Category Archives: Scrittori giapponesi

Lettura sospesa: “Gridare amore dal centro del mondo” (Kyoichi Katayama)

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Sospendo la lettura a pag. 62 (su 162) perché lo trovo banale. Non mi dà niente né dal punto di vista dei contenuti né dal punto di vista dello stile. Se c’è qualcosa che si salva, è solo l’ambientazione in Giappone.

La storia inizia con il giovane Sakutaro che parte per l’Australia, dove deve gettare le ceneri di Aki, la sua fidanzata, morta di leucemia. Così inizia a raccontare di come si sono conosciuti e della loro vita insieme a scuola.

Secondo me, parlano di amore in un modo molto banale… come potrebbero farlo due adolescenti (come infatti sono).

L’attenzione mi si era risvegliata un po’ quando il nonno di Sakutaro gli ha chiesto di andare a rubare un po’ delle ceneri della donna che ha amato per tutta una vita senza poterla sposare, ma poi questo argomento passa in secondo piano, e la mia attenzione si è spenta di nuovo.

In Giappone questo libro ha venduti circa quattro milioni di copie.

Boh, forse sono io poco portata per i libri rosa.

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Sulle madri lavoratrici: “La ragazza dell’altra riva” (Mitsuyo Kakuta)

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(Mi trovo nella fase delle letture orientali…)

Romanzo ambientato ai giorni nostri: i problemi incontrati dalle due protagoniste sono anche molto occidentali; ad essere diverso, però, è il modo in cui entrambe reagiscono a tali problemi, che è prettamente orientale.

Sayako, trentacinquenne, decide di rientrare nel mondo del lavoro, dopo esserne uscita a causa della nascita della figlia. Trova un posto in una ditta di pulizie: è un’attività estenuante e la sovrintendente è scorbutica, ma Sayako si accorge che uscire di casa le fa bene, parla di più con le persone, è più aperta ed ha più fiducia in se stessa.

Instaura inoltre un bel rapporto con la titolare, Aoi, sua coetanea, ma dal carattere molto più aperto e positivo del suo.

Ho trovato molto verosimile la descrizione delle difficoltà incontrate da Sayoko, una donna con famiglia a carico che decide di lavorare.

I familiari non la appoggiano: il marito, contrario al fatto che la moglie lavorasse fuori casa, fa commenti sprezzanti, senza mai alzare una mano per aiutare. La suocera critica in continuazione. Sayoko stessa prova molti sensi di colpa nei confronti della figlia.

Altri problemi incontrati da Sayoko sono simili ai nostri: le liste d’attesa agli asili, i rapporti con la suocera, i pettegolezzi sul posto di lavoro, i mariti che non aiutano, l’attenzione all’economia domestica, i gruppetti delle mamme, la preoccupazione che i figli non si integrino coi compagni…

Poi ci sono le difficoltà specificatamente giapponesi, ad esempio, il fenomeno del bullismo scolastico, che è spesso collegato a quello dei suicidi adolescenziali.

Molto “giapponese” è anche la reticenza a esprimere i propri sentimenti.

Aoi, ad esempio, ha alle spalle una storia pesante: da giovane si era molto legata a un’amichetta; assieme a lei aveva anche tentato il suicidio lanciandosi da un palazzo, ma dopo essere scampate entrambe alla morte, si sono perse di vista. Ebbene, Aoi non riesce ad esprimere la sofferenza che ha provato dopo la sparizione dell’amica. Se è costretta a scambiare due parole sull’argomento con Sayoko, lo fa scherzandoci su. Non si apre, è sulla difensiva, ha paura di soffrire ancora.

Anche in questo libro, come in quello di Yu Miri (v. post precedente), i protagonisti cercano di mostrarsi sempre allegri e di non far trapelare tristezza o rabbia. Tale ritrosia ostacola la costruzione di un vero rapporto tra due persone e, ovviamente, genera solitudine: è uno dei motivi per cui i suicidi giovanili sono così diffusi.

294 pagine, ma lette in tre giorni: non perché ci siano avventure all’Indiana Jones (non ci sono neanche gran colpi di scena), ma proprio per questo senso di “mal comune mezzo gaudio” che ho provato davanti alle esperienze di una mamma lavoratrice, di questa donna altamente insicura di sé che accetta il rischio di rimettersi in gioco, nonostante le difficoltà.

Dà speranza.

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Musica (Yukio Mishima) @Feltrinellied

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Ho bisogno che qualcuno mi sveli il significato di questo libro…

E’ incentrato sul trattamento psicanalitico di una bellissima ragazza, Reiko, che dice di non sentire la “musica”, quando in realtà intende di non riuscire a provare desiderio/piacere sessuale.

E’ una ragazza che ha letto un po’ di psicologia da rivista e che lo psicanalista, che racconta in prima persona, definisce isterica: tutto quello che dice è da lei interpretato in chiave sessuale facendo spesso riferimento ai suoi sogni e al suo passato.

Ma quasi niente di quello che racconta è vero: dopo poche pagine ammette di essersi inventata tutto.

La costruzione del romanzo è quasi da giallo: lo psicanalista indaga nella psiche di Reiko per scoprire quale è il nodo del suo problema. E lo trovano, questo nodo, quando trovano il fratello perduto della ragazza.

Ma… possibile che Mishima volesse parlarci solo di sessualità, frigidità, psicanalisi?

O non è forse la musica una metafora per la più degna “gioia di vivere”? Il dubbio mi è venuto quando ho letto due episodi in cui Reiko ha effettivamente sentito la “musica”, ma si trattava di beatitudine, di felicità, forse: in un caso assisteva un cugino terminale e nell’altro consolava un ragazzo che voleva suicidarsi a causa della sua impotenza.

O, forse, non è che Mishima volesse parlarci dell’insondabilità della natura umana? Dell’impossibilità di catturare con un processo razionale (la psicanalisi) un processo inconoscibile come la mente umana?

Poi però, nel vari episodi del romanzo, si torna sempre alla sessualità, e le mie teorie e i miei tentativi di assolutizzare la trama, si spiaccicano come mosche sul parabrezza.

Davvero: “Musica” è giudicato uno dei libri migliori di Mishima. ma… perché?

Non credo di averlo capito.

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Quel che resta del giorno – Kazuo Ishiguro

Era da un po’ che non provavo più un tale piacere nella lettura. In questo libro, Ishiguro usa una prosa splendida! Splendida, ho detto!

Il maggiordomo Stevens, durante una vacanza in auto (la sua prima vacanza), ripercorre i ricordi della sua vita. Stevens è completamente dedito al suo lavoro, ossessionato dall’obiettivo di raggiungere una non meno identificata dignità professionale.

Al suo ruolo ha sacrificato tutto: non è stato presente alla morte del padre, anch’esso maggiordomo; non ha intessuto nessun legame sentimentale; non si è mai fatto domande sull’attività dei suoi padroni.

Un suo precedente titolare era filonazista? Non importa, lui lo ha servito senza mai metterlo in dubbio, neanche quando gli ha fatto licenziare due cameriere solo perché erano ebree.

La governante cerca di attirare la sua attenzione donandogli fiori? Non importa, lui non può permettersi di mostrare lati deboli, non starebbe bene.

E quello che più colpisce, è la sua capacità di autogiustificarsi e di nascondere a se stesso che anche lui è un essere umano, che anche lui soffre, che anche lui potrebbe amare. La sua maschera gli si è incancrenita addosso, e se alla fine Stevens esprime il desiderio di imparare a far battute ironiche, è solo perché potrebbe dar piacere al suo nuovo padrone.

Da leggere, da leggere!!!

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L’arte di insegnare il riordino ai bambini, Nagisa Tatsumi @illibraio

Quando scriveranno il manuale intitolato “L’arte di insegnare il riordino ai mariti”???

Mentre lo aspetto, leggo la Nagisa Tatsumi, che parla di bambini.

La Nagisa, che ammette di non essere un asso nel riordino, segue regole ben precise nell’educazione dei figli.

Bisogna dare un luogo ad ogni cosa, stare attenti alle quantità, rivedere periodicamente quantità e utilità.

Bisogna inoltre insistere sulla necessità di rimettere subito a posto gli oggetti che si usano (i bambini sono procrastinatori laureati) e scegliere con cura i luoghi in cui mettere gli oggetti (perché se un bambino deve salire su una sedia per mettere via un libro sullo scaffale in alto, fidatevi: non lo farà).

I suggerimenti della Nagisa partono da un principio di base: bisogna portar rispetto agli altri.

Ne derivano alcuni corollari da cui non si può prescindere (e ai quali dovrebbero attenersi anche i mariti): nei luoghi comuni non si devono lasciare oggetti personali, e il riordino può diventare un’attività da svolgere tutti assieme (tutti = mariti inclusi).

Vi lascio leggere il libro da soli per scoprire i vari suggerimenti concreti. Niente di trascendentale: l’autrice usa solo buon senso e un po’ di creatività (neanche tanta). L’utilità di questi libri è che ti ispirano.

Ti ispirano a razionalizzare la casa.

Almeno per il tempo durante il quale dura la lettura. Io so già che da domani, quando avrò messo via il volumetto, mi dimenticherò di insistere con mio figlio affinché asciughi il lavello dopo essersi lavato i denti… perché mi stufo.

Faccio prima a farlo io.

Sbaglio, lo so. Mio figlio diventerà come mio marito.

Cosa ho detto? No! Non posso permetterlo! No, ora mi scrivo un reminder grande come la parete del corridoio: Insegna a tuo figlio a riordinare!!

Scherzi a parte, adoro gli autori giapponesi.

Ho scoperto due cose carine sulla cultura del Sol Levante.

Uno: prima di mangiare tutti si fanno, a turno, il bagno nella stessa acqua. Anche gli ospiti. Non preoccupatevi: prima di entrare in vasca, ci si lava sotto la doccia. Però… ecco, leggere una cosa del genere, mi ha fatto venire i brividi lo stesso.

Due: non capivo perché l’autrice insistesse tanto sul dilemma “cameretta sì – cameretta no”. Si chiede infatti se è il caso di dare una camera personale al bambino, almeno a partire da una certa età. Sembra che in Giappone ci sia stato molto dibattito in merito, soprattutto perché molti adolescenti diventano hikikomori.

Gli hikikomori sono stati riconosciuti dal governo giapponese come fenomeno sociale a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Si tratta di soggetti che dimostrano perdita di interesse per la scuola o il lavoro e che si ritirano completamente dalla società per più di sei mesi; sono inclini alla malinconia, se non alla depressione, e trascorrono il tempo leggendo manga, navigando su internet o semplicemente oziando nelle loro camere.

Non è l’esistenza degli hikikomori, che mi lascia perplessa. E’ la necessità (tutta giapponese) di doversi riconoscere a livello governativo.

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La stanza dei kimono, Yuka Murayama, @edizpiemme

Sospeso a pagina 107 su 337.

Questo post potrei intitolarlo “Come scegliere un libro che non fa per te”.

Innanzitutto, affidandosi alla foto di copertina: mi sono lasciata sviare dal tema giapponese, un’acconciatura orientale, i bordi di un kimono, il collo di una… geisha, forse; ma geisha nel senso originale del termine, come persona di molte capacità. Se ci avessero messo la foto di un tokonoma, l’avrei comprato lo stesso, il libro.

Poi, un libro sbagliato si sceglie affidandosi a quello che trovi scritto sulla copertina: “romantico, esplicitamente erotico e meravigliosamente scritto”.

Di romantico non c’è niente. Posso sbagliarmi, lascio sempre aperta la possibilità, ma se mi sbaglio, spiegatemi dove.

Esplicitamente erotico: sì, ma erotico in senso giapponese, quando un uomo va su di giri perché tiene in mano una scarpa col tacco. No, non lo capisco. Ho sbirciato (ebbene sì, l’ho fatto) qualche pagina, ma mi disturba il fatto che molte fantasie di una delle protagoniste derivino dal suo passato di ragazzina abusata dallo zio cinquantenne.

A me questa cosa mi disturba.

Boh.

Sarò strana.

Meravigliosamente scritto. Cheee?

Insomma, più che un romanzo, è una tazza vuota. Carina, orientale, ma vuota. Vuota come i due matrimoni dei quattro protagonisti, che non si capisce per cosa stanno insieme a fare: non si capiscono, non hanno interessi in comune, si invidiano sul lavoro quando lavorano assieme…

Non lo so, forse sono io che non ho la sensibilità sufficiente per appassionarmi a questi nuovi autori giapponesi, ma secondo me non sono più quelli di una volta.

PS: il glossario alla fine del libro è pure incompleto.

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Il magico potere del digiuno, Yoshinori Nagumo @VallardiEditore

Secondo libro che leggo sul digiuno intermittente.

Sembrerebbe che il digiuno sia una cosa semplice: basta star senza mangiare, serve scriverci sopra libri?

Eppure già questo secondo libro presenta delle differenze rilevanti rispetto a “La dieta Fasting” di JB Rives.

Rives suggeriva di concentrare il periodo di alimentazione in otto ore e di far digiuno ininterrotto nelle altre sedici. La colazione, se non si riesce a saltarla, bisogna posticiparla fino a farla rientrare nella finestra di alimentazione.

Il dottor Nagumo ci suggerisce di far direttamente un pasto al giorno.

Rives ci diceva di bere tè o caffè per imbrogliare la pancia che brontola (soprattutto all’inizio).

Nagumo ci chiede di evitare tè e caffè per non incappare in senso di nausea a causa dei tannini (e qua condivido, perché neanche io a stomaco vuoto sopporto il tè verde).

Queste le differenze principali. Ma la tesi di fondo è una, per i paesi industrializzati: mangiamo troppo (oltre che male). Il problema ora è trovare un modo che ci permetta di ingurgitare meno calorie, migliori, e tuttavia di rispettare i nostri impegni sociali da cui, ammettiamolo, non possiamo prescindere.

Dico subito che non tutte le affermazioni di Nagumo mi sono sembrate convincenti.

Ad esempio, quando dice che latte e uova, se genuini, sono alimenti completi, la vegana che è in me sente i brividi salirle sulle gambe.

Anche quando dice che dobbiamo mangiare alimenti di cui siamo fatti, e che contengano i componenti di cui abbiamo bisogno, non mi sembra così attendibile: il nostro corpo è un trasformatore. Certe vitamine riesce addirittura a fornirsele da solo. Ci siamo evoluti per migliaia di anni per trasformare le poche cacatine che trovavamo in giro nei componenti che ci servivano… ma lui dice:

(…) la cosa più importante è assumere gli stessi nutrienti di cui è costituito il nostro organismo e nelle stesse proporzioni.

Non lo trovo scientificamente corretto neanche quando dice che i paesi ricchi subiscono una diminuzione della natalità perché la salute dei suoi abitanti sta scemando… secondo me, più che una questione di fertilità, è una questione culturale, no?

E quando dice che il diabete è un modo che il corpo mette in atto per impedirsi di ingrassare? O che la miopia deriva dal fatto che non cerchiamo più prede nelle lunghe distanze della savana?

Potrei presentare delle riserve anche contro il suo panegirico sulle abitudini: sì, è vero che ti permettono di risparmiare tempo ed evitare decisioni, ma non fanno così bene al cervello…

Questo è un libro che in realtà non parla solo del digiuno. Ci sono molti confronti con il regno animale e gli uomini di migliaia di anni fa; parla del Giappone antico, di sonno, di camminate, di vero cibo.

Mi son trovata pienamente d’accordo col dottor Nagumo quando ha scritto che la salute si rispecchia nella bellezza, nel ventre piatto, nella bella pelle. E sembra che il digiuno aiuti a raggiungere questi obiettivi, per molti, molti anni.

I consigli principali sono:

  • mangiare solo quando si ha fame, e, dunque, restare la maggior parte del tempo con lo stomaco vuoto.
  • mangiare solo alimenti davvero integrali.
  • dormire nelle ore d’oro (dalle 22 alle 2 del mattino) e camminare ogni giorno.

Se riesco a tenere in piedi questo regime, vi avviso. Il vero problema non è perdere qualche chilo, ma mantenere lo stile di vita, appunto, per tutta la vita.

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La ragazza dello Sputnik, Murakami Haruki, @Einaudieditore

Giuro che questo è l’ultimo romanzo che leggo di Murakami. Posso leggere i suoi libri quando parla di scrittura o di corsa, ma vi prego, non appioppatemi la sua narrativa.

Semplicemente, non fa per me.

Capisco il tema del libro: la solitudine. Ogni uomo è solo, come un satellite lanciato nello spazio e destinato a ruotare all’infinito attorno al pianeta (anche se tecnicamente l’infinito temporale non esiste, per un satellite), ma si poteva esprimere lo stesso concetto con una storia più avvincente, o perlomeno con episodi meno slegati tra loro.

I romanzi dovrebbero essere composti di vicende strettamente necessarie, soprattutto quelli che vogliono lanciare un messaggio. Mi piacciono i simboli, non le casualità. Accetto che ci siano pochi personaggi, e tutti isolati, perché ci sta col tema, ma certi atteggiamenti mi lasciano perplessa. Ad esempio: Sumire sparisce come fumo. Myu allora chiama in aiuto K: ma non si capisce in cosa consista questo aiuto. K non fa nulla: passa le giornate a passeggiare, prendere il sole, ascoltare musica. Sarebbe stato più logico chiamare i genitori: il fatto che Myu non abbia scelto questa alternativa non è ben motivato.

E poi, una ragazza di 22 anni sparisce in un’isola greca: è piuttosto grave. Ma quando K arriva sull’isola, Myu, prima di spiegargli cosa è successo (e faccio notare che K è volato in Grecia senza neanche sapere che fosse sparita) lo fa mangiare, bere, camminare… solo dopo ore gli racconta tutto: con calma, eh!?!

E poi spiegatemi cosa c’entra nell’economia del romanzo l’ultima vicenda: il ragazzino, figlio dell’amante di K, che ha rubato nel supermercato.

Il libro si era sollevato un attimo quando gira attorno all’episodio surreale successo a Myu quattordici anni prima: il tema del doppio sta bene insieme al tema della solitudine. Ma tutto il resto è scollegato.

Banale. Noioso. Letto solo perché è stato scelto dal Gruppo di Lettura.

Murakami con me ha chiuso.

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Kafka sulla spiaggia – Murakami Haruki

L’ho iniziato per due volte, e per due volte l’ho sospeso. Ma non ero convinta: se lo leggono milioni di persone in tutto il mondo, ci deve essere qualcosa da imparare in Murakami, mi dicevo.

Così, dopo aver letto il suo “Il mestiere dello scrittore” e essermi convinta che Murakami è uno serio, sono tornata con tutta la mia buona volontà a Kafka sulla spiaggia. E devo ammettere che stavolta sono riuscita ad arrivare alla fine.

Ma ci ho messo un po’ a capire il senso del romanzo.

Sì, lo so che bisogna smettere di cercare il senso. Un romanzo può essere come la vita, e, come scrive Murakami a p. 449,

quando mai il significato di una vita appariva chiaro e facile da decifrare?

Ciò non significa che io dovessi smettere di cercarlo, il significato del romanzo. E sono giunta a delle conclusioni.

A disturbarmi, era l’assurdità della trama, l’atmosfera onirica che tanti apprezzano. Poi ho capito che era proprio questo che Murakami voleva: il romanzo è assurdo perché la vita è assurda. E allora, come si può vivere una vita assurda? Con la fantasia. E dove sta la fantasia? Dentro noi stessi. L’unico modo per affrontare il labirinto che è fuori di noi, è entrare nel nostro labirinto interno, i nostri visceri.

Ma ci sono altre due cosette che mi son piaciute: sembra che la storia di Tamura Kafka inizi a causa dell’abbandono della madre. Dunque, dalla mancanza di amore.

E l’uomo col cilindro? Beh, quello credo rappresenti il Caos. È dal Caos che nasciamo, così come Tamura Kafka ha il DNA di suo padre nel sangue. Ma è il caos che bisogna combattere per dare un senso all’assurdità, per capire come si vive.

Ok. Alla fine, questo Murakami non è proprio così vuoto come pensavo.

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Il mestiere dello scrittore – Murakami Haruki

Non è un manuale: Murakami non dà suggerimenti per gli aspiranti scrittori, anche se sottolinea che la lettura, tantissima e diversificata, è il pilastro fondamentale della vita di un autore.

L’essenziale è leggere in continuazione.

Murakami si limita a raccontare come è diventato scrittore e ad esprimere alcune sue convinzioni su certi aspetti (la scuola, la forma fisica, i premi letterari, la lunghezza dei romanzi, l’originalità, il pubblico…) ma lo fa sempre sottolineando che si tratta del suo personalissimo parere e spesso si scusa (si scusa tantissimo, quasi non c’è una pagina in cui non ci sia un qualche tipo di scusa) perché la sua opinione non coincide con quella della maggioranza.

Eppure lo ammette: ha un carattere molto individualista e non sopporta di seguire la corrente. A scuola non era il primo della classe, ma faceva il suo dovere, perché nel Dopoguerra in Giappone non ci si pensava nemmeno a fare qualcosa di diverso.

E’ una persona dalle passioni esclusive e totalizzanti che ha cementificato in una routine al limite della mania: ma lui è così, dice, non riuscirebbe a comportarsi in modo diverso. Per esempio, non fa mai presentazioni di libri in Giappone (quelle con l’autografo ai libri, per intenderci) e non va in TV, perché deve scrivere, non ha tempo per altro.

Spesso ripete che lui non è una persona speciale, ha solo un talento medio per la scrittura, e che è stato fortunato a vivere di quest’arte per più di trent’anni.

Insomma, un testo che non contiene tecniche e suggerimenti pratici. E’ solo una specie di monologo. Ma l’ho trovato prezioso. In primo luogo perché ci sono pochissime interviste di Murakami in giro. In secondo luogo, perché adoro leggere frasi come questa:

Se non ci fossero stati i libri, se non ne avessi letti tanti, probabilmente avrei condotto un’esistenza più arida e indifferente alle cose.

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