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Due film sulle pandemie

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CONTAGIOUS – EPIDEMIA MORTALE

Nonostante ci sia Arnold Schwarzenegger in copertina, scordatevi i classici film di azione e fantascienza. Qui, Schwarzenegger è un padre di famiglia senza superpoteri che ha scelto di stare con la figlia per due settimane, il poco tempo che le resterà da vivere.

La ragazza, infatti, è stata contagiata da uno zombie: ma non aspettatevi morti-viventi nello stile Walking Dead, perché ne vedrete solo un paio, e anche da lontano.

Qui tutto è centrato sul dramma del padre che non vuole far rinchiudere la figlia in un centro di contenimento, anche se sa che negli ultimi giorni diventerà aggressiva e pericolosa.

Ebbene sì, Schwarzenegger ha recitato in un film psicologico. E non se l’è neanche cavata male, a mio avviso.

CONTAGION – NESSUNO E’ IMMUNE ALLA PAURA

In un contesto molto più realistico, questo film segue le storie di sei personaggi legati tra loro da una pandemia mortale.

Matt Demon (The Martian) è il marito della Paziente Zero, Gwyneth Paltrow; Laurence Fishburne (visto in Matrix), Marion Cotillard (Inception) e Kate Winslet (Titanic) sono dell’OMS; Jude Law (Sherlock Holmes, Capitain Marvel) è un blogger.

La storia inizia il giorno Due, cioè il giorno dopo che la Paltrow è stata contagiata: solo alla fine si scoprirà cosa è successo nel Primo giorno, mostrando come può avvenire un caso di splitting (passaggio di un virus da una specie animale all’uomo).

Il film è incentrato sul modo in cui le istituzioni affrontano questi casi di malattia, e non c’è niente di più contemporaneo della Winslet, medico dell’OMS, che si ritrova a dover discutere con i politici di turno, incapaci di accettare la gravità della situazione.

Ma la storia che più dovrebbe farci riflettere è quella di Jude Law, il blogger anti-sistema. Law ha milioni di follower grazie ai suoi video e alle sue critiche al governo. Quando scoppia la pandemia, lui diffonde la notizia che la Forsitia, una pianta, è l’unico rimedio possibile, accusando gli stati mondiali di nascondere la notizia per motivi economici.

E’ quello che succede anche oggi con molti contestatori del sistema. Quello che però oggi non notiamo, è quanto personaggi del genere possano guadagnare dalla diffusione di notizie false.

Piccolo spoiler (fermatevi qui se non volete andare avanti): sia la Winslet che la Paltrow muoiono dell’influenza. Muore anche il figlioletto della Paltrow. In tutti i casi, nel film si vedono i cadaveri. Ma non sono cadaveri abbelliti: no, si vedono i cadaveri come dovrebbero essere, nel modo più realistico possibile. Non importa che si tratti di due belle attrici o di un innocente bambino: la morte viene mostrata nella sua brutalità.

E’ una brutalità voluta.

Questo è un film che può far paura, in questo periodo, ma ricordiamoci che la paura, biologicamente, è necessaria.

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Exodus (Leon Uris) – 1° volume

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Per raccogliere il materiale necessario a questo libro ho percorso circa ottantamila chilometri. I metri di nastro inciso, il numero di interviste, le tonnellate di libri consultati, la quantità di pellicola impressionata e di dollari spesi raggiungono cifre non meno impressionanti.

Ecco cosa dichiara Leon Uris nella prefazione del libro, uscito nel 1958.

Exodus è il nome di una vecchia nave che – una volta finita la seconda guerra mondiale – porta 300 bambini in Palestina. La nave del romanzo, che si ispira a una vicenda realmente accaduta, parte da Cipro, dove gli ebrei scampati allo sterminio hitleriano erano rinchiusi in campi inglesi!

Bisogna ricordare che gli inglesi avevano il Mandato sulla Palestina ed erano contrari all’immigrazione ebraica, perché questo li avrebbe messi in difficoltà con le popolazioni arabe di cui erano, storicamente, alleati.

Pensate: centinaia e centinaia di persone sfuggite dalle camere a gas europee che credono di essere in salvo e invece si ritrovano di nuovo rinchiuse in campi recintati!

I personaggi del romanzo sono un’invenzione letteraria, ma necessariamente entrano in gioco molti nomi di vere personalità storiche (Ben Gurion, Churchill, gli zar russi, i muftì…).

I protagonisti principali sono pochi: uno è Arì Ben Canaan, ebreo palestinese ed ex soldato inglese, con un passato di lotte e dolore.

Poi c’è Kitty, una giovane vedova infermiera che si dedica ai bambini ebrei e che decide di andare in Palestina per seguire una ragazza che le ricorda la figlia morta a pochi anni di età.

Altri personaggi sono meno delineati dal punto di vista psicologico, ma sono necessari perché, attraverso la loro storia e la storia dei loro genitori, nonni, avi, viene narrata la storia ebraica nel mondo, dalla distruzione del Tempio fino ai giorni della vicenda.

Sono digressioni lunghe molte pagine, a volte sembra di leggere un libro di storia, e, considerando le origini ebraiche dell’autore, ci si chiede quanto obiettive siano (ma… esistono libri di storia obiettivi?).

Il romanzo, appena uscito, è diventato subito un bestseller tradotto in decine di lingue, eppure il gotha letterario lo ha molto criticato.

Stando ai critici, il romanzo soffre di difetti sia letterari che contenutistici.

Non sono un’esperta, ma neanche io credo di aver tenuto nelle mani una grande opera d’arte. Il registro cambia spesso e in modo repentino, ci sono troppi punti esclamativi, è troppo simile a una sceneggiatura cinematografica (Uris era anche sceneggiatore, e infatti questo romanzo è diventato un film diretto da Otto Preminger, starring Paul Newman).

Per quanto riguarda i contenuti, molti hanno accusato Uris di propaganda antipalestinese. 

Dal mio punto di vista, sì, è vero che i musulmani sono spesso identificati come ladri, ignoranti e violenti, ma stiamo parlando di tribù seminomadi che attaccavano i neo-insediati ebrei: in un romanzo di poche pretese psicologiche è “normale” che si prendano le parti dei protagonisti che devono affrontare le difficoltà per arrivare al loro scopo (una nazione ebraica).

Tanto più che certi musulmani diventano amici di Ben Arì e di suo padre, dunque la caratterizzazione negativa non mi sembra così generalizzata.

Nel romanzo si parla molto peggio degli inglesi! Quelli sì che erano i veri traditori!

Il primo volume finisce con l’Exodus che, dopo aver gabbato gli inglesi facendo leva sull’opinione pubblica mondiale, arriva sulle coste della Palestina.

Per ora mi fermo al primo volume. Seppure interessante dal punto di vista storico, secondo me è un po’ debole sulle caratterizzazioni psicologiche.

Prendiamo Kitty, ad esempio: resta vedova dell’uomo tanto amato e poi le muore la figlioletta. Pochi anni dopo, incontra una adolescente nel campo di internamento inglese a Cipro e scatta il colpo di fulmine, e addirittura pensa di adottarla… il passaggio è troppo rapido e poco verosimile.

Uris è più efficace quando allarga lo sguardo, quando, attraverso i lunghi flash back, ti fa capire come è stato trattato il popolo ebraico nei secoli, e soprattutto come i governanti dei vari stati, per motivi di volta in volta diversi, siano riusciti a trasformare gli ebrei in capri espiatori.

Una cosa ho notato: è più facile instillare l’odio verso certe minoranze sfruttando il senso di inferiorità delle popolazioni. Chi si sente escluso, chi si sente impotente, chi crede (o è) vittima di ingiustizie… tutta questa gente ha bisogno di qualcuno su cui sfogarsi.

Una volta erano gli ebrei.

E oggi?

Gente frustrata ce n’è a iosa, guardate i social!

Basta raccontare una storia in modo leggermente diverso e il capro espiatorio… è qui!

 

 

 

 

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Mediterraneo: non sono femminista, ma…

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Non apprezzo molto il cinema italiano: gesticolano troppo e le intonazione nei dialoghi sono sfasate rispetto ai contenuti (vuoi mettere la maestria dei doppiatori italiani??). Ma essendo in quarantena, non possiamo uscire a prendere DVD nuovi, e allora ho ripiegato su un film visto molti anni fa e che avevo dimenticato.

Breve riassunto: un gruppo raffazzonato di militari italiani viene mandato in un’isoletta greca nel 1941. Per una serie di eventi, per tre anni rimangono isolati dal mondo e perdono completamente la cognizione di cosa sta succedendo oltre il mare.

Il tema è la fuga, un gesto spesso criticato, bollato come codardia: ma come, di là del mare succede di tutto, c’è fermento, c’è la possibilità di cambiare il mondo, e tu stai qui a crogiolarti al sole e a ballare come un greco?

Tra i vari personaggi, due fratelli vengono lasciati in cima a un monte per scopi di osservazione. Trovano una pastorella e scoprono il sesso a tre. Tutto molto allegro e senza sensi di colpa.

Ci sta.

Quello che non ci sta, è la scena finale.

Quando gli italiani se ne vanno.

La pastorella, dal molo, li saluta allegra, ricambiata, reggendosi la pancia.

Cioè: questi due (non si sa chi l’abbia messa incinta) se ne vanno, salutano, mandano baci, “ti amo” ecc. ecc… e lei fa lo stesso.

Quanta allegria, quanti sorrisi, qualche lacrimuccia.

Solo che la tipa è rimasta con un figlio, in una società patriarcale degli anni quaranta, e senza marito.

Salvatores: è credibile tutta questa allegria? O non è invece più verosimile che la pastorella sia stigmatizzata e bollata come poco di buono da tutta la comunità? Che idea si fa la gente dopo aver visto una scena del genere? Che è bello essere ragazza madre? Che gli uomini fanno quello che devono fare e poi chi s’è visto s’è visto?

Oscar come miglior film straniero 1992?

Ma vaffanc…

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L’ultimo ballo di Charlot (Fabio Stassi) @EdizioniSellerio

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Un romanzo sulla vita di Charlie Chaplin.

In esilio in Svizzera con la moglie e il figlio, Chaplin, ormai ultraottantenne, riceve la visita della morte: è arrivato il momento di seguirla. Lui riesce però a strapparle un accordo: se riuscirà a farla ridere, lei le concederà un altro anno di vita per veder crescere il figlio.

Quando il vecchio capisce che non riuscirà un’altra volta a gabbare la morte, inizia a scrivere una lettera al figlio e gli racconta di sé. Di come è nato in un circo da una madre con problemi mentali e da un padre alcolizzato, di come è arrivato negli Stati Uniti, delle decine e decine di lavori che ha fatto per sbarcare il lunario (anche l’imbalsamatore) e di come è approdato al cinema, l’invenzione del secolo.

Delle sue vicende giudiziarie col governo degli Stati Uniti e col Maccartismo, invece, ne parla in modo poco approfondito, ci scivola sopra, quasi fosse troppo doloroso.

Uno dei temi affrontati, è la ricerca della perfezione, che sembra fosse una delle ossessioni di Chaplin. Peccato che non abbia potuto sfruttarla per rubare qualche anno in più alla morte, ma, dopotutto, la perfezione non fa ridere.

Imparare a perdere la perfezione è troppo crudele e inseguirla per tutta la vita un gesto inutile e superbo.

Scritto con uno stile onirico ma preciso, è davvero un bel libro.

 

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Solo – Star Wars

Boh. Non capirò mai la vera ragione della popolarità di Star Wars. Continuo a guardare i nuovi film che escono per vedere se ci arrivo, ma niente.

L’ultimo che ho preso è stato Solo.

Solite cose: la storiellina d’amore, l’amico o amica che ti tradisce, il personaggio mascherato che si smaschera, inseguimenti spaziali, acrobazie interstellari e pugni.

Sono tutti uguali.

In questo prequel si spiega perché Han Solo si fa chiamare Solo (motivazione alquanto scontata), come diventa capitano della Millennium Falcon e come incontra Chewbecca.

Il film inizia con Han Solo che sta scappando perché si è impossessato di una dose di un preziosissimo combustibile: lo porta alla sua ragazza e cominciano a sognare di farci i soldi per abbandonare quel pianeta criminale e iniziare una nuova vita.

Però lui riesce a scappare, mentre lei viene catturata. Lui promette che tornerà a prenderla e si arruola. Dopo tre anni, durante una battaglia particolarmente violenta, si accoda a una piccola banda di fuorilegge. Ancora qualche inseguimento, e finalmente Han Solo reincontra la sua ex ragazza, che adesso lavora per l’Impero (e che sta con Paul Bettany, già visto come Visione in Avengers Age of Ultron e Gabriel in Legion).

Mi fermo qui, trama troppo noiosa.

Se c’è qualcosa che apprezzo, è la fantasia dell’ambientazione, i dettagli. In questo, ad esempio, a parte dei cani mastini ben fatti, mi è piaciuto un treno merci che correva sopra e sotto le rotaie. Ma a parte questo, il mondo di star wars, per quanto lontano nel tempo e nello spazio, non fa altro che riproporre pregi e difetti del nostro mondo (feste, criminalità, cibo, rapporti interpersonali…): insomma, è fantascienza? Vogliamo usare un po’ più fantasia e un po’ più scienza?

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L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Walter Benjamin

Trentotto pagine che ti fanno riflettere.

Siamo abituati a pensare all’arte come qualcosa dotata di AURA, di un misterioso alone luminoso, che non è in realtà niente altro che UNICITA‘. Non bisogna invece confondere la sua unicità con la sua irriproducibilità.

Perché le opere d’arte, fin dall’inizio, sono sempre state riproducibili: si pensi alle gazzelle disegnate sulle pareti delle grotte preistoriche, o ai dipinti degli allievi che ripetevano fino allo sfinimento i quadri e le tecniche dei loro maestri.

Certo, una cosa è la riproducibilità manuale, e un’altra cosa è la riproducibilità tecnica.

Quanto influisce il mezzo di riproduzione sull’aura? Una sinfonia di Beethoven ascoltata nel 2019 attraverso un MP4 perde la sua aura per il fatto che è riprodotta a secoli di distanza dalla morte del suo artista?

Benjamin non dà risposte: non potrebbe, visto che la tecnica è sempre in evoluzione e non si arriva mai ad un punto fermo. Però ci fa riflettere.

La riproducibilità tecnica, ad esempio, è stata sfruttata per portare l’arte alle masse. Una volta non era così: l’arte veniva presentata a un pubblico scelto, e la fruibilità era mediata dall’alto, gerarchicamente (si pensi all’esposizione di quadri nelle chiese e nei monasteri), allo scopo di controllare la reazione del fruitore.

Oggi l’arte si presenta alle masse: è diventata trasportabile e riproducibile. Questo riduce la possibilità di influire sulla reazione del pubblico, spesso culturalmente impreparato o semplicemente distratto, ma oggi verrebbe considerato come un aspetto positivo, democratico.

Un’altra conseguenza della riproducibilità tecnica è la scomparsa dell’elemento rituale.

L’arte è nata come un rituale magico (e poi religioso), ma il rito non è più necessario quando l’arte viene riprodotta: viene meno il luogo e vengono meno le formule che prima erano elemento transustanziale dell’oggetto artistico.

Oggi l’arte ha un valore di esponibilità che è superiore a quello cultuale.

Il breve saggio finisce con una postilla sul confronto tra fascismo e comunismo dal punto di vista del loro atteggiamento verso l’arte.

Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti).

Quando ho letto questa frase mi sono subito venuti in mente i social, in cui tutti si sfogano senza (quasi) mai combinare niente.

La guerra, e la guerra soltanto, rende possibile fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà.

Un testo che dovevo leggere.

Così stanno le cose riguardo all’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte.

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Due film: “Distruggete Los Angeles” e “The Village”

Partiamo dalla ciofeca: “Distruggete Los Angeles”. Non basta la bella faccina di Mark Dacascos a risollevare le sorti di un film scarsissimo.

A causa di alcuni esperimenti nucleari (danno la colpa alla Cina, ovvio), la terra sta per soffrire un incredibile aumento termico che ucciderà ogni essere umano. L’unico modo per fermare la catastrofe è far brillare una bomba nucleare sotto Los Angeles, in modo che la faglia oceanica smetta di allargarsi.

Già gli effetti speciali della prima scena del fuoco nell’Antartico fanno pietà.

Nella seconda scena, il colonnello belloccio deve salvare la studiosa da una casa in fiamme minacciata dalla lava, e si ferma a far battute allusive e a guardarle il sedere.

Personaggi buoni e cattivi: scontati come un paio di scarpe nel periodo dei saldi.

Un esempio? La figlia del colonnello-eroe non riesce ad allontanarsi da Los Angeles (perché l’America è grande, ma mai abbastanza, e i protagonisti finiscono sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato). Viene fatta prigioniera da un pazzo estremista religioso dalla faccia sfigurata che vuole darle fuoco, come ha già fatto con altre vittime; ma non lo fa subito: prepara tutto, butta la benzina, mostra la fiamma dell’accendino e poi va a guardare la TV… Due volte!

E quando uno cade in un pozzo di 400 metri, credetemi, muore: non alza la testa a guardare il timer della bomba nucleare.

Mamma mia, che disastro. Cosa è passato per la testa a Rutger Hauer di recitare in un film così scadente??

“The Village” è tutta un’altra storia (il regista Shyamalan è un genio, anche se questo film non è all’altezza di “Il Sesto Senso”, “Glass” e “Split”).

Comunità isolata tra le colline, fine Ottocento. La gente trascorre le giornate tra lavoro e preghiera, ma il villaggio è circondato da torrette di avvistamento che confinano con il bosco, dove vivono le… creature innominabili!

Il film inizia con il funerale di un bambino, morto perché nel villaggio mancavano le medicine. Il giovane Lucius (Joaquin Phoenix) chiede il permesso al consiglio degli anziani di poter andare nella città vicina a comprare medicinali per evitare ulteriori morti di innocenti. Permesso negato.

Ad un certo punto, incominciano a trovare animali morti e spellati in giro. Gli anziani pensano che le creature innominabili siano entrate in azione perché qualcuno le ha provocate. Però non sono così convinti…

Non vado oltre, sennò vi tolgo il piacere di guardarlo.

Ma il messaggio di fondo è questo: la paura è pericolosa, anche quando non ci sono motivi per avere paura.

E’ un messaggio potente, che ci riguarda sia a livello personale che sociale.

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The game, Alessandro Baricco @einaudieditore

Non avrei mai creduto di appassionarmi così a:

a) un libro di Alessandro Baricco

b) un libro sul mondo digitale.

Eppure…

Baricco si è messo a ricercare le radici (la spina dorsale, i reperti archeologici) del mondo digitale di oggi risalendo agli anni Settanta e ha fatto una serie di scoperte interessanti.

Intanto: perché il mondo digitale è nato? Perché chi lo ha creato (ingegneri/scienziati maschi bianchi della controcultura americana) venivano dal Novecento, uno dei secoli più sanguinosi della storia umana. Per evitare il ripetersi di una tale tragedia, nelle loro menti, forse a livello inconscio, bisognava:

a) distribuire a tutti le informazioni e impedire, tramite la velocità, che le ideologie si fossilizzassero in pericolose direttive d’azione.

b) togliere il potere alle vecchie élites (professoroni, sacerdoti & C.)

(…) l’immobilismo culturale dei popoli e il ristagno piombato delle informazioni avevano portato i loro padri a vivere in un mondo in cui si poteva fare Auschwitz senza che nessuno lo sapesse, e sganciare una bomba atomica senza che la riflessione sull’opportunità di farlo riguardasse più di una manciata di persone.

Nel far ciò, è nata una certa ossessione per il movimento, per l’abbattimento delle barriere: in fondo, se si facevano le guerre era per mantenere o allargare i propri confini, in senso materiale e non.

Per allargare la base degli utilizzatori delle informazioni, l’unico modo era cambiare i tools, gli strumenti che usavano (perché, ricordiamoci che le persone non le cambi con interventi diretti, devono cambiare da sole): da qui ecco l’importanza data alla facilità d’uso.

Nel Novecento, infatti, le élites ci rappresentavano il mondo come un iceberg alla rovescia, dove la base, enorme, sopra l’acqua rappresentava il caos, il reale, e sotto, la puntina che solo alcuni potevano scoprire, stava la Verità.

I creatori del mondo digitale, invece, hanno fatto il contrario: l’iceberg tiene l’enorme base sotto l’acqua (la complessità dei devices) e lascia emergere solo la semplicità offerta all’utilizzatore (l’I-phone che si lascia gestire con un dito).

Questo può creare delle storture, certo. Ad esempio, viene rivisto il concetto stesso di verità: non è più vero ciò che è vero, ma è vero ciò che viene meglio raccontato (ecco l’importanza dello storytelling). D’altronde, se il movimento delle informazioni deve essere veloce, è normale che nella corsa alcuni dettagli si perdano per strada.

Altra stortura è la creazione di nuove élites: chi sa usare i nuovi strumenti. Chi non lo sa fare (o chi, semplicemente, non può permetterselo), resta indietro. Ricchezza e povertà, nel mondo digitale, sono ancora molto novecenteschi. E come le élites novecentesche, quelle digitali sono difficili da controllare (solo per fare un esempio, i bestioni digitali non pagano tasse o non le pagano come dovrebbero fare).

Altra stortura: la privacy è costantemente violata, checché ne dicano i sistemisti aziendali. Pensate alle cloud: non sono nuvolette nel cielo azzurro. Sono altri computer. Di chi? Dove? Mah. E i nostri dati, siamo noi: non è così difficile orientare le nostre scelte.

Baricco però mi ha fatto notare una cosa:

Il fatto che la Rete bene o male ti faccia arrivare solo le notizie che vuoi leggere, e che ti rafforzano nelle tue convinzioni, è una cosa che può davvero temere gente che ha conosciuto le parrocchie, le sezioni di partito, il Rotary, il telegiornale di quando non c’era la Rete e i giornali degli anni ’60?

Insomma, mi fa pensare il fatto che l’unico paese in cui oggi non arriva il segnale digitale è la Corea del Nord… è la prova che la rete fa paura a certi poteri.

Certo, c’è anche il problema dei millennials, che viaggiano veloci ma senza profondità, e che non hanno conosciuto i drammi del Novecento, e dunque non sanno perché è nato il mondo digitale.

Certo, gli umani aumentati, con gli smartphone in tasca, si sentono potenti, rifiutano il parere degli esperti perché pensano di poter fare da soli anche quando non è vero, e hanno sviluppato nuove forme di egoismo di massa.

Ma allora, se consideriamo tutte queste storture, che ci stiamo a fare ancora qui? Perché non ci solleviamo in blocco e smettiamo di usarle il cellulare e i computer e di ordinare tramite Amazon e di prenotarci le vacanze da soli? In fondo i fautori della rivoluzione digitale non sono solo i vari Jobs e Zuckenberg, è da idioti presentarla come una metamorfosi imposta dall’alto e dalle forze del male!

Qualcuno ce l’ha PROPOSTO semmai, e noi ogni giorno torniamo ad accettare quell’invito.

E infatti, chi si solleva davanti al mondo digitale, non lo fa per tornare indietro all’analogico.

Ebbene, la rivoluzione digitale è, appunto, una rivoluzione: un cambio repentino e violento del gioco. Ma le regole si costruiscono man mano che si gioca. E giochiamo tutti.

Se devo trovare un difetto al libro, è che Baricco a volte si lascia prendere dalla prosa e dalle immagini, e si dimentica di presentare qualche esempio che potrebbe rendere più concreta la tesi specifica.

Per il resto, questo è un libro facile da leggere ma illuminante che, attraverso la storia (anche se al limite della contemporaneità) ci fa capire l’oggi.

Ottimista ma non semplicistico, tocca, attraverso la realtà digitale, tutti i campi del nostro vivere quotidiano, dagli acquisti online alla politica interna ed internazionale, dalla famiglia ai passatempi.

Lo devono leggere assolutamente gli ingegneri, soprattutto italiani, che non sono come gli ingegneri della controcultura americana degli albori del digitale; ma anche chi usa tutti i giorni la piccola bomba atomica che ci teniamo in tasca/borsetta.

Un invito all’Einaudi: per favore, questo libro fatelo andare oltreoceano, non aspettate troppo a farlo tradurre………………………………

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Fingersi medico per 18 anni

L’AVVERSARIO, di Emmanuel Carrère

Fingere di essere un medico ricercatore presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità in Svizzera… e non essere neanche laureato in medicina!

Sembra incredibile ma il francese Jean-Claude Romand lo ha fatto. Il castello di carte è crollato solo nel 1993, dopo che ha ucciso la moglie, i due figli di cinque e sette anni, e i vecchi genitori.

Per diciotto anni, nessuno tra parenti e amici si è accorto che Jean-Claude passava le sue giornate in giro per i boschi o, quando fingeva di andare a convegni, rintanato in una stanza d’albergo.

E i soldi? Bè, disponeva di una delega sul conto corrente dei genitori. Inoltre, alcuni amici e parenti gli avevano consegnato somme ingenti, perché aveva raccontato loro che, in quanto medico di un organismo internazionale, poteva depositare i soldi in Svizzera e guadagnarci il 18% di interessi.

Sconcertante anche il modo in cui presentava la dichiarazione dei redditi: aspettava che sua moglie firmasse i suoi moduli, poi lui firmava i suoi; ma sotto la voce “professione” indicava “studente” e allegava fotocopia del suo tesserino universitario (perché per anni ha continuato a pagare le tasse).

Ha smesso di dare esami al secondo anno di università. Frequentava le lezioni, andava tutti i giorni in biblioteca a studiare, prestava appunti agli amici, ma non dava esami. Si presentava alle sessioni all’inizio e alla fine, ma, approfittando della calca, nessuno si accorgeva che non entrava.

In casa, lasciava in giro tesserini di varie associazioni mediche, di cui pagava l’iscrizione, e non dava mai il suo numero di ufficio a nessuno, neanche alla moglie, con la scusa che all’Oms non si poteva disturbare (usava un cercapersone).

Pazzesco.

Al processo, Carrère era presente.

La sua attenzione si è focalizzata sulla personalità di Romand, così preso dalle proprie menzogne da non capire ormai più cosa era vero e cosa falso.

Gli hanno dato l’ergastolo. Oggi ha 64 anni e spesso, nei giornali francesi, si parla di liberarlo.

L’aspetto che invece mi ha colpito di più di tutta questa storia, al di là della paura di Romand per il Giudizio, sono gli Altri.

Per quanto sia stato astuto Romand nel nascondere la propria vera vita, mi chiedo quale sia stato il livello di attenzione di parenti ed amici. Perché una persona può sì essere schiva, timida, modesta, come spesso lo descrivevano, ma quanto può essere superficiale un rapporto? Un matrimonio? Un legame genitori-figlio?

Quanto conosciamo, noi, degli altri?

O, e la domanda è ancora peggiore: quanto ci interessa conoscere, degli altri?

E’ un libro che va letto per rendersi conto dei limiti cui può arrivare l’essere umano, dunque mi permetto di consigliarvene l’acquisto sul link affiliato Amazon qui.

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Il libro delle illusioni, Paul Auster

David Zimmer è un professore che, in seguito alla morte della moglie e dei due figli, ha perso la voglia di vivere.

Un giorno, per caso, si ritrova a guardare un film degli anni Venti, e gli scappa una risata. Basta questo per invogliarlo a iniziare una ricerca sul protagonista di quella comica, Hector Mann, un attore che stava per salire alla ribalta di Hollywood quando, all’improvviso, è misteriosamente scomparso.

Zimmer viene contattato via lettera da Frieda Spelling, che si dice moglie di Hector Mann: gli spiega che il marito è ancora vivo e che vuole conoscerlo.

Il professore si lascerà coinvolgere dalla storia dell’ex attore, ma noi, che leggiamo il resoconto scritto undici anni dopo i fatti, restiamo sempre col dubbio se ciò che è successo è successo davvero così.

Hector Mann è morto di morte naturale, o no?

I suoi film sono stati tutti distrutti, o no?

Ciò che si vede è ciò che c’è, o c’è anche ciò che non si vede?

La verità è davvero l’unica cosa che conta?

Può esistere l’arte fine a se stessa, destinata a non esser condivisa?

Se spariscono dal mondo tutte le testimonianze della vita di Hector, allora Hector sarà davvero esistito?

Chiuso il libro mi è rimasto il sentore di non averlo capito del tutto: cosa voleva dirci Auster con questa corsa all’ultimo minuto per vedere dei film che sono stati girati allo scopo di venir distrutti per sempre?

Guardiamo alle somiglianze: Zimmer sta traducendo le Memorie di un uomo morto (Chateaubriand) e ha scritto un libro che potrà esser letto solo dopo la propria morte e Alma (la sua ragazza per otto giorni) ne ha scritto un altro che potrà pubblicare solo una volta morto Hector Mann (non faccio altro spoiler).

C’è morte ovunque, in questo libro, nel senso di morte fisica e di dimenticanza.

La morte fisica avviene per caso: un incidente aereo, una pallottola vagante, uno spintone. Non ci si può far niente.

Ma contro la dimenticanza sì, si può lottare. Coi libri, coi film con l’arte.

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