Category Archives: Saggi

Misia (Misia Sert) @Adelphiedizioni

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Ho letto diverse biografie e autobiografie di personaggi del Novecento, però non ricordo che qualche artista, scrittore, poeta, pittore abbia mai menzionato questa Misia. E ora mi trovo ad aver letto un libro scritto da lei, che racconta la sua vita trascorsa tra alcuni dei personaggi più in vista del secolo scorso.

Alcuni nomi?

Picasso, Stravinsky, Proust, Cocteau, Mallarmé, Valery, Lautrec, Debussy, Ibsen, Apollinaire, Zola… Tutti personaggi che, agli inizi del Novecento, non erano ancora mostri sacri come oggi.

L’autobiografia dunque si rende interessante come ritratto di un’epoca, ma Misia, come essere umano, non mi ha colpita molto favorevolmente.

Sembra sempre preoccuparsi di mostrare quanto lei fosse amica di questo e di quello, ma in realtà le sue descrizioni – con alcune eccezioni – sono tutte piuttosto superficiali; ricorre molto al pettegolezzo, ai discorsi che si facevano in società sui debiti di uno e sui tradimenti dell’altro.

Misia dice di essere un essere nato per vivere tra gli artisti, ma non riesce a descriversi e a descrivere come un’artista: siamo su un altro mondo rispetto alle vivide immagine che ci ha lasciato Canetti dell’Europa del suo tempo e dei personaggi che ha incontrato nella sua gioventù.

Mi dà l’impressione che il suo interesse per gli artisti sia più mondano ed emotivo, e non guidato da un genuino amore per l’arte in sé. O, forse, le manca solo il talento letterario per esprimerlo e farcelo percepire, questo amore.

E poi, colpa mia, mi innervosisco quando sento gente ricchissima che si lamenta della noia e dell’infelicità, atteggiandosi a romantica con fare problematico, quando alle spalle ha cassetti pieni di gioielli, castelli, barche, automobili e conti in banca.

Misia non era un’intellettuale e, se si esclude la prima gioventù, non era neanche una gran lettrice:

(…) mi piace moltissimo stare ad ascoltare cose estremamente intelligenti che non capisco bene, è una delle mie debolezze.

Inoltre, certi aspetti superficiali non glieli perdono, mi fa male agli occhi leggere certe frasi, come quando sopravvaluta la bellezza fisica:

Questa virtù, secondo me, è tanto essenziale per una donna che non ho mai potuto avere un’amica brutta.

Oppure quando si lamenta che il suo primo marito si dia troppo da fare per ideali di promozione sociale aiutando le classi più disagiate. Lo lascia fare, ma non capisce la spinta che lo muove, ne parla come di un ragazzone che cerca un hobby.

Le autobiografie non sono tutte sincere.

Questa l’ho trovata molto poco sincera, ecco.

 

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Il metodo Aristotele (Edith Hall)

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Come bisognerebbe prendere le decisioni? Ieri come oggi, questi passaggi suggeriti da Aristotele restano validissimi:

  • Non decidere in fretta: prenditi il tuo tempo, se possibile, dormici su.
  • Verifica le informazioni in tuo possesso: soprattutto oggi, che siamo inondati da informazioni di tutti i tipi.
  • Consulta un esperto, e seguine i consigli. Può essere un esperto in carne ed ossa, ma puoi leggerne le parole anche in un libro o ascoltarlo su youtube.
  • Valuta il punto di vista di tutte le persone coinvolte dalle conseguenze della tua decisione.
  • Esamina tutti i precedenti conosciuti, sia che appartengano alla tua esperienza che all’esperienza di persone che conosci (magari leggendo delle biografie, tanto per allargare il cerchio delle tue conoscenze).
  • Esamina le probabilità degli esiti delle tue decisioni e preparati a tutte.
  • Prendi in considerazione il Caso: non puoi controllare tutte le variabili, è così, non puoi farci niente. Tanto vale essere psicologicamente pronti.

Un bel libro per affrontare Aristotele, autore spesso considerato ostico, in un’ottica contemporanea.

I capitoli affrontano vari temi: la felicità, il potenziale umano, le decisioni, la comunicazione, la conoscenza di sé, l’amore, il tempo libero e la morte.

Il capitolo più ispirazionale è – secondo me – quello dedicato al tempo libero e alle possibilità di automiglioramento.

Leggetelo.

Il tempo libero, ribadisce Aristotele, se usato correttamente, è lo stato umano ideale.

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1918 L’influenza Spagnola (Laura Spinney)

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Dal 1918 al 2020, l’atteggiamento umano davanti a una pandemia è cambiato poco sotto diversi punti di vista.

Oggi come allora diamo la colpa dello scoppio dell’influenza ai paesi stranieri (sembra che la Spagnola sia nata in Kansas, ma che tutti dessero la colpa alla spagna o alla Cina).

Oggi come allora diamo la colpa agli immigrati: oggi sono quelli che vengono dal bacino del mediterraneo, allora negli Stati Uniti se la prendevano con gli italiani, che sembravano più sporchi e dissoluti degli altri.

Oggi come allora una larga percentuale di popolazione, davanti al brancolare della scienza, si rivolgeva alle cure cosiddette “alternative“, anche se nel 1918 la distinzione non era così chiara.

Oggi come allora, si dà la colpa agli spiriti e agli dei, e molti si affidano alle preghiere e ai riti per guarire.

Le differenze, ovviamente, ci sono, Oggi l’OMS è funzionante ed attiva: nel 1918 ancora non c’era, anzi, la Spagnola è stata un elemento che ne ha favorito la costituzione, in qualche modo, visto che eventi del genere non si possono controllare a livello nazionale.

Nel 1918 eravamo in piena guerra mondiale, il che ha favorito certamente la diffusione dell’epidemia (oggi la diffusione è favorita dai viaggi e dal commercio).

Nel 1918 molti paesi non avevano un sistema sanitario, oggi ce l’hanno quasi tutti.

E’ un libro certamente interessante, con un taglio storico, e meno attento agli aspetti scientifici rispetto ad altri testi sull’argomento.

Vengono citati molti personaggi: Freud, Klimt, Egon Schiele, il nonno di Trump (sì, proprio lui), Amelia Earhart (l’aviatrice), il compositore ungherese Béla Bartok… più tutta una serie di personaggi semi-sconosciuti che hanno combattuto contro il corona virus dell’inizio del Novecento (interessante come, in tempi più recenti, i medici sono andati a cercarsi il DNA della Spagnola).

Forse (opinione mia) l’autrice attribuisce alla Spagnola più conseguenze di quelle che ha avuto: epidemie di depressione, o addirittura di encefalite letargica (Vi ricordate il film “Risvegli”?), fino ad arrivare a ipotizzare scenari politici alternativi.

Se guardate le recensioni su Amazon, ce ne sono diverse che lamentano l’abbondanza di descrizioni macabre: morti abbandonati in strada, cadaveri in putrefazione, fosse comuni… M a me non sembra che l’autrice si sia soffermata molto su questi aspetti.

Dobbiamo considerare che il libro esamina l’epidemia a livello globale: ci sono stati anche casi macabri. Sorvolarli non sarebbe stato un atteggiamento obiettivo.

Consiglio finale: leggetelo.

Leggetelo soprattutto per capire come l’animo umano resta sempre lo stesso, non importa quanto evoluti e “scientifici” ci consideriamo.

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Covid19 e scuole

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E’ passato un secolo, ma, davanti a un Corona Virus con caratteristiche molto simili a quelle dell’epidemia di Spagnola, siamo ancora a discutere se le scuole devono stare aperte oppure no.

Allora vi racconto cosa ha fatto Royal S. Copeland, il commissario alla sanità di New York nel 1919, centouno anni fa.

Oltre le litigate con i sostenitori del presidente Woodrow Wilson, che ignorò i consigli dei medici militari e lasciò continuare i trasferimenti dell’esercito (eh, sapete, siamo in guerra!)…

… oltre alla continuazione di campagne a favore dell’igiene pubblica (ad esempio, vietando di sputare in pubblico… (e faccio notare che qui in Italia nel 2020 ancora non riusciamo a estirpare questa abitudine)…

… oltre il divieto di funerali pubblici…

… oltre la campagna a favore dell’igiene pubblica degli immigrati (soprattutto italiani, considerati particolarmente sporchi e promiscui; New York era la seconda città al mondo per numero di italiani, dopo Napoli)…

… oltre a tutto questo e ad altre iniziative volte a combattere la pandemia, Copeland, in accordo con Josephine Baker, a capo della divisione di Igiene infantile del dipartimento di Salute pubblica, decide di tenere aperte le scuole.

Uh, anatema!

In realtà, i bambini a scuola erano meglio controllati e curati se mostravano segni di malattia. Inoltre erano meglio nutriti, cosa che a casa non sempre era garantita.

Copeland e Baker attirarono

su di sé molte critiche, comprese quelle della Croce Rossa e di ex commissari alla sanità. Ma Copeland e Baker avrebbero avuto la loro rivincita: quell’autunno quasi nessun bambino in età scolare si ammalò di influenza.

E noi, nel 2020, dall’alto della nostra tecnologia e scienza, con tutti gli strumenti di cui disponiamo, stiamo ancora qui a discutere.

 

 

 

 

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Sotto cieli rossi – Karoline Kan

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Karoline Kan è nata nel 1989 pochi mesi prima del massacro di Tienanmen.

Massacro? Quale massacro?

Karoline non ne sa nulla fino a che, da adulta, non si mette attivamente alla ricerca di informazioni sull’evento del 4 giugno, un evento di cui in Cina non si può parlare né scrivere.

Fino ad allora, la sua vita è incentrata sulla sua famiglia e sulla scuola, e la sua famiglia è tutta dedita al miglioramento sociale, alla ricerca di condizioni di vita migliori, possibilmente in città, lontano dalla campagna che offre poche opportunità di guadagno e di divertimento.

Quella che ogni cinese sognava di vincere era la corsa alla metropoli.

Karoline è la seconda figlia, e questo la segna fin dalla nascita.

Nel 1989 infatti in Cina vigeva ancora la politica del figlio unico (rimasta in vigore fino al 2015): non si poteva avere un secondo figlio, a meno che il primo non fosse una femmina.

Sua madre nascose la gravidanza fin quasi al parto: la nascose agli stessi suoceri, coi quali lei e suo marito vivevano.

Un secondo figlio, vietato, comportava una serie di difficoltà: innanzitutto, per i trasgressori, c’era una pesantissima sanzione da pagare (causa di indebitamenti che duravano anni) ed era perfino possibile che al bambino non venisse dato l’hankou, una specie di carta di identità. In pratica, era un cittadino fantasma.

Senza hankou non si può fare niente, né andare a scuola, né trovare un lavoro, né prendere l’autobus. Nel 2010 in Cina vivevano ancora milioni di “bambini in nero”, non riconosciuti perché nati “illegalmente”.

Quando la famiglia riesce ad abbandonare il paesino e a trasferirsi in una cittadina più grande, le difficoltà non finiscono. Chi viene dalla campagna è comunque considerato un “immigrato”, uno “straniero”, e questo comporta una serie di conseguenze che accompagneranno Karoline fino a quando inizierà a lavorare.

Ma l’estraneità cinese ci viene descritta anche in altri campi.

Ad esempio: il nonno di Karoline, che era stato un fervente sostenitore del governo, ad un certo punto perse la fiducia nel socialismo, e si diede al Falun Gong, un movimento spirituale che in Cina assunse un’amplissima portata.

Era un movimento pacifico, ma il governo cinese non poteva lasciar sopravvivere al proprio interno un’organizzazione così ampia, e da un giorno all’altro lo rese illegale. E con l’illegalità, arrivarono anche gli arresti e le torture per gli adepti che si rifiutavano di rinunciare al loro credo: siamo alla fine degli anni Novanta, non nell’Ottocento.

E che dire dell’addestramento militare a cui Karoline e i suoi coetanei devono sottostare quando si iscrivono all’università nel 2008?

La Cina è un paese pieno di contraddizioni.

Karoline Kan, però, come altri scrittori cinesi, non rinnega il suo paese.

Certo, ne mette in risalto gli aspetti negativi, ma alla base c’è sempre una speranza di redenzione e una fiducia di fondo nei cittadini cinesi, anche se a volte persino lei si lascia prendere dalla rabbia davanti a un’amica che non si interessa dei diritti delle donne e del silenzio imposto sui fatti di Tienanmen, o rabbia davanti a usanze sociali difficili da estirpare:

I ragazzi avevano il permesso di conoscersi solo dopo uno scambio reciproco di informazioni di base che comprendevano età, altezza, livello di istruzione, ma anche età dei genitori o presenza di eventuali fratelli o sorelle da mantenere.

I cinesi non sono molto diversi da noi.

Anche loro si danno da fare per vivere meglio secondo gli standard di vita imposti dalla TV e dai social media. E anche i loro giovani sono in costante lotta contro le generazioni precedenti: è un aspetto che accomuna tutte le latitudini e tutte le epoche.

Anche se ci avevano inculcato l’idea del lavoro come strumento per “servire la nazione”, a conti fatti nessuno di noi la pensava così. Quello a cui aspiravamo davvero era il successo individuale, e tanti saluti alla patria.

Mi piacerebbe che questo libro venisse letto da tutti quelli che credono che i cinesi siano formichine pronte a lavorare anche di sabato e di domenica, ma un po’ tonte, disposte a farsi mettere i piedi in testa dallo Xinping di turno affinché la Cina diventi il primo paese al mondo.

Ci sono anche cinesi così, certo. Cinesi che credono alla propaganda ufficiale, che non si fanno domande, che supportano la repressione a Hong Kong, che odiano gli Stati Uniti perché nei libri di scuola è scritto che sono il loro nemico peggiore.

Ma ci sono anche italiani che credono che il Covid sia stato creato in laboratorio per distruggere i paesi nemici.

E niente, il mondo è vario.

PS: ho chiesto alla scrittrice: questo libro non è ancora stato pubblicato in Cina.

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Homo deus – Yuval Noah Harari

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Quello che mi piace dei libri di Harari è che, per quanto lunghi siano, ogni pagina concorre a rinforzare la tesi di fondo. Harari non solo ha una conoscenza e una curiosità profonde in ogni campo, ma anche buone capacità comunicative, attributi che fanno dei suoi libri un passatempo piacevole e costruttivo.

In Homo Deus, l’obiettivo è capire come si svilupperà il genere umano, o almeno individuare alcune possibili linee di sviluppo.

In passato le preoccupazioni principali dell’umanità erano le guerre, le epidemie e le carestie, tutti problemi che non sono più eventi ineluttabili, né sono più considerati come vendette divine o maligne.

Liberati (o quasi) da questi fardelli, gli uomini ora cosa fanno? Mirano non più alla mera sopravvivenza, ma all’immortalità e alla felicità.

E’ possibile?

Per tentare di rispondere a questa risposta, Harari parte dal confronto tra uomini e animali. Cosa ci distingue davvero dagli animali?

Non l’intelligenza né la sensibilità, bensì la capacità di organizzazione su larga scala.

Un governo, statale o mondiale che sia, organizza enormi masse di persone che non si conoscono  tra loro, mentre un gruppo di scimpanzé collabora al massimo all’interno del proprio gruppo.

E’ la cooperazione che ha reso grande l’essere umano.

Ogni volta che facciamo qualcosa che va contro la cooperazione, riportiamo indietro la storia umana.

E come si fa ad organizzare le grandi masse?

Con le storie.

Gli animali non inventano storie.

E’ lo story telling la grande invenzione umana; col suo importantissimo corollario: la scrittura, che ha fatto viaggiare le storie nel tempo e nello spazio.

Ma questa evoluzione ha avuto i suoi lati oscuri.

La modernità ha fatto una scelta: ha scelto il potere (sulla natura, sul mondo, sugli animali) a scapito del senso.

Il senso una volta ce lo davano le grandi storie: il comunismo, il liberismo, il cattolicesimo… Ora parliamo di umanesimo, cioè di una storia che attribuisce il valore supremo all’uomo, ai suoi sentimenti e alle sue sensazioni.

Tutto ciò che fa star bene l’uomo, l’uomo deve essere libero di sceglierlo.

O no?

Siamo davvero liberi oggi?

Questa è la domanda che rimane parzialmente inesplorata alla fine del libro, anche se Harari ci fa capire il suo punto di vista parlandoci del datismo e della somma importanza data alla circolazione dei dati (senza alcun valore etico).

Ma mi fermo qui, non posso riassumere un libro di 485 pagine in un solo post.

Leggetelo, non ne resterete delusi.

 

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Wuhan – diari da una città chiusa (Fang Fang)

La scrittrice cinese Fang Fang, nata a Wuhan nel 1952, ci racconta il suo lockdown.
I temi principali sono la paura, la morte, gli haters, la difficoltà di approvvigionarsi di cibo. Ma anche i suoi rapporti con gli amici e i parenti.

E’ infatti questo uno dei punti chiave del libro: le sue relazioni sociali.
Sono rimasta sorpresa di quanto sia rimasta in contatto con i suoi ex compagni di classe, dalle elementari all’università. Certo, lei vive sola, ha bisogno di parlare con qualcuno, ma ho l’impressione che questa sia ancora una caratteristica che i cinesi riescono a mantenere viva.

Non come noi, che non conosciamo neanche i nomi del vicino di pianerottolo.

Altro elemento che mi ha sorpreso: il suo rapporto col governo.

Fang Fang è spesso bersaglio di censura, sia coi suoi libri che coi suoi post online. Lei lo sa, se ne lamenta ma non si indigna come ci indigneremmo noi. Alla fine riconosce che ciò che vale davvero, è il bene comune. Se dunque critica l’operato del governo (e lo fa!!), al di sotto delle sue parole si può trovare una fiducia di fondo.

Quanto è lontano questo atteggiamento dalle invettive dell’italiano medio!

E’ un libro che, nonostante la tristezza dell’argomento, inspira serenità.

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Nella testa del dragone – Giada Messetti @LibriMondadori

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Saggio sulla Cina, uscito a febbraio del 2020: ma vi assicuro che non è il classico libro che approfitta della visibilità data alle pubblicazioni legate al Covid19, semplicemente perché è ben scritto, ben documentato, e ben approfondito, dunque la Messetti ha di sicuro iniziato a scriverlo in tempi non sospetti!

La Cina sorprende sempre.

Col barbone che, al posto della classica ciotola per le offerte, ha un IQR code; con l’enormità dei suoi investimenti in Africa e sulla Via della Seta; con le App statali a punti, che sono attribuiti sulla base della tua affidabilità sociale (attraversi col rosso? Meno cinque punti, e se continui così, poi non puoi più comprare i biglietti della metro!).

Ma soprattutto mi lascia sbalordita la lungimiranza dei governanti cinesi: programmano ragionando per… decenni.

Un esempio su tutti, è la sua politica di influenza sui paesi africani. Oltre agli investimenti sulle infrastrutture, il governo cinese accoglie migliaia e migliaia di studenti africani. Paga vitto, alloggio, studi.

Perché? Perché sta formando la futura classe dirigente africana. E a chi saranno grati, questi leader, una volta che saranno saliti al potere?

Capite che investire milioni su studenti stranieri è una tattica che può funzionare solo nel lungo periodo… E il confronto con l’Italia, incapace perfino di emanare una finanziaria annuale, è inevitabile!

Ci sono state molte altre pagine di questo saggio che mi hanno tenuta incollata fino a tardi. Ad esempio quelle in cui racconta come il governo crea legami diplomatici attraverso la politica dei panda (!!); oppure quelle in cui si spiega quanto la tecnologia abbia pervaso la vita cinese.

La Cina mi affascina, ma mi fa paura, anche.

Quando sono stata a Pechino, al centro olimpico, le scritte in inglese sui cartelli erano state tutte cancellate col pennarello. E nessuno parlava inglese (se non le due tipe che ci hanno fregato). Il nazionalismo è una costruzione sociale, e i cinesi sono bravi in questo.

Basti pensare al fatto che nessun cinese si lamenta delle violazioni alla privacy effettuate tramite la tecnologia di Stato. Accettano limitazioni a certe libertà, se questo garantisce loro sicurezza.

Un’altra cosa che mi fa paura? Gli investimenti cinesi nel settore militare.

Sono enormi.

Certo, molti sono funzionali alle infrastrutture all’estero. Così dicono. Ma quanto ci vuole per passare all’ingerenza politica, o peggio?

Insomma: la Cina va studiata. Non solo perché ci sono cinesi dappertutto, anche dietro ai film che guardiamo e ai vestiti che indossiamo.

Che la Cina meriti una più approfondita attenzione, me lo dice il fatto che la nipote di Trump, cinque anni, parla cinese.

Voglio dire: la nipote di Trump, il biondo che fa la guerra doganale ai cinesi, ha la nipotina che parla cinese mandarino!!!

Pensiamoci.

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L’impero di Cindia (Federico Rampini)

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E’ la terza volta che sospendo la lettura di questo libro… ogni volta riprendo dal punto in cui avevo interrotto, e dopo una cinquantina di pagine, risospendo di nuovo. Tra qualche anno lo finisco, abbiate fiducia.

Il fatto è che nonostante i fatti raccontati siano interessanti, Rampini non è accattivante. Forse mi sto abituando troppo ai saggisti di influenza anglosassone… O, forse, quello che cerco in un libro sull’Asia è l’aspetto tradizionale, strano, lontano, e non la situazione economica e sociale contemporanea.

Ad ogni modo, un paio di dati notevoli ve li riporto.

Rampini inizia parlando dell’India, la più grande democrazia moderna, con i suoi pro e i suoi contro. L’instabilità politica, ad esempio, così come il controllo del potere da parte della famiglia Gandhi (attenti: non sono diretti parenti del Mahatma, nonostante portino lo stesso cognome).

L’india è un coacervo di contraddizioni che si concretizza nel binomio tecnologia-tradizione. Da un lato il settore tecnologico è costantemente all’avanguardia, dall’altro ci sono le mucche che fanno la cacca davanti al parlamento.

L’elemento caratterizzante dell’avanzata indiana è l’attenzione data dallo stato all’istruzione.

Mille docenti, il vertice della scienza indiana, si dedicano a 3000 studenti (un rapporto di un professore per tre studenti, anche questo un record) che vengono mantenuti generosamente dallo Stato indiano.

Nelle scuole per i figli della middle class si insegnano tutte le materie in inglese fin dalla prima elementare.

In America e in Europa la gente risparmia anzitutto per prepararsi alla pensione, qui la prima finalità del risparmio è l’istruzione dei figli.

In India, fin dalle scuole elementari sono famose le gare di matematica.

Il numero dei laureati dell’India supera l’intera popolazione della Francia.

 

Poi, Rampini passa a parlare della Cina. Sono arrivata a pagina 152, e il focus è sull’economia e sulla situazione dello sfruttamento dei lavoratori, in particolar modo sulla presunta cecità delle aziende internazionali che fingono di non sapere cosa succede nelle fabbriche che producono per loro.

Nike, Adidas, Walt Disney… gli esempi sono molti.

Ma soprattutto, anche qui, l’istruzione è in testa all’agenda dei politici cinesi.

Poi noi ci chiediamo perché l’Italia sta rimanendo indietro sullo scacchiere politico ed economico internazionale.

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21 Lezioni per il ventunesimo secolo – Yuval Noah Harari

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Ventuno capitoli, ognuno con una tematica con risvolti universali: non saprei da dove cominciare a parlare di questo libro.

Eppure c’è un filo che lega tutti i topics, dalla tecnologia, al lavoro, dal nazionalismo alla religione, dall’immigrazione al terrorismo, dall’ignoranza alla guerra, dalla libertà all’educazione. Questo filo è dato dalle storie.

Noi siamo fatti di storie.

Fin da quando iniziamo a comunicare, quello che ci interessa non sono i fatti, i numeri, i grafici, la realtà, ma la storia che noi creiamo con questi dati. Le storie ci hanno permesso di comunicare tra di noi e ci hanno dato quel di più che ha fatto della razza umana la dominatrice della Terra.

Nel Novecento disponevamo di tre grandi storie che spiegavano il presente di allora: il comunismo, il fascismo, il liberismo. Il liberismo sembrava prevalere, ma nel Duemila anche il Liberismo ha perso la sua attrattiva: siamo rimasti senza storie.

Anche il nostro sé è una storia, siamo noi che ci creiamo un’immagine di noi stessi. E una storia devono inventarla i terroristi, per attirare martiri, e le religioni, per attirare fedeli.

Tutto è storia.

Harari dice una cosa che mi fa pensare: le storie, essendo una manipolazione di fatti e realtà, non sono realistiche. A volte la nostra razionalità litiga con questa mancanza di aderenza ai fatti, perciò, per tenerci legati alle storie (che creano coesione sociale), si inventano rituali e simboli, che ci mettono davanti, giorno dopo giorno, la storia per rendercela quotidiana, nostra.

Uno degli strumenti più efficaci nel convincerci ad accettare le storie, sono i sacrifici. Quando uno si immola per una causa, di qualunque tipo, religiosa, nazionalista, culturale, poi è più difficile per lui ammettere che la storia è falsa.

Richiede molto coraggio ammettere di aver ucciso o sacrificato persone, animali, desideri per una cosa che non esiste. Un’ammissione del genere intacca direttamente la nostra identità.

Un altro punto su cui Harari insiste molto è la discontinuità tecnologica.

Gli algoritmi, dice, possono conoscerci meglio di noi stessi, soprattutto se la tecnologia si estenderà a monitorare anche le nostre reazioni fisico-chimiche (cosa che non è ormai più fantascienza).

Un computer, analizzando le nostre reazioni, potrebbe sapere meglio di noi cosa ci fa bene, sia che si tratti di scegliere la facoltà universitaria che il partner o da che parte voltare il volante per evitare un incidente.

Qualcuno potrebbe obiettare che il computer non ha basi etiche.

In realtà, noi Sapiens, che ci vantiamo di aver inventato l’etica, quando si tratta di decidere se pagare le tasse o se fare l’elemosina o se tradire il compagno, lo facciamo sulla base delle sensazioni del momento: non ci mettiamo a ragionare sul Bene e sul Male.

Da questo punto di vista un algoritmo potrebbe rispettare l’etica meglio di noi (a patto che ci sia un qualche tipo di controllo sui principi etici che vengono processati alla base).

Sto banalizzando 321 pagine illuminanti… Ma questo è un libro che non può essere riassunto: se salti un passaggio, perdi la connessione logica, perché ogni capitolo è collegato al successivo in un unico grande discorso.

Io l’ho adorato.


 

PS: per chi si chiedesse perché l’ho letto in inglese…. l’ho comprato usato e mi è costato la metà.

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