarsi un po’ di più… ad esempio, quando racconta del matrimonio di Himmler. Si parla per inciso della sua amante, ma niente di più.

Un saggio di ripasso sulla storia tedesca, ma troppo secco, poco appassionante.

 

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I ‘figli’ di Hitler (a cura di K. Ericsson, E. Simonsen)

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I figli nati da rapporti tra donne dei popoli occupati e soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale furono migliaia e migliaia.

Il Reich ebbe un atteggiamento ben definito nei loro confronti: bisognava tutelare solo quelli la cui madre era di razza superiore, e siccome consideravano di buona razza solo i popoli norvegesi, svedesi e di alcune zona francofone, solo a queste donne e ai loro figli furono garantiti (almeno in via di principio) sussidi e tutele.

Venne fondata un’organizzazione apposita, la Lebensborn (= fonte di vita) che si occupava di riconoscere e gestire i casi meritevoli di aiuti.

Lo scopo? Era sempre quello: arianizzare. Senza dimenticare il fatto che, soprattutto verso la fine della guerra, la Germania era rimasta a corto di soldati e che, già da anni, il tasso di nascite nel paese era molto basso. Dunque serviva sangue nuovo.

Ma come vivevano le donne e i bambini coinvolti?

Le donne venivano stigmatizzate: moltissime cercarono di tener nascosta la paternità del proprio figlio per evitare di venir ripudiate dalla famiglia di origine (il segreto spesso si protrasse per decenni).

Dopo la fine della guerra, vennero punite pubblicamente, in un modo o nell’altro (il taglio dei capelli era una delle punizioni più frequenti).

Una donna che avesse intrattenuto rapporti con un tedesco, un invasore, era comunque vista come una traditrice: non solo dell’eventuale marito, che magari era anche morto in guerra, ma soprattutto della patria. Il corpo delle donne era quasi considerato una proprietà nazionale, perché serviva a fornire cittadini. Non interessava a nessuno se quei rapporti fossero stati di amore o mercenari o semplici incontri casuali: chi frequentava il nemico era una “puttana dei tedeschi”.

Le madri si adattavano spesso a sposare uomini che si confacevano a questa loro condizione di svantaggio. Altre sembravano essere convinte di dover sopportare molto dai mariti in cambio dello status sociale che il matrimonio garantiva loro.

E i bambini?

I casi furono molto diversificati, a seconda del paese e della condizioni sociale delle parti coinvolte.

Nell’Europa dell’Est, i numeri sono ancora sconosciuti, perché il Reich si disinteressò di figli di “bassa qualità”. Ma anche nei paesi giudicati più meritevoli, come in Norvegia, dove questi figli erano considerati una ricchezza, i bambini vissero sempre in condizioni svantaggiate: non solo nel senso economico (anche se spesso venivano da ceti poveri), ma soprattutto in termini di stigmatizzazione sociale.

Quando conoscevano il proprio padre (e non erano molti casi, vista la tendenza delle madri e tener nascosti passati rapporti col “nemico”), avevano una vita dura sia a scuola che in famiglia. Anche quando non ci fu violenza fisica, i bambini si sentivano comunque diversi, figli di un paese che aveva causato massacri e sofferenze in tutta Europa.

Diversi furono gli atteggiamenti statali nei loro confronti: dargli la nazionalità o no? Mandarli in Germania (che era praticamente distrutta) o in Australia o dove?

A complicare le cose ci si mise pure la c.d. scienza: molti medici e psicologi erano dell’idea che le madri e i “figlia della guerra” fossero dei ritardati, confondendo spesso la condotta “morale” con la salute mentale.

Decine e decine di migliaia di casi.

C’è ancora gente in vita che non sa di avere avi tedeschi in famiglia.

 

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Dannati – Glenn Cooper

Sulle copertine dei libri, per correttezza, dovrebbero scrivere se l’opera che hai in mano è parte di una serie… Questo è infatti solo il primo volume di una trilogia che, nonostante mi sia piaciuto l’inizio, non so se leggerò fino alla fine.

L’idea di base è molto buona: a causa di un incidente in un laboratorio che studia le microparticelle, la scienziata Emily si ritrova in un mondo in cui sono tutti morti. Lei pensa subito all’Inferno, ma l’aspetto è quello di un ambiente retrogrado, con poco sole, punteggiato di capanne e alla mercé del più forte.

Non solo: quando Emily, davanti agli occhi di tutti, è scomparsa dal laboratorio, al suo posto è comparso (e subito scappato) uno degli abitanti di quel mondo sconosciuto, un pluriomicida che è necessario riprendere se si vuole far tornare la scienziata nel suo mondo.

Il ragazzo di Emily, John, ex berretto verde e capo della sicurezza, si fa mandare nell’altra dimensione per andare a prenderla, e lì, sia lei che lui incontrano vari personaggi del passato.

Perché all’inferno sono tutti morti, dunque non muore più nessuno: puoi trovarti davanti Stalin o un uomo di Neanderthal, Garibaldi o Cromwell… restano poco chiari i motivi per cui all’inferno si trovino, appunto, un patriota come Garibaldi, o altri personaggi meno conosciuti che sono, tutto sommato, buoni, nei confronti dei protagonisti.

Glenn Cooper, per spiegarlo, fa dire a qualche abitante che le regole dell’inferno non si possono conoscere, ma questo è un escamotage che fa perdere punti al libro.

Dunque l’idea di fondo è buona. E’ interessante anche l’interazione tra personaggi di diverse epoche storiche, o che si sono conosciuti in vita e i cui rapporti erano pessimi. Particolare anche l’idea delle camere di decomposizione (non vi dico a cosa servono, sennò spoilero).

La trama, però, a parte la buona idea iniziale, dopo un po’ decade, perché alla fine è sempre John che cerca Emily tra una guerra e l’altra, cercando di districarsi nelle battaglie e aiutando i locali a inventare nuove armi.

Inoltre, il mondo dell’inferno si rivela un mondo normale, solo più incattivito: ci sono ancora i re che lottano tra loro per dominare più paesi possibili, i libri e le arti sono merce rara e le donne sono vendute come schiave perché ne arrivano poche.

Infine, i personaggi sono molto stereotipati: i protagonisti sono sempre bellissimi e intelligentissimi. Se John ha qualche inclinazione per l’alcool, ormai il difetto è trattato in modo da sembrare quasi un lato simpatico del suo carattere… per il resto, John ed Emily sanno tutto: arti marziali, filosofia, scienza applicata, balistica, storia antica ecc.

Ciò non toglie piacevolezza alla lettura: in tre giorni l’ho finito!

Un appunto a Glenn Cooper: leggiti meglio Machiavelli. Quando John lo incontra e lo chiama sporco bastardo, mi son sentita offesa. Il suo era il punto di vista di un militare americano che si è limitato a leggere il bignami “Il principe”… ne deduco che, se lo vede sotto questa luce negativa, neanche Glenn Cooper l’ha letto per intero, e questo, per uno scrittore, è un grosso difetto.

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Giustizia, non vendetta – Simon Wiesenthal

Wiesenthal è salito alla ribalta col soprannome di “cacciatore di nazisti”. E’ un soprannome che evoca più avventura di quella che in realtà c’è stata: Wiesenthal era più un uomo spinto dalla voglia di dare giustizia a tutti i morti della Shoah, non era una spia che scivolava nei vicoli bui del Sudamerica in cerca di mozziconi di frasi tedesche. Il suo lavoro consisteva più che altro nella raccolta di informazioni, documenti, foto.

Avventurose, però, sono le vicissitudini di quelli che lo fuggivano (anche se i casi di chirurgia plastica sono stati, a detta di Wiesenthal, dei miti).

Le parti che mi hanno indignato di più, comunque, non sono state quelle in cui venivano descritte le ingiustizie sopportate nei campi di sterminio: sono i resoconti di tutti i colpevoli che sono sfuggiti alla giustizia.

Le fughe, nella stragrande maggioranza dei casi, erano favorite per motivi politici, e in questo gli alleati, così presi dalla guerra fredda, hanno avuto grandi responsabilità.

E poi, dove li mettiamo tutti gli assassini, diretti o indiretti, che hanno le competenze necessarie per mandare avanti gli apparati burocratici tedeschi e austriaci? Se li togliamo tutti dalla circolazione, c’è il blocco totale, soprattutto nelle scuole, in polizia e nella giustizia.

Ergo: li teniamo. Li mettiamo a capo di un’amministrazione, li promuoviamo presidi, giudizi, capi di polizia, procuratori ecc… L’Austria, paese in cui Wiesenthal viveva, si è comportata in modo particolarmente vergognoso (più vergognoso della Germania), cercando di screditarlo e di mettergli i bastoni tra le ruote ad ogni passo.

Una cosa ci tiene a sottolineare Wiesenthal: non esistono le colpe collettive. Non è la Germania in blocco ad aver ammazzato milioni di ebrei e zingari. Sono stati i singoli, che hanno preso singole scelte.

E lo stesso vale per i miliardi rubati: soldi, pietre preziose, oggetti d’arte… non era Hitler a ordinare ai singoli gerarchi di intascarsi una parte (consistente, molto consistente) dei valori che confiscavano (Hitler, nel suo delirio, voleva che entrasse tutto a far parte della nuova Germania). Probabilmente ci sono ancora tesori nascosti sepolti sul fondo di laghi di mezza Europa.

E le istituzioni (fatte di singoli) sono colpevoli di dolo. Un esempio?

Per restituire opere d’arte confiscate durante la guerra, i competenti uffici chiedevano ai precedenti proprietari una descrizione particolareggiata dell’oggetto

(…) era attribuita una particolare importanza alle misure lineari precise – quasi che, prima di essere arrestati, la maggior parte degli ebrei si aggirasse per casa col metro pieghevole a misurare i quadri. Ciò consentì all’Austria ulteriori angherie: così non fu restituito un prezioso dipinto di Klimt – è ora esposto all’Albertina – perché le misure fornite dalla famiglia dei proprietari si discostavano di due centimetri e mezzo da quelle reali.

In generale, comunque

(…) nel caso degli oggetti d’arte “senza proprietario” solo una parte dei quadri fu rivendicata, perché soltanto una parte degli interessati ne era stata informata. I più bei dipinti della raccolta erano finiti nel frattempo nelle ambasciate e nei musei austriaci.

Complimenti a tutti, ma non dimentichiamocele, queste cosette.

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