Tedesco, nato nel 1893, Hans Fallada non è molto conosciuto in Italia, ma sembra che oltr’alpe stia vivendo una rinascita libraria.
Di famiglia ricca, il suo vero nome era Rudolf Ditzen. Fin da giovane si dimostra una persona disturbata: poco più che adolescente, tenta il suicidio inscenando un finto duello, ma, per sbaglio, uccide l’amico che lo avevo supportato in questa messinscena. Un genio, insomma…
Soffre di fantasie suicide e finisce in una casa di cura per i nervi, una super lussuosa villa, dove l’unica visita familiare è quella che gli fa la zia Ada, che resterà in contatto con i dottori che lo avranno in cura negli anni.
Essendo psichicamente instabile, non lo accettano come volontario quando si offre di andare al fronte durante la prima guerra mondiale. Viene invece assunto come impiegato pubblico per raccogliere informazioni sulle difficoltà economiche e alimentari della Germania in guerra.
Durante e dopo la guerra, è a Berlino. Nella città svuotata di uomini, ha gioco facile con le molte donne rimaste, ma entra nel giro dei morfinomani e diventa subito dipendente.
Intanto, continuano, con alti e bassi, i suoi tentativi letterari. Scrive molte poesie a tema erotico (una dedicata a una vera e propria patata) e un primo romanzo di formazione, perché in quegli anni era il genere che andava di moda.
Mi son fermata qui. Fallada non ha suscitato il mio interesse, nonostante le sue difficoltà psichiche (di solito i matti mi piacciono). Forse ho sbagliato approccio: un autore bisogna prenderlo con i suoi libri, non direttamente con la biografia.
Tant’è che Primo Levi ha parlato benissimo de “Ognuno muore solo”…
Domenica, sei giorni fa, ho preso la decisione di trascorrere una settimana senza leggere.
Emilio Isgró, Libro cancellato
In un mondo dove ci sommergono di consigli per leggere di più e ci stilano liste dei vantaggi apportati dalla lettura, ho sentito il bisogno di leggere di meno, perché una dipendenza è sempre una dipendenza.
Senza accorgermene, da anni “dovevo” leggere almeno un libro a settimana, arrivando a leggerne 110 nel 2020, anno del Covid. C’è chi legge di meno, chi legge di più, ma mi ero accorta che per me era diventata una dipendenza, perché se trascorrevo un giorno senza leggere, ero nervosa.
Inoltre, quando arrivavo all’ultimo capitolo di un libro, già mi guardavo intorno per decidere quale sarebbe stato il prossimo. Per non parlare delle faccende domestiche, costantemente ridotte al fanalino di coda delle mie giornate.
Così ho deciso: trascorrerò una settimana senza leggere, mi son detta. Come un crociato che va in guerra con una missione più grande di lui.
Il primo giorno ho pulito tutta la casa, ho preparato una cena di più portate e ho declattato un po’ di vestiti.
Il secondo giorno ho pulito le fughe delle piastrelle con lo spazzolino da denti e ho lucidato le maniglie delle porte col Sidol.
Il terzo giorno mi son data alla socialità e a prenotare visite mediche che attendevano da un pezzo, per me e per altri.
Il quinto giorno… ho barato. Ho letto alcuni libri in lingua, dicendomi però che non era una vera lettura, ma studio.
Il sesto giorno è oggi, e sinceramente mi sono proprio rotta le scatole.
Adesso faccio un giro per casa e scelgo il prossimo libro.
Ma come fanno quelli che non leggono? Come li gestiscono i tempi morti, mentre aspettano dal dottore o mentre mescolano il risotto sul fornello? E se ti svegli un’ora prima al mattino? E prima di andare a dormire?
Ho provato a riempire i tempi morti col cellulare, con video istruttivi (il Burundi è proprio preso male, e i servizi segreti italiani non sono presi meglio, interessante anche il sistema digestivo del Panda), ma dopo un po’ mi sento vuota. Mi manca lo scambio profondo che si può avere con la carta scritta.
Mi direte: si può parlare con la gente.
Certo, ma vi accorgete di cosa parliamo? Li chiamate scambi profondi, i discorsi sul temporale, l’ultima ricetta di Maria De Filippi e i gatti da castrare?
Ci siamo disabituati all’approfondimento.
E non è una questione da intellettuali. Non parlo di approfondimento di dati e nozioni. Parlo di approfondimento dei sentimenti. Anche quando sono al centro del discorso, i nostri sentimenti e le nostre sensazioni vengono banalizzati dalla carenza del lessico.
Io per prima, banalizzo e ridicolizzo.
Ma se l’intelligenza può essere artificiale, i sentimenti e le sensazioni sono ciò che ci rende umani.
E per ritrovarli, devo rivolgermi ai libri.
Dunque, settimana della disintossicazione libresca, addio.
Sgarbi, che notoriamente non sa argomentare e sa solo urlare e insultare, senza la minima attitudine a prendere un considerazione quello che dice l’interlocutore, vende a 180€ un video corso (che in realtà è un monologo senza esercizi) sulla dialettica e l’arte di avere ragione…
Sfatiamo subito ogni dubbio: a dispetto del titolo, la psicoterapeuta Ivana Castoldi non ci sta dicendo di mollare mariti e compagni, ma di smetterla di essere dipendenti. La dipendenza ha molte declinazioni: non solo economica, ma anche emotiva e fisica.
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La dipendenza emotiva può essere una via di fuga dalla propria responsabilità: si demandano ad altri (un compagno o un genitore) le scelte. Perché scegliere è difficile e bisogna assumersi la responsabilità di eventuali errori.
Per tradizione socioculturale, poi, le donne sono particolarmente soggette alla tentazione di essere dipendenti. Molte assumono il ruolo di moglie/compagna rinunciando a tutto ciò che è individuale: carriera, hobby, amicizie…
Altre soffocano nelle attività di cura del compagno, dei figli, dei genitori anziani, e danno per scontato che questo compito spetti a loro. Siamo state educate a occuparci di qualcosa e qualcuno, tanto che è difficilissimo trovare una donna che stia davvero facendo “niente“: ben che vada, è seduta su una sedia ma sta pensando a come incastrare i vari impegni di figli e marito.
La Castoldi ci invita ad accettare l’autonomia per essere davvero libere. Bisogna ascoltarsi, bisogna capire come siamo e di cosa abbiamo davvero bisogno, buttando all’aria le maschere e i desideri che non sono davvero nostri.
Mi piace descrivere lo scambio della coppia attraverso una funzione di arricchimento reciproco, di ampliamento delle possibilità e dilatazione degli spazi personali.
Quante coppie possono dire che il loro stare insieme è foriero di arricchimento reciproco?
La paura di non avere abbastanza coraggio e intraprendenza, di non riuscire a vivere sole, senza sentirsi abbandonate e perdute, induce molte donne, e anche molti uomini, a unire la propria solitudine a quella di un’altra persona.
Ne conosco diverse di coppie che stanno insieme per tantissimi motivi, che nulla hanno a che fare con il vero amore. Perché amore significa anche libertà, propria e altrui. Non significa fusione di due persone. Non significa dipendenza di una persona dall’altra. L’amore si basta sulla libertà e sulla parità. Le decisioni devono essere prese insieme, non ci deve essere prevaricazione, o uno che decide per entrambi: se questa diventa la forma decisoria abituale di una coppia, c’è qualcosa che non va.
Non siamo obbligati a stare insieme con qualcuno. Non possiamo neanche prendere i figli come scusa. Se in una coppia non si cresce insieme, è inutile stare insieme: i figli ne risentiranno e basta, perché nella coppia ci sarà almeno un componente infelice.
Bisogna studiarsi. E poi prendere in mano la propria vita.
Ci saranno delle difficoltà, ci sarà qualcuno che ci dirà che stiamo uscendo dal seminato. Di solito sono quelli che a volte ci apprezzano per quanto siamo brave a prenderci cura di loro o a rispondere alle loro aspettative. Attenzione: questi apprezzamenti sono spesso strumentalizzazioni! Ci tengono buone perché non ci venga voglia di far qualcos’altro.
La Castoldi porta molti esempi di donne (e anche alcuni uomini) che vivevano un rapporto di dipendenza. Dopo la terapia, alcune coppie sono rimaste insieme, altre no. Non c’è una regola fissa.
Costance Briscoe è figlia di una bellissima immigrata giamaicana e di un padre di sangue misto. Il padre ad un certo punto vince un paio di lotterie, abbandona la moglie e vive di rendita, facendosi vivo ogni tanto con i figli.
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Costance e i suoi cinque fratelli e fratellastri restano con la madre. Per qualche motivo non meglio identificabile, la madre prende di mira Costance e le rende la vita impossibile fin da piccola. La picchia, la insulta, non le dà da mangiare, la chiude in cantina o fuori casa.
Costance soffre di enuresi, e la madre le installa un allarme che suona di notte appena il lenzuolo si bagna, col risultato che la bambina dorme pochissimo perché alle due o alle quattro di mattina si ritrova sua madre in camera che la riempie di botte perché ha bagnato il letto.
Non le compra mai niente di nuovo, Costance deve indossare vestiti e scarpe vecchi, anche se non sono della sua misura.
In seguito ai maltrattamenti, Costance deve farsi operare tre cisti al seno. Poi inizia a perdere i capelli e per alcuni anni dovrà indossare una parrucca (che poi la madre le brucerà).
A scuola sospettano qualcosa, ma se la bambina non dice chiaro e tondo cosa è successo, non possono intervenire. Solo un’insegnante, polacca scampata ai campi di sterminio, si offre di ospitarla per un periodo, e in quei mesi i risultati scolastici di Costance migliorano a vista d’occhio. Poi però l’insegnate ha un incidente e non può più occuparsi di lei che deve tornare a casa dalla madre.
Il padre prova a chiedere l’affidamento delle sue figlie, ma madre non vuol rinunciare all’assegno di mantenimento.
Costance è così disperata che prova ad andare in un orfanotrofio, ma non la accettano. Allora torna a casa e beve la varechina per farla finita, ma sopravvive.
Quando Costance ha 14 anni, la madre, semplicemente, se ne va in un’altra casa e la lascia da sola. Torna ogni tanto a pretendere soldi per la luce (che poi le taglia), e toglierle le lenzuola e le coperte, e prenderle il letto.
Insomma, una serie di torture da far rizzare i capelli in testa.
Costance però non si dà per vinta e inizia a lavorare con orari massacranti, che però, insieme al pasto gratuito della scuola, le permettono di mantenersi a galla.
Il suo sogno è di diventare avvocato: tutti la deridono, non solo la madre, anche molti insegnanti.
Lei però persiste: oggi è avvocato.
Costance ce l’ha fatta, ad andarsene. Però nel libro non racconta se l’ha fatta pagare a sua madre, accenna soltanto a un colloquio in cui le dice quello che pensava di lei: parole che alla madre non hanno fatto, apparentemente, né caldo né freddo.
L’autrice riesce a raccontare la sua gioventù anche con un filo di ironia, credo che questo l’abbia aiutata molto.
Scrivendo però sempre in prima persona, ci manca del tutto il punto di vista della madre.
Cosa l’ha portata a diventare il mostro descritto in questo libro?
E’ una mia interpretazione, ma credo che questa cattiveria possa venire solo da una buona dose di infelicità. Era una donna immigrata in Inghilterra appena adolescente, bellissima, con tante aspettative, invece si è ritrovava a vivere col sostegno statale grazie ai figli che ha sfornato in quantità abbondante.
Per compagno ha avuto prima un marito, con cui non ha funzionato, e poi un rozzo amante mezzo analfabeta.
Le persone infelici sono pericolose: fanno danni.
Non le sto giustificando, lungi da me. Nell’infelicità (o insoddisfazione) cronica c’è una dose di autocompiacimento, perché è più facile lamentarsi o prendersela con gli altri che darsi da fare. Persone del genere non puoi neanche cercare di aiutarle, perché non sarà mai abbastanza.
Forse l’unica forma di aiuto possibile è far loro notare quanta parte abbiano loro stesse nella loro infelicità, senza mai dirglielo apertamente in faccia. Insomma, l’unica via d’uscita è l’autoconsapevolezza.
Il libro si legge in una giornata o due perché è avvincente, non si aspetta altro di vedere come Costance riuscirà ad emergere da questa melma di famiglia.
Tuttavia, mi sarebbe piaciuto sapere come è andata a finire la madre, mi piacerebbe leggere che è finita in galera o che ha pagato per quello che ha fatto. E anche le sorelle, che Costance definisce opportuniste: adesso che sono adulte, come ricordano quello che è successo?
Il padre meriterebbe solo oblio eterno. E’ un fatto però, che l’assenza del padre venga quasi considerata più normale delle botte della madre. Non si è sforzato molto di trovare un tetto alle figlie quando l’ex moglie le ha abbandonate e in generale le figlie lo vedevano pochissimo, ma l’autrice con lui sembra quasi comprensiva, e ne parla quasi come di un grand’uomo, perché a Natale portava loro il pasto festivo: e tutto il resto dell’anno???
Tutti ne hanno sentito parlare, di Zorba il greco, ma molti di questi pensano subito al film con Anthony Quinn, e non al libro. Io per prima.
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Il protagonista del romanzo è questo greco di sessantacinque anni, di una vitalità esuberante e sconcertante, ma la storia è raccontata da un trentenne che va a Creta per gestire una miniera di lignite. Questo uomo ha passato una vita sui libri ed è reduce dall’abbandono di un carissimo amico.
L’intellettuale ha un modo del tutto razionale di approcciarsi alla vita, e si trova davanti a uno Zorba il cui motto è “afferra quello che ti arriva”, che sia un bicchiere di vino, una giornata di sole o una donna. A Zorba piace gioire delle piccole cose: mare, pane e olive e, ancora donne.
Ne parla sempre, di donne, e non se ne fa scappare una, non importa come sia: inizia una relazione anche con la proprietaria della locanda dove lui e il suo capo dormono. Lei è già anziana, con un neo peloso sul mento e i capelli grigi, ma a Zorba non importa.
Per Zorba, tutte le donne sono un mistero (da portare a letto).
Il romanzo è l’incontro tra due modi estremi di vivere: uno chiuso, razionale, cauto, l’altro aperto, emotivo, sfidante.
Forse è per questo che non mi piace e lo sospendo a pag. 133 (su 406): mi manca un po’ di equilibrio. Nessuno dei due approcci alla vita è quello giusto, secondo me, e Zorba è troppo estremo per il mio carattere.
Io sono un’introversa a cui piace leggere: non posso – non riuscirei mai a – passare sul versante opposto, non mi sentirei a mio agio.
Mi è difficile parlare di questo romanzo uscito nel 1972, perché non sono riuscita a individuare un tema portante.
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La protagonista è una giovane donna che torna nella capanna al lago dove ha vissuto con i genitori. Ci torna insieme a tre amici: Joe, il suo attuale compagno, Anna e David, moglie e marito.
Lo scopo della protagonista è ritrovare il padre, che è scomparso, mentre i suoi amici vogliono girare un film che potrei definire “esperienziale”, perché non ha né capo né coda, si limitano a riprendere delle immagini e delle scene senza legame tra loro.
All’inizio la protagonista pensa che il padre sia scivolato e sia morto da qualche parte, poi la scoperta di alcuni disegni le fa pensare che sia impazzito. Poi si ricrede e giunge alla conclusione che quei disegni sono stati ricopiati da antichi disegni dei nativi là attorno.
Ma questi sono tutti dettagli poco importanti: quello che importa è che la donna, un po’ alla volta, si toglie di dosso gli strati che aveva indossato abitando in città. Rivede le esperienze del matrimonio e dell’aborto, le metabolizza e passa oltre.
Anche se alla fine, questo “passare oltre” ha conseguenze un po’ spiazzanti.
Quello che mi ha colpito sono le similitudini tra questa protagonista e la protagonista di un altro libro della Atwood, “Occhio di gatto”: in entrambi i libri, la protagonista ritorna al luogo dove ha vissuto da piccola, ha studiato arte, si automutila, proviene da una famiglia non convenzionale che viveva a contatto con la natura, non ha frequentato la chiesa, ha spesso vissuto in tenda, il padre studiava la natura…
Come se tutti questi punti fossero dei nodi da sciogliere per la scrittrice, o derivassero da esperienze dirette.
In questo romanzo si parla di sottomissione della donna, di aborto, di spiriti, della forza della natura, tutto insieme.
Non mi è piaciuto molto perché non c’è un tema forte, o forse io non l’ho percepito.
Ellen Roth lavora in un ospedale psichiatrico tedesco.
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Un giorno inizia a occuparsi di una paziente di cui non si conosce il nome: è piena di lividi, traumatizzata, fatica a parlare e si rannicchia negli spazi più assurdi nella speranza di nascondersi. Ha paura dell’Uomo Nero, e dice a Ellen che verrà a prendere anche lei.
La paziente le è stata lasciata dal fidanzato, anch’esso psichiatra, che è dovuto partire per l’Australia, in un luogo che non è raggiungibile dai cellulare, per cui Ellen non ha modo di confrontarsi con chi ha trattato la paziente per primo.
Ad aiutarla è un altro collega, Mark, che però, quando cerca di parlare con la paziente, non la trova. Sparita. Non ci sono neanche i documenti che attestano il suo passaggio per il pronto soccorso. Mark, dunque, inizia a dubitare della sanità mentale di Ellen che a sua volta, inizia a dubitare di Mark quando viene aggredita nel bosco da un uomo incappucciato.
Nei pochi momenti di riposo, Ellen fa molti sogni, dove compaiono cani neri (il lupo di Cappuccetto Rosso?), una casa in fiamme, due bambini che bruciano al suo interno. Sono sogni pilotati, dove lei ha un certo margine di manovra per scoprire indizi.
Alla fine, quando si scopre il colpevole e che fine ha fatto la donna che Ellen cerca disperatamente di aiutare, si capisce che gli indizi erano tutti sotto gli occhi del lettore.
Io non sono mai stata una brava detective, mi ero solo fissata sul fatto che Ellen non riuscisse a contattare il suo fidanzato Chris, e che ovviamente ha una ragione molto forte.
Un libro che ho letto in due giorni. Intrattenimento facile, stile americano, solo con i nomi propri tedeschi.
Il romanzo inizia con Michele che è nella sala d’aspetto di un ospedale: nella stanza accanto, la compagna sta partorendo. Così Michele inizia a ricordare i passi che lo hanno portato fino a quel punto, e ricorda Federico, l’amico più importante di tutti.
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Michele e Federico sono amici fin dalla prima media. Hanno diviso tutto, dalle donne alle partite di subbuteo. Ma arrivati a 28 anni, Federico si accorge che vuole di più della vita, e allora parte.
Ma prima di raccontarci di Federico, Michele ci racconta di come ha incontrato Francesca: nel bar dove lei lavorava e lui andava a prendere il caffè.
Ho sempre sentito pareri discordanti su Volo, ma prima di parlarne male, dovevo leggere qualcosa di suo. Adesso ho letto solo cinquanta pagine, ma non ce la faccio ad andare avanti e mi arrogo il diritto di parlarne male…
Per due motivi principali.
Uno: troppe smancerie. La storia dell’incontro con Francesca è piena di patemi d’animo, bigliettini pseudo-poetici, feste, la chiamo o non la chiamo, rimbambimento, amore e baci… Volo ci dice tutto. Tutti i pensieri che lo assillano durante l’innamoramento, anche se si tratta di immaginarsela seduta sul water, e di chiedersi se prende subito la cartaigienica o se lo fa dopo.
La letteratura dovrebbe essere anche svelamento. Non puoi mettere tutto in piazza. Ci vuole un po’ di rispetto del pudore. E non mi riferisco all’uomo seduto sul water con i cerchietti sulle ginocchia dove ha tenuto i gomiti appoggiati. E’ una questione di sentimenti: sono ciò che abbiamo di più intimo, non puoi spiattellarli così sulla carta senza un minimo di attenzione.
Due: lo stile.
Michele e Federico parlano come mangiano. Hanno qualche difficoltà con il congiuntivo e non dispongono di un lessico molto ampio.
L’idea del giovane (relativamente giovane, a 28 anni) che cerca la propria strada è uno dei temi più sfruttati dalla letteratura, e mai pienamente approfondito, perché ogni persona lo affronta a modo proprio. Il romanzo di formazione è un genere per conto suo, ma ogni romanzo di formazione è diverso dall’altro.
Dunque il tema era apprezzabile.
Ma non me lo puoi approcciare con parole così:
“La propria cosa, la propria chiamata, il proprio talento o capacità da esprimere. Insomma, quella roba lì”
Cosa, roba: due parole che non dicono nulla nella stessa frase. E’ una frase che ci sta, col personaggio Federico. Ma io ho bisogno di imparare qualcosa dai libri, non di tornare indietro.