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Figli della furia (Chris Kraus)

1973. In ospedale, l’ex agente segreto Koja racconta la sua vita a un giovane idealista con dei bulloni di titanio che gli tengono chiuso il cranio.

La storia inizia nella prima metà del Novecento a Riga, dove Koja e il fratello maggiore Hub vivevano col padre ritrattista e la madre baronessa russa. Adottano, per intercessione di una domestica, la piccola Ev di oscure origini.

Ev sposa Erhard, che inizia i fratelli al nazismo, che sembra essere l’unico sbocco per entrambi, quasi un’ancora di salvezza, soprattutto per Koja, che, diventato architetto, non riesce a mantenersi col suo lavoro. La passione di Hub per la causa, però, si scontra con la tiepida adesione del fratello e di Ev, che divorzia dal marito.

Ev sposa Hub, ma Koja scopre che lei è ebrea. Non glielo dice subito, aspetterà anni prima di farlo: e nel frattempo, di nascosto dal fratello, genererà con lei una figlia, Anna, fingendo che sia sua nipote.

Finita la guerra, Koja diventa una spia russa: lo fa per salvare Maja, una sua ex amante che lui aveva addestrato per uccidere Stalin e che è stata catturata dai rossi.

Quando Ev scopre di essere ebrea (nel frattempo la figlia è morta, non-vi-dico-come), vuole assolutamente trasferirsi in Israele e Koja la segue di malavoglia sotto falso nome. Ev incomincia a raccogliere materiale per incriminare nazisti (suo marito è uno di questi), senza preoccuparsi troppo che queste ricerche potrebbero portare alla morte anche Koja, che nel frattempo vive con lei come un marito vero e proprio.

Insomma…

E’ un libro pieno di avventura, di avvenimenti, doppi e tripli tradimenti, viaggi, omicidi, avvelenamenti, bugie, suicidi, braccia che saltano, pallottole incastrate nei cervelli…

Fin troppo.

Chris Kraus è famoso in Germania come regista e questo libro gli è costato dieci anni di vita. Tutto è iniziato quando ha scoperto che il nonno, a cui era molto legato, era stato un criminale di guerra: uno di quelli brutti, colpevole di migliaia di uccisioni. Ma in famiglia non se ne parlava, era un segreto ben custodito.

La necessità di far coincidere questa brutale immagine con il ricordo che il bambino viziato aveva del nonno, lo ha portato a scrivere questa storia, che si basa su fatti realmente avvenuti e che cita anche molti personaggi realmente esistiti.

E’ un libro che va al di là del significato personale e che in Germania ha suscitato scalpore, perché è andato a toccare argomenti sensibili, come la partecipazione di tanti, tantissimi ex nazisti al processo di ricostruzione postbellico.

E’ un romanzo da leggere sotto l’ombrellone se siete amanti del genere.

Ma che genere, poi?

Spionistico di sicuro, ma anche drammatico e storico.

Io ho qualche difficoltà con gli agenti segreti, non mi piace neanche 007. Non mi piacciono le mezze verità, le mezze frasi, i non detti, la gente che passa da una parte all’altra giustificandosi in tutti i modi possibili. Ma è un gusto personale.

Mi è piaciuta molto la parte in cui i due fratelli aderiscono al nazismo: è credibile.

Non mi è piaciuta Ev: è un personaggio che sembra volersi rendere troppo interessante, passa da un marito a un fratello all’altro fratello a uno psichiatra, senza farsi problemi, con una falsa ingenuità che dopo un po’ perde di verosimiglianza.

E’ un medico che lavora nei campi di concentramento ma non si parla di quello che ha visto là dentro, né si dice se ha fatto qualcosa di concreto là dentro, né si approfondisce cosa ha provato, là dentro. Quel periodo lo veniamo a conoscere solo per sentito dire, e invece sarebbe stato interessante, anche se, leggendo tutto attraverso gli occhi di Koja, è giusto che la nostra conoscenza resti parziale.

Uscito nel 2017 in Germania e nel 2021 in Italia (Sem).

Da leggere.

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Exodus (Leon Uris) – 1° volume

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Per raccogliere il materiale necessario a questo libro ho percorso circa ottantamila chilometri. I metri di nastro inciso, il numero di interviste, le tonnellate di libri consultati, la quantità di pellicola impressionata e di dollari spesi raggiungono cifre non meno impressionanti.

Ecco cosa dichiara Leon Uris nella prefazione del libro, uscito nel 1958.

Exodus è il nome di una vecchia nave che – una volta finita la seconda guerra mondiale – porta 300 bambini in Palestina. La nave del romanzo, che si ispira a una vicenda realmente accaduta, parte da Cipro, dove gli ebrei scampati allo sterminio hitleriano erano rinchiusi in campi inglesi!

Bisogna ricordare che gli inglesi avevano il Mandato sulla Palestina ed erano contrari all’immigrazione ebraica, perché questo li avrebbe messi in difficoltà con le popolazioni arabe di cui erano, storicamente, alleati.

Pensate: centinaia e centinaia di persone sfuggite dalle camere a gas europee che credono di essere in salvo e invece si ritrovano di nuovo rinchiuse in campi recintati!

I personaggi del romanzo sono un’invenzione letteraria, ma necessariamente entrano in gioco molti nomi di vere personalità storiche (Ben Gurion, Churchill, gli zar russi, i muftì…).

I protagonisti principali sono pochi: uno è Arì Ben Canaan, ebreo palestinese ed ex soldato inglese, con un passato di lotte e dolore.

Poi c’è Kitty, una giovane vedova infermiera che si dedica ai bambini ebrei e che decide di andare in Palestina per seguire una ragazza che le ricorda la figlia morta a pochi anni di età.

Altri personaggi sono meno delineati dal punto di vista psicologico, ma sono necessari perché, attraverso la loro storia e la storia dei loro genitori, nonni, avi, viene narrata la storia ebraica nel mondo, dalla distruzione del Tempio fino ai giorni della vicenda.

Sono digressioni lunghe molte pagine, a volte sembra di leggere un libro di storia, e, considerando le origini ebraiche dell’autore, ci si chiede quanto obiettive siano (ma… esistono libri di storia obiettivi?).

Il romanzo, appena uscito, è diventato subito un bestseller tradotto in decine di lingue, eppure il gotha letterario lo ha molto criticato.

Stando ai critici, il romanzo soffre di difetti sia letterari che contenutistici.

Non sono un’esperta, ma neanche io credo di aver tenuto nelle mani una grande opera d’arte. Il registro cambia spesso e in modo repentino, ci sono troppi punti esclamativi, è troppo simile a una sceneggiatura cinematografica (Uris era anche sceneggiatore, e infatti questo romanzo è diventato un film diretto da Otto Preminger, starring Paul Newman).

Per quanto riguarda i contenuti, molti hanno accusato Uris di propaganda antipalestinese. 

Dal mio punto di vista, sì, è vero che i musulmani sono spesso identificati come ladri, ignoranti e violenti, ma stiamo parlando di tribù seminomadi che attaccavano i neo-insediati ebrei: in un romanzo di poche pretese psicologiche è “normale” che si prendano le parti dei protagonisti che devono affrontare le difficoltà per arrivare al loro scopo (una nazione ebraica).

Tanto più che certi musulmani diventano amici di Ben Arì e di suo padre, dunque la caratterizzazione negativa non mi sembra così generalizzata.

Nel romanzo si parla molto peggio degli inglesi! Quelli sì che erano i veri traditori!

Il primo volume finisce con l’Exodus che, dopo aver gabbato gli inglesi facendo leva sull’opinione pubblica mondiale, arriva sulle coste della Palestina.

Per ora mi fermo al primo volume. Seppure interessante dal punto di vista storico, secondo me è un po’ debole sulle caratterizzazioni psicologiche.

Prendiamo Kitty, ad esempio: resta vedova dell’uomo tanto amato e poi le muore la figlioletta. Pochi anni dopo, incontra una adolescente nel campo di internamento inglese a Cipro e scatta il colpo di fulmine, e addirittura pensa di adottarla… il passaggio è troppo rapido e poco verosimile.

Uris è più efficace quando allarga lo sguardo, quando, attraverso i lunghi flash back, ti fa capire come è stato trattato il popolo ebraico nei secoli, e soprattutto come i governanti dei vari stati, per motivi di volta in volta diversi, siano riusciti a trasformare gli ebrei in capri espiatori.

Una cosa ho notato: è più facile instillare l’odio verso certe minoranze sfruttando il senso di inferiorità delle popolazioni. Chi si sente escluso, chi si sente impotente, chi crede (o è) vittima di ingiustizie… tutta questa gente ha bisogno di qualcuno su cui sfogarsi.

Una volta erano gli ebrei.

E oggi?

Gente frustrata ce n’è a iosa, guardate i social!

Basta raccontare una storia in modo leggermente diverso e il capro espiatorio… è qui!

 

 

 

 

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Satana a Goraj – Isaac Bashevis Singer

Mamma mia che mondo invivibile, quello di Goraj tra il 1665 e il 1666, il tempo in cui, secondo gli esperti della Cabbala, il Messia si sarebbe manifestato e l’esilio sarebbe giunto alla fine!

Guerre, torture, distruzioni, incendi, inondazioni, possessioni diaboliche, segni divini e maligni… questo romanzo è un susseguirsi di immagini forti, ma raccontati da una voce che cerca di restare distaccata. O finge, di voler restare distaccata…

Singer narra la storia di un paesino che si trova in un luogo non ben definito (neanche il suo nome è certo, tant’è che non si possono registrare le sentenze di divorzio perché ci sono dubbi in merito).

Nel 1665, circola la voce che il Messia sia arrivato nelle spoglie di un certo Shabbatay Tzevi: tutti gli ebrei vanno fuori di testa e si preparano a risvegliarsi nella Terra Promessa.

Nascono fazioni pro e contro il presunto messia, e un rabbi si sostituisce all’altro, in successione, nel favore popolare.

Tutto succede all’insegna dell’Attesa: spasmodica, febbricitante attesa.

Singer ci fa entrare nell’atmosfera: pensate un popolo esiliato e martorizzato, bersaglio di pogrom e genocidi, vittima di guerre ed eventi atmosferici straordinari; e pensate alla sua impotenza di fronte a tutte queste calamità.

Non verrebbe anche voi la voglia di abbandonarvi a una speranza pazza e risolutiva?

Se vi dicessero che domani tutte le vostre infinite disgrazie finiranno di colpo, le vostre regole morali non verrebbero travolte dalla felicità e dallo stordimento?

E se d’un colpo poi vi privassero di questa speranza, non subentrerebbe una rabbia distruttiva? Non vi travolgerebbe il disastro?

E’ quello che succede con Shabbatay Tzevi.

Leggendo il romanzo, mi son spesso chiesta cosa pensava Singer mentre lo scriveva. Da che parte stava, lui, ebreo praticante in terra Americana?

Perché da un lato, tra le righe si percepisce l’empatia per le sofferenze e le speranze del suo popolo, certo; ma tale empatia non è mai scevra di compatimento nei confronti dei mille e mille riti e superstizioni che intaccano ogni minimo aspetto della vita di un ebreo.

Tanto che, alla fine, mi par di capire che il nemico vero, non sono “gli altri”, la nebulosa moltitudine di esseri esterni alla vera fede a cui si attribuiscono le colpe delle carestie e delle violenze; alla fine, il nemico vero è interno al popolo eletto, si impossessa della moglie di un Giusto, viene dalla carne ebrea e da altri ebrei viene rinnegato.

Insomma: non c’è scampo al tormento.

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