Lo ho finito in poco più di mezza giornata, perché ho saltato delle parti.
Non mi interessava la sua esperienza della maternità, del matrimonio della figlia, della nascita del nipote, della morte del genero, degli amori venuti dopo Frizzi: sono eventi universali che ognuno vive a modo suo (anche se per personaggi così non so quanto siano divise le sfere pubbliche e private).
La biografia inizia con la morte del padre, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e da là, come le gambe di un ragno che si diramano dal corpo, c’è tutto il resto.
C’è la sua vita da adolescente in caserma, figlia e nipote di carabinieri. Il suo trasferimento da Milano a Palermo.
C’è il suo primo matrimonio con un carabiniere di origini nobili. C’è Falcone che l’ha interrogata dopo l’attentato e che è stato ucciso pochi anni dopo. C’è la sua storia con Frizzi, che l’ha aiutata a superare il lutto. C’è la separazione e la descrizione di quanto ci sia stata male. C’è la Fininvest.
C’è Berlusconi, che lei ha difeso e difende, perché lui conosce tutti per nome negli studi, anche i portieri, e – dice – perché lui ha spesso aiutato i più umili dei suoi dipendenti, anche nella malattia (fatico a far coincidere questa immagine con l’immagine di quello che fa i festini con le prostitute prendendo in giro le istituzioni e che si fa le leggi ad hoc).
C’è Giorgia Meloni che le chiede di candidarsi a sindaco di Roma. Rita dalla Chiesa rifiuta, ma le apre il comizio, dove viene fischiata perché lei è di destra, ma molte idee non coincidono con quelle della destra ufficiale (i poveri, i diritti civili, gli immigrati, la difesa degli animali…).
Io che non ho la TV e non leggo le riviste, ho scoperto che è stata radiata dall’albo dei giornalisti perché il ruolo era incompatibile con le telepromozioni, e che ha fatto più di qualche figuraccia nei social perché scriveva i post dopo aver preso delle pillole che l’aiutassero a dormire.
Nel complesso, già dal titolo, Rita dalla Chiesa mi è sembrata una persona amareggiata. Da un lato parla di tanti amici sinceri che l’hanno fatta ridere e l’hanno sostenuta, però dall’altra dice che alla fine si è sempre salvata da sola (credo però che nessuno possa essere salvato dagli altri, ognuno di noi deve decidere se farsi salvare).
Il libro ha confermato l’idea che già mi ero fatta di lei seguendola su Forum (quando avevo la TV): una che ha le sue idee e se le tiene strette. A volte un po’ rigida, e questo è più rischioso per lei che per gli altri che le stanno attorno.
Lo ho letto in due giorni scarsi, tutta presa dalla curiosità di arrivare alla fine e vedere se ci offriva una soluzione facile e indolore alla situazione italiana.
Ovviamente, come dovevo aspettarmi, le soluzioni facili e indolori non esistono, e Friedman ce lo ricorda ogni due pagine. Però una visione realista, anche se negativa, è sempre meglio di una frottola, come quelle che ci raccontano molti politici pur di tirar su voti.
E poi, ho ripassato alcuni concetti su cui non si riflette mai abbastanza.
Lo Spread, ad esempio.
Lo spread è dato dalla differenza dei tassi d’interesse pagati dai paesi sui loro titoli di stato. Di solito si confrontano i tassi tedeschi con quelli italiani: siccome l’Italia non è considerata un paese solvibile e affidabile (siccome dunque prestarle soldi è rischioso), i suoi tassi di interesse sono alti.
Investimento rischioso –> alto interesse.
La Germania al contrario è considerata affidabile, e, come succede con tutti i prestiti, se sono sicuri danno un basso rendimento, dunque i tassi di interessi tedeschi sui suoi titoli di stato sono bassi.
Più l’Italia è considerata inaffidabile, più i prestiti a lei fatti sono considerati rischiosi, più aumentano i tassi di interesse sui suoi buoni del tesoro, più aumenta la differenza con i tassi tedeschi (e dunque lo spread).
Ogni aumento dello spread ci costa diversi miliardi di interessi in più sul debito italiano.
Ma visto che il processo è noto, mi viene da pensare che quando un politico fa una cazzata e fa cadere la fiducia che si nutre nei confronti del sistema Italia, ci sia sotto qualche forma di intenzione mirata…
Un altro passo interessante è quello che riguarda le pensioni.
Purtroppo l’argomento è diventato il cavallo di battaglia di molti politici che promettono azioni popolari ma per nulla gestibili.
Per esempio, io non avevo capito (da grande ignorante che sono) l’ineguaglianza di fondo del sistema pensionistico retributivo.
Quando la Fornero ci ha fatto passare (anche se non subito) dal sistema retributivo a quello contributivo, tutti si sono concentrati sulla diminuzione delle pensioni.
Ma pochi hanno sottolineato quanto ineguale era il sistema pensionistico retributivo, che manteneva lo stesso introito ai pensionati in base agli stipendi degli ultimi anni (ma totalmente svincolato dagli effettivi contributi versati!). Significava che i pensionati continuavano a percepire una somma che era superiore ai contributi versati!
E questa differenza veniva pagata in parte dai lavoratori, in parte dal debito pubblico.
Quello che non mi convince, è che Friedman dice che l’unica soluzione è ricorrere a fondi pensionistici privati.
E non mi convince per esperienza personale: perché nessuno di quelli a cui mi son rivolta per aprire un fondo pensionistico è stato in grado di dirmi quanto ritirerò di pensione integrativa. Perché?
Almeno un’idea dovrebbero averla, questi consulenti, no? Togli le oscillazioni dovute all’inflazione e ai tassi di interesse, un minimo di idea dovrebbero averla. Per lo meno, se la pensione, con questi fondi, è calcolata col sistema contributivo. O no? Boh, non mi convincono.
Friedman se la prende, a ragione, con la demagogia di certi politici che sfruttano il malcontento popolare per racimolare voti.
Uno degli argomenti più caldi al momento è l’uscita dall’euro (sebbene l’uscita dall’euro e dalla Comunità Europea siano due concetti che spesso vengono confusi).
Il Salvini di turno dice che se usciamo dall’euro, la lira, avendo un valore più basso rispetto alle altre valute, renderebbe più competitivi i prodotti italiani, incrementando l’export. Peccato che allo stesso tempo renderebbe molto più costosi tutti i prodotti che importiamo (energia in primis, perché ci siamo accorti che non ne abbiamo molta, di nostra, vero?).
Altri argomenti interessanti, spiegati in modo comprensibile, sono la tassazione, la disoccupazione, il sistema bancario, i mercati finanziari.
Questo libro è uscito nel 2018 ma è ancora molto attuale (certo, non poteva prevedere la mazzata del Covid, ma sono sicura che Friedman ne parli nel suo ultimo libro, in uscita in questi giorni).
Molti aspetti economici me li ha chiariti. Su altri mi ha fatto sorgere delle domande (il che non è una cosa negativa).
Ad esempio: se si riducesse il cuneo fiscale (la differenza tra lo stipendio pagato dall’azienda e lo stipendio percepito dal lavoratore) riducendo le tasse, chi ci dice che gli imprenditori non sfrutterebbero questo sconto per tenersi i soldini invece di lasciarli al dipendente?
E poi: questa insistenza sulla necessità di produrre di più e consumare di più per aumentare il PIL… Fino a quanto bisogna aumentare la produzione e il consumo? Il consumo è il motore dell’economia, ma possono il consumo e la produttività crescere all’infinito?
Io cambio auto ogni vent’anni, o finché funziona: perché devo cambiarla ogni dieci, solo per aiutare il PIL?
Non compro il cellulare nuovo perché è uscito un nuovo modello, uso quello che ho perché mi basta per l’uso che ne faccio. Per indurmi a cambiarlo, devono convincermi che mi servono le nuove funzionalità: ed ecco la necessità di creare nuovi bisogni…
Infine, un appunto all’autore: lungo tutto il saggio utilizza la storia di una famiglia di Livorno per far capire meglio al lettore come funziona un sistema economico, prendendo la famiglia come esempio del sistema Italia. A volte questa storia va fuori tema.
Ho capito che bisogna semplificare, ma descrivere il menù della famiglia quando va a trovare lo zio ricco mi sembra esagerato.
Poi: non si esce dallo schema che il marito guadagna di più e che la donna si dedica a lavori di cura, che l’uomo si occupa di politica e che la donna va a guardare i fiori in giardino lasciando marito e cognato a discutere di politica ed economia… Questa parte non mi è piaciuta per niente. Scusate, ma ormai in ogni romanzo e ogni film c’è una coppia gay: stiamo superando il cliché della famiglia tradizionale, ma quando compare una famiglia tradizionale, il ruolo della donna è sempre quello della cuoca e del silenzio.
Infine: ad un certo punto il marito ammette di non sapere cosa significhi suddividere il rischio degli investimenti.
Dubito che un lettore medio (come quello che può essere colui che si accinge a leggere un libro di Friedman) non sappia cos’è la diversificazione del rischio. Ho capito che Friedman si rivolge a un pubblico non professionista, però ci sono gradi e gradi di ignoranza.
Insomma, a parte la storia della famiglia, credo che sia un libro da leggere.
E’ quasi profetico nel suo desiderio di un politico competenze in materia economica (ricordo che il libro è uscito nel 2018!) e non mi meraviglio che Friedman sia così entusiasta di Draghi (già ne parlava bene nel libro, quando ancora non si pensava a Draghi come presidente del consiglio).
Oggi è il 25 aprile, e, come ogni anno, (quasi) tutti si sentono in dovere di postare una bandiera italiana, una foto di ambientazione partigiana o le parole di una canzone patriottica. E’ il desiderio di essere come tutti. E, come tutti, da domani torneremo ad essere i soliti criticoni, qualunquisti, aspiranti emigranti (eccomi qua).
Perché in Italia la partecipazione politica dei cittadini (salvo eccezioni) si riduce a questa lamentela sullo stato del Paese e a un arroccamento elitario sulle proprie posizioni. Azioni concrete per favorire il cambiamento? Eh, beh, ecco, io…
Francesco Piccolo si è comportato in modo diverso, nel corso della sua vita?
In questa biografia, ce ne parla. Ci racconta del suo primo risveglio alla “cosa pubblica”, a nove anni, e poi, del compromesso storico, del rapimento Moro, del suo attaccamento a Berlinguer e del suo odio per Berlusconi.
Ma ci parla anche come è cambiato negli anni il suo atteggiamento politico: partito da un ideale di purezza, è approdato a una visione più pratica (il passaggio da una politica dei principi a una politica della responsabilità, direbbe Weber).
Chi fa politica secondo l’etica dei princìpi, segue le sue idee e tiene conto soltanto di quelle – in pratica si sottrae a un vero e proprio atto politico; chi fa politica secondo l’etica della responsabilità, si pone ogni volta il problema di ciò che accadrà in seguito a una sua decisione – in pratica mette in atto un’azione politica.
E’ quello che auspica, tra le righe, per la sinistra italiana: Berlusconi è salito al potere perché allora, Bertinotti, decise di seguire la via etica, rifiutando di appoggiare il governo con Prodi. E’ stata una scelta dettata dalla convinzione di stare dalla parte dei giusti, ma che effetto ha avuto? Il governo Prodi è caduto ed è arrivato Berlusconi.
E quando Berlusconi era al governo, la sinistra ha cominciato a denigrarlo dal punto di vista morale, invece di attaccarlo nella sua veste istituzionale, perché la sinistra sapeva di essere moralmente superiore. Peccato che questo l’abbia isolata e l’abbia privata di efficacia.
Si è ridotto tutto a un esercizio retorico dell’opposizione, dell’estraneità: con ogni probabilità, questo fenomeno ha avuto luogo per combattere la paura della diversità, la paura verso il potere di quest’uomo, con una denigrazione sul piano personale che ne abbassasse il pericolo. Ma l’operazione di dissacrazione del mito ha soprattutto distratto dalla lotta politica, dal centro delle questioni. Dalla costruzione di un’alternativa più efficace che potesse piacere al Paese.
Ma la biografia non parla solo di purezza e impurità, di impegno e superficialità. Parla anche del rapporto tra pubblico e privato, di come le due sfere debbano in qualche modo parlarsi per far sì che i cittadini siano buoni cittadini.
Ho finito di leggere questo libro proprio oggi, 25 aprile, quando tutti si sentono in dovere di scrivere da qualche parte parole come “libertà”, “fascismo”, “Italia”.
E’ il libro di uno che, a partire dai 9 anni, si è sempre interessato di politica: ne ha letto, scritto, discusso. Di uno che ammette i propri errori e gli errori del proprio partito, e che è arrivato alla conclusione che questi errori possano esistere, e non li esclude a priori solo per il fatto di appartenere ad un certo schieramento.
L’abitudine è quella di sentirsi estranei agli errori, estranei alle brutture del Paese. L’estraneità rende impermeabile la conoscenza, e senza conoscere le ragioni degli altri, non si può combatterle.
E invece, nel grande come nel piccolo, vedo sempre questa convinzione di essere nel giusto (quando va bene… quando va male, vedo totale disinteresse per la politica).
Non sono ottimista per il futuro dell’Italia.
Mi dispiace, Piccolo, ma se potessi emigrare, oggi, con famiglia e burattini, lo farei.
Grandezza, perché leggiamo cosa pensava davvero Montanelli di certi personaggi dello scenario italiano. Le sue critiche a Moravia, a Bocca, a molti politici del tempo; veniamo a sapere che Flaiano aveva una figlia con gravi problemi di salute, e che ammetteva di non riuscire a volerle bene.
Il libro è pieno di racconti di meschinerie, vanità, bugie, anche dello stesso Montanelli, che, con se stesso, si permette il lusso di essere sincero, cosa che non sempre fa in società o davanti agli schermi TV.
L’aspetto diaristico è una vantaggio anche perché ci fa capire come personaggi del genere gestissero il proprio entourage: mangiando. Montanelli va continuamente a cena, pranzo, colazione con giornalisti, politici, letterati.
Ma il diario è uno svantaggio per chi non è più ben addentro alle beghe politiche e giornalistiche di quegli anni: c’è una sfilza di nomi che oggi, a noi, dice poco o nulla. In particolare, ho davvero capito molto poco delle manovre di acquisto e controllo dei giornali del tempo.
L’ho iniziato prima di partire per l’Egitto e mi son trovata davanti a una serie di personaggi comuni travolti dalla rivoluzione di qualche anno fa, di cui avevo sentito parlare solo in TV.
C’è, ad esempio, il generale ‘Alwani, religiosissimo, che rispetta tutti i dettami dell’islam, ma che non è disturbato da nessun rimorso di coscienza quando deve minacciare di violenza una giovane donna per costringere suo marito a parlare (fantastico il modo in cui assistiamo alla doppia morale).
C’è Ashram, un attore fallito (a causa della corruzione del sistema, dice lui), dedito all’hashish, infastidito da una moglie che non lo ama; quest’uomo si innamora della domestica Ikram e, lui che ormai era disamorato di ogni valore, si ritrova a darsi anima e corpo alla rivoluzione dopo aver assistito all’omicidio di un giovane da parte di un militare.
C’è Asmà, insegnante, sconvolta dal sistema corrotto che vige nella scuola, e che si innamora di un attivista occupato nel sindacato di un cementificio (a direzione italiana, tanto per ricordarci che gli “italiani brava gente” alla fine tanto bravi, in giro per il mondo, non sono).
C’è Madani, l’autista del direttore generale del cementificio, che ha lavorato una vita intera al solo scopo di dare un futuro ai suoi ragazzi: solo che gli ammazzano il figlio, e tutto crolla.
C’è Dania, studentessa di medicina e figlia del generale ‘Alwani, che si innamora di Khaled, il ragazzo ammazzato dal militare, e che non sa cosa scegliere tra famiglia e rivoluzione.
C’è Nurhan, una bellissima giornalista che fa carriera a colpi di seduzione (ma mai infangando i dettami dell’Islam… e qui l’ironia si fa sarcasmo) e che lavora al servizio della restaurazione.
I personaggi sono tanti, e attraverso di loro scopriamo come la rivoluzione abbia intaccato ogni settore della società: politico, militare, scolastico, industriale, familiare, mediatico…
Se da un lato assistiamo ai sogni dei giovani e dei meno giovani, dall’altro siamo testimoni della disillusione che resta sempre una parte importante del mood del popolo egiziano.
Tu, ovviamente, mi dirai che è tutta colpa dei mass media, e io ti risponderò che non ci casco più. Se gli egiziani si fanno influenzare dai mass media, è perché lo vogliono. Alla maggior parte degli egiziani sta bene la repressione, accettano la corruzione e ne sono diventati parte integrante. Se hanno avuto in odio la rivoluzione fin dall’inizio è perché li faceva sentire a disagio con se stessi. Hanno odiato la rivoluzione prima che i mezzi di informazione offrissero un motivo per odiarla.
Scontro fra generazioni, l’importanza della comunicazione e della disinformazione, conflitti familiari, rinuncia, la religione come scusa per commettere ogni sopruso: sono solo alcuni dei temi affrontati in questo libro.
Un autore molto venduto, una ventina di anni fa, ora caduto un po’ in sordina.
Donne, vi avviso: le femministe si armino di pazienza, prima di leggere questo libro. Perché è pieno di protagonisti maschili che trattano le donne come bambolette: se le portano a letto, prima una, poi l’altra, senza farsi problemi se sposate o meno, se incinte o meno.
Ho avuto le mie difficoltà a passare il mio tempo con uomini del genere, ma una volta capito che l’intento di Chiara era proprio quello di mettere in scena personaggi vuoti (o svuotati?), sono riuscita a finirlo.
La storia è ambientata nel 1946 sul lago Maggiore. Tutti stanno cercando di riprendersi dalla guerra, eppure non se ne parla mai nel dettaglio, non si spiega mai davvero cosa è successo ai protagonisti, come quasi per mostrare che stanno cercando di dimenticare.
Il protagonista ha una barca e si sposta qua e là in cerca di donne. Durante una delle sue soste conosce l’avvocato Orimbelli, e cominciano le scorrerie insieme: le donne sono poco delineate, tutte sciocchine, tutte pronte a farsi prendere al laccio passando da uno all’altro; sono senza personalità né spessore.
Anche Matilde, l’avvenente cognata di Orimbelli, che dovrebbe essere la donna più importante, oggetto di contesta tra il protagonista e l’Orimbelli stesso, non ha caratteristiche caratteriali che ce la fissino bene in testa.
Poi la moglie di Orimbelli viene trovata morta annegata.
C’è una specie di svolta in giallo, ma si capisce già chi l’ha uccisa e perché.
Un romanzo senza plauso né pena, che poteva portare avanti le stesse tematiche in modo più appassionante e con personaggi femminili più caratterizzati.
Il bello delle (auto)biografie di personaggi pubblici è che, oltre ad appassionarti come romanzi, ti fanno ripassare la storia recente di un paese. In questo caso, il mio, di paese, dove, sembra strano, ma nominare Calvi, De Lorenzo, Logge massoniche e compagnia bella fa sgranare gli occhi ai rappresentanti delle giovani generazioni, che questi nomi li hanno sentiti solo vagamente nominare (visto che i programmi scolastici non li comprendono mai).
Ho letto dell’infanzia fascista di Scalfari, della sua Calabria contadina e del contrasto con quella di oggi, del suo primo lavoro come direttore di una casa da gioco (!) e in una banca, e poi, finalmente, come giornalista a L’Espresso.
Scalfari ci parla del Piano Solo, il tentativo di colpo di stato che, ci dice, è stato il suo giornale a smascherare. Ci parla della fondazione di Repubblica e delle idee che sono alla sua base.
Ci parla però anche delle sue vicende più intime: i rapporti tra i suoi genitori, le due donne della sua vita. Questo è comunque l’ambito in cui si fa più reticente, non ti dice nulla che già non si potesse sapere: e io rispetto la sua scelta.
Un moto di fastidio l’ho provato quando ha raccontato della sua esperienza come parlamentare. Ammette che dopo un po’ ha perso slancio, si è annoiato, ha lasciato scemare l’impegno in aula. Mi son detta: ecco un altro che approfitta della sua elezione, si prende i soldi e lascia andare alla deriva tutte le nostre idee sul valore della politica e della rappresentanza popolare.
Nessuno è perfetto. Ma almeno Scalfari sembra esser stato sincero.
Tramite il giornalista incontriamo i lati poco conosciuti di Moro, La Malfa, Gianni Agnelli, Andreotti…
Insomma: storia recente.
Un ripasso necessario, ogni tanto, per cercare di capire (ma cercare soltanto) come siamo arrivati allo scatafascio di oggi.
Ho scoperto cos’è il coefficiente di lettori: per ogni giornale (ma probabilmente lo stesso discorso si può fare per ogni tipo di carta scritta) ci sono degli acquirenti, ma i lettori di solito sono di più.
Questo, se il coefficiente di lettori di un giornale è elevato, mi porta a fare due considerazioni:
il giornale ha un buon livello di influenza (è un influencer, diremmo oggi)
Figlio di un intellettuale russo, ha continuato il mestiere del padre, quello di editore. Ma non un editore come quelli che abbiamo oggi in giro: padre e figlio credevano nella capacità dei libri di cambiare le idee della gente. O, almeno, di far sì che la gente si ponesse delle domande, o che mettesse in dubbio le versioni ufficiali fatte girare dal governo e dalla stampa di regime.
Allo scoppio della seconda guerra Mondiale, la famiglia Schiffrin riesce, dopo molti tentativi andati a vuoto, a scappare negli Stati Uniti. E’ qui che Andrè cresce, come uno studente americano, anche se sui generis: quando, a partire dai 13 anni, scopre quanto è interessante la politica di quel periodo, non smetterà più di occuparsene.
Vicino alle idee riformiste di sinistra, finirà spesso nel mirino dell’FBI e della CIA, soprattutto durante il maccartismo: è interessante l’analisi che fa della società in quel periodo e delle conseguenze che tale paura strisciante farà ricadere fino ai giorni nostri.
In questa autobiografia parla anche dell’antisemitismo e delle università americane ed inglesi (studierà due anni a Cambridge); ma parla soprattutto della sua attività di editore, prima presso la Pantheon e poi, quando la Pantheon viene fatta fuori dalle strategie del profitto, presso la New Press.
Nelle ultime pagine si sente tutta la sua nostalgia per i bei tempi andati in cui gli editori facevano il loro mestiere, quando le case editrici non erano parte di enormi e fagocitanti gruppi orientati al solo profitto (solo un dato: all’inizio degli anni Cinquanta a New York c’erano 350 libreria, dieci volte più di oggi).
E poi, cita una miriade di intellettuali che ha conosciuto di persona: non solo Gide, gran amico di suo padre, ma anche Chomsky, Sartre, De Beauvoir, Leonard Woolf, Hobsbawm, Amartya Sen e molti altri.
Non mancano le stoccate al “nostro” Berlusconi e a Bush:
L’indipendenza dell’editoria è stata duramente limitata quando è diventata proprietà di grandi gruppi. Ci sono voluti due anni prima che grandi case editrici iniziassero a pubblicare libri che denunciavano le menzogne dell’amministrazione Bush, e molti di questi titoli sono diventati dei best seller. Sono convinto che se la stampa e le case editrici lo avessero fatto da subito, Bush non avrebbe portato il paese alla disastrosa guerra irachena.
La libertà della stampa è importante. Non ce rendiamo conto, ma influenza le nostre vite: pensiamo al caso sopra riportato della guerra irachena…. ragazzi: una guerra! Si poteva evitare. Così come si potrebbero evitarne altre se l’opinione pubblica si informasse e leggesse vere informazioni e veri approfondimenti.
Invece siamo inondanti da riviste di gossip e cacche varie, da TG che parlano in tono pietoso di cani abbandonati e, subito dopo, di veline e calciatori; e, poi, da libri ad alta diffusione e basso prezzo che trattano di storielle a lieto fine e improbabili serial killer. Stiamo copiando il peggio dell’America.
Ero contraria alle quote rosa, prima di leggere questo libro. Dicevo: perché favorire una donna semplicemente in quanto donna? Bisognerebbe andare per merito, non per genere!
Ma ragioniamo come funzionano le cose adesso in Italia: si viene eletti per merito o perché si è uomini? Ribadisco: siamo in Italia; e in politica succede quello che succede nelle scuole, nelle università, nelle aziende private. Se si può, meglio un uomo, e se proprio non si può, la donna si paga meno, almeno finché non inizia a rompere le scatole con maternità ecc…
All’estero le quote rosa (anche se bisognerebbe approfondire come vengono intese) hanno permesso un miglior equilibrio rappresentativo, e, guarda caso, non hanno comportato una riduzione della natalità per le donne impegnate in politica: certo i servizi alla maternità aiutano (asili nido, sgravi fiscali per certe spese ecc…). Ma chi si batte per attivare questi servizi, se in parlamento ci sono solo uomini?
Qui siamo in Italia. Con un Vaticano che, anche se non lo dice, vede meglio le donne davanti alla stufa a pellet, che in politica o nei CdA delle aziende. Con le mamme di settant’anni che pelano le mele ai figli di quaranta. Con le famiglie in cui le bambine devono imparare a sparecchiare la tavola, mentre i figli maschi possono stare sul divano a guardare la TV.
Consiglio caldamente la lettura di questo libro alle donne. La Gruber ha intervistato un bel po’ di gente (Tito Boeri, Giuliano Ferrara, Valeria Parrella, Sofri, Rossana Rossanda, Gianna Nannini, D’Alema, Natalia Aspesi, Littizzetto…), nel nostro paese e oltre frontiera, ha sentito suore e prostitute, ha visitato centri antiviolenza e per l’assistenza all’aborto, donne con figli e madri single, studentesse fuggite all’estero e capitane d’industria…
Anche lei era contraria alle quote rosa, ma ha cambiato idea. Purtroppo la situazione italiana è questa, e serve una forzatura iniziale per cambiarla. Senza mai dare per scontate i diritti che abbiamo ottenuto. E possibilmente nutrendo meglio il dialogo tra donne, che al momento è messo in disparte da altri problemi contingenti.
Sono rimasta di stucco leggendo dell’ultima strega condannata in Svizzera, nel 1782, per aver stregato e fatto morire una bimba di otto anni. Nel 2008 la popolazione era favorevole alla riabilitazione. Ebbene: Chiesa protestante, partito di destra populista e l’Unione democratica di centro erano CONTRARIE!! Come si può essere contrari a un omicidio per stregoneria nel 2008?
Non mi interesso di politica.
“Brutta e cattiva” mi dicono alcuni, “la politica ti deve interessare!”
Bè, diciamo che mi incuriosisce ogni tanto, ma, a parte leggere qualche libro e andare a votare, ritengo che l’attuale sistema sia intoccabile dal cittadino comune: il voto non fa la differenza, almeno fino a quando al potere ci andrà gente del genere. E non faccio distinzioni tra destra e sinistra, ma tra persone che pensano al bene pubblico e persone che pensano al proprio rendiconto. Renzi rientra, come tutti gli altri, nella seconda categoria.
Le spara grosse perché sa che con gli italiani è una tecnica che funziona. E’ un comunicatore intelligente e un tramaccino, bisogna esserlo, per arrivare dove si trova lui ora. Il resto non conta.
Sono anni che si cura la campagna elettorale con i legami amicali con le persone giuste (leggi: ricchi, industriali, nobili) e con la costituzione di associazioni che si occupano della sua immagine e dei suoi interventi a macchia d’olio. Ha usato la carica di presidente della provincia per arrivare alla carica di sindaco di Firenze, ed ha usato la carica di sindaco di Firenze per arrivare a fare il presidente del consiglio.
Quando era sindaco a Firenze, glielo hanno detto, Pier Luigi Vigna (ex procuratore nazionale antimafia che per un po’ lo ha seguito, rifiutando però compensi) e Fantoni (assessore al bilancio): Matteo, non ci sei, per Firenze, lo abbiamo capito che stai qua solo per arrivare da qualche altra parte; Matteo, stai facendo danni (ma tanto quando i danni verranno fuori, tu sarai già altrove).
Renzi dice una cosa e ne fa un’altra. Dice che non gli piacciono i governi tecnici e le larghe intese, e poi ne fa uno. Dice che ci vuole trasparenza nelle entrate pubbliche e poi, con la scusa della privacy, non dice da chi arrivano centinaia e centinaia di migliaia di euro che gli hanno finanziato la campagna elettorale. Dice che la vecchia politica favoritistica se ne deve andare a casa, e poi piazza tutti i suoi amici a capo di tutte le cariche su cui riesce a mettere becco.
E’ così bravo da farsi pagare dalla provincia la campagna elettorale tramite la Florence, una società pubblicitaria al 100% di proprietà pubblica che si occupa di ogni comunicazione che esce sul suo conto su TV e giornali (altro che libertà di stampa).
Ha l’appoggio di personaggi famosi, v. Benigni, v. Baricco.
Ha instaurato un culto della personalità che gli permette di dar contro al partito da cui è nato e di difendere/parteggiare Berlusconi (notare che il PDL ha nominato Renzi come possibile successore di Berlusconi in un documento scritto che Vecchi riporta nel libro).
Ha intortato tutti con la storia del cambiamento e della rottamazione.
Ma è davvero un uomo così diverso?