Category Archives: Scrittori francesi

Le livre de mon ami – Anatole France

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Anatole France, premio Nobel per la letteratura 1921, difensore irriducibile dei diritti umani, membro dell’Accademia Francese e ora pressoché dimenticato. Perché?

Perché è noioso!!

Sono riuscita a leggere metà libro senza sbadigli, la metà in cui il narratore parla in prima persona della propria infanzia e giovinezza tra gli agi di una famiglia francese di fine Ottocento.

Non certo una lettura avventurosa, e neanche una lettura attraente dal punto di vista psicologico: è tutta ammantata dalla soavità del ricordo, immagini offuscate dalla nebbia, i fiorellini, la mammina che si preoccupa se il figlioletto ha le guance rosse e se si sporca i pantaloncini (tanti diminutivi e vezzeggiativi), ecc…

La seconda metà può essere davvero utilizzata al posto del sonnifero serale: è la parte in cui il narratore parla della figlioletta, di lei che gioca, di lei che è bella, dei suoi amichetti che leggono i libri dell’infanzia…

Ammetto che tra un bambino e un gatto preferisco il gatto, ma… non leggo neanche libri di gatti, dunque cercate di capire la fatica che ho fatto per arrivare alla fine del libro.

E neanche alla fine: ho saltato le ultime venti pagine in cui c’è un dialogo sulle fiabe.

No, questa letteratura edulcorata non fa per me.

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Il mandarino bianco (Jacques Baudouin)

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Romanzo sulla vita di Teodorico Pedrini, musicista (e pure prete, ma… a fasi alterne!).

Vissuto a cavallo tra il 1600 e il 1700, il Papa lo mandò in Cina per controllare i gesuiti (che stavano “cedendo” troppo su certe questioni ritualistiche) e con la speranza di convertire al cattolicesimo niente popò di meno che… l’imperatore Kanxi!

Bisogna dire che Pedrini era diventato prete in modo particolare: la sua più grande passione era la musica, ma senza appoggi nobiliari o ecclesiastici aveva poche possibilità di sfondare. Cedette alla tonaca solo dopo la morte della ragazza di cui si era innamorato (schiacciata dai cavalli durante il carnevale, per la cronaca).

Ovviamente, come in ogni avventura che si rispetti, per andare da Roma a Pechino, il Papa non gli ha fatto fare la strada più breve, via terra: lo ha mandato prima nel nord della Francia, a S. Malo; poi con la nave gli ha fatto attraversare lo stretto di Magellano, passare per il Cile, andare in Messico (dove stava per restare a causa di una meticcia) e poi ripartire per la Cina.

Il viaggio per arrivare in Cina è durato solo (!!) sette anni, anni molto difficili, considerando i pericoli dei viaggi a quei tempi.

A Pechino viene ricevuto dall’imperatore Kanxi soprattutto grazie alle sue capacità musicali, ed assurge fino alla carica di mandarino: onore tra gli onori!

Peccato che l’imperatore sia sotto l’influenza dei gesuiti…

I gesuiti nel 1600-1700 sono molto potenti perché dispongono di conoscenze matematiche ed astronomiche che sono utili all’imperatore.

Le fortune di Pedrini, così come sono salite alle stelle in maniera repentina, in maniera altrettanto repentina cadono nelle fogne.

Viene arrestato, picchiato e incarcerato con una scusa qualsiasi.

Durante la prigionia, pensa di continuo alla concubina e al figlio (ve l’avevo detto che era prete a fasi alterne), ma riflette anche sull’opportunità di costringere i cinesi ad adottare i riti romani: è davvero così necessario che rinuncino a prostrarsi davanti alle tavolette dei loro antenati?

Quando muore Kanxi e sale al trono il figlio, le fortune di Pedrini si risollevano.

Per poco: perché arriva il terremoto e lui resta vedovo.

Sono 317 pagine, dunque potete capire che il mio riassunto qui sopra è stato davvero succinto. Ho sorvolato su tutti gli intrighi di corte (sia occidentali che orientali) che hanno determinato il destino di Pedrini, e sull’inutilità dei suoi sforzi per convertire chicchessia in Cina.

Certo, l’autore non ha uno stile da eccelso scrittore, ma il libro si fa leggere grazie all’andamento episodico, che tralascia i tempi morti di una vita e allontana la noia.

E’ inoltre istruttivo vedere come l’atteggiamento e il pensiero di Pedrini cambino negli anni: all’inizio è convinto della sua missione e i suoi stessi discorsi sono pieni di ragionamenti sulla necessità di convertire i cinesi anche dal punto di vista ritualistico.

Alla fine, Pedrini quasi abbraccia le modalità con cui hanno agito i gesuiti e cerca (tramite interposta persona) di convincere il Papa che se la Chiesa non adotta le tesi gesuitiche, rischia di perdere la Cina per sempre.

Questo non si chiama essere voltagabbana.

La realtà cambia di continuo. Non cambiare idea (quando necessario), non è mancanza di coerenza, ma è sintomo di rigidità mentale.

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Balzac (Stefan Zweig)

Cento, duecento, trecento pagine: leggendo un libro, dimentichi il mondo reale ed entri in un mondo che non esiste per tre, quattro ore, e poi, con l’ultima riga, saluti con la manina e te ne vai, senza un minimo di riconoscenza.

E’ questo che facciamo di solito: sfruttiamo le capacità evocative e la potenza emotiva di un’opera per sentirci meglio, per diventare migliori (forse), e ci dimentichiamo totalmente di chi ha passato ore, giorni, mesi, anni a buttar giù riga dopo riga quell’opera, come se ci fosse tutto dovuto, come se la vita di uno scrittore fosse un accessorio della nostra.

Molti sostengono che un romanzo debba essere considerato un oggetto separato dal proprio creatore, e che le biografie degli autori non ci diano nulla di più di quello che le loro opera già ci offrono.

Io non sono d’accordo.

Quando leggo un’opera (soprattutto se è una grande opera) voglio capire chi era chi l’ha scritta e come ha fatto a diventare così bravo: cosa l’ha ispirato, impaurito, costretto.

Balzac è stato uno dei più importanti scrittori francesi; un genio letterario, secondo molti. Ma la genialità ha sempre il suo prezzo.

Balzac inizia a pagarlo appena nato: sua madre, semplicemente, non è interessata. Lo dà subito a balia, e poi lo affida a un contadino fino all’adolescenza, così, per non averlo tra i piedi. Balzac, nei suoi primi anni di vita, trascorre nella casa genitoriale sì e no qualche settimana.

Lui rimane un bambino timido e ubbidiente fino ai primi vent’anni quando, deciso a intraprendere la carriera letteraria, abbandona gli studi.

Brivido, terrore e raccapriccio: la famiglia, di solide basi borghesi, aborrisce fin da subito questa decisione balzana, ma, davanti alla testardaggine del giovanotto, accondiscende a mantenerlo (con molta parsimonia) per due anni, dandogli la possibilità, alla scadenza, di sfondare nell’empireo o di tornare con la coda tra le gambe a fare il notaio per tutta la vita.

Balzac, fino a quel momento, non ha mai scritto nulla.

E’ questo il bello: per la prima volta in vita sua si mette tutti contro perché si è incaponito a vivere di letteratura, ma non ha mai scritto poesie, né saggi né romanzi. E il primo giorno che si ritrova nel misero appartamento che sarà il suo rifugio sui tetti di Parigi, la sua prima domanda davanti a una risma di carta nuova di zecca è: e adesso che scrivo?

In un lampo di lucidità, si mette a studiare il mercato. Cosa si vende?

Così inizia a scrivere quello che vuole il mercato: romanzetti rosa, d’avventura, storici, ma anche saggi e opuscoletti, sul tipo di quello che potrebbe essere un odierno “come sposare un milionario”.

Scrive come un matto, di notte, con un ritmo che farebbe impallidire un Charlot alla catena di montaggio. Spesso fa il “negro”, scrive per altri, fa il ghost-writer. Scrive anche schifezze, sì: la priorità è guadagnare, stare sulle proprie gambe, liberarsi dall’influenza della famiglia, e poi, diventare ricco e famoso.

La massa di roba che Balzac ha scritto e pubblicato nei due anni 1830 e 1831, appena il suo nome comincia ad aver risonanza – novelle, romanzi brevi, articoli di giornali, storielle, considerazioni politiche – rimane senza esempio negli annali della letteratura.

E la sua vita sociale?

Per anni non riesce ad averne, a causa della mole di lavoro che tutto inghiotte.

Quando si mette in testa di doversi sposare (con una vedova, piacente e non stupida, non necessariamente troppo giovane ma, quel che importa, molto ricca) incarica addirittura la sorella di cercargli la donna giusta.

Avrà le sue avventure, negli anni (i figli illegittimi dovrebbero essere tre, forse più), ma finirà per sposare, poco prima di morire, la ricchissima contessa Hanska che, mentre lui è moribondo nella nuova casa coniugale, fa shopping e chiacchiera con la figlia di pizzi, merletti e gioielli.

Balzac è stato un vulcano di inventiva e un genio letterario ma… è stato felice?

Innanzitutto, sebbene ad un certo punto abbia iniziato a far molti soldi con la sua penna, è sempre stato perseguitato dai creditori: gli episodi comici nati dal bisogno di sfuggire a panettieri e sarti, non si contano. E’ arrivato al travestimento, alle porticine nascoste, ai nomi falsi sui contratti di affitto. Dire che aveva le mani bucate era un eufemismo.

E poi, riesce a infilarsi in una sfilza di guai dopo l’altra: fa fallire una stamperia, intenta un processo contro l’editore più importante della Francia (quello che oggi sarebbe un opinion-leader), fa fallire un giornale, gli prende fuoco un’officina, si fa otto giorni di prigione perché non vuol prestare servizio nella guardia nazionale, si fa infinocchiare in un affare di miniere in Sardegna, prende un granchio con la costruzione di una mega villa in campagna e fa un buco nell’acqua col teatro.

Insomma: una vita in affanno.

Una persona costantemente in corsa, in cerca di qualcosa che non riesce mai a trovare: ammirazione, supporto, simpatia, gloria, pace.

Amore.

Se la fine di un romanzo ce ne esplicita il senso, la fine di Balzac ci rivela che le velleità umane sono evanescenti come la polvere.

E, chiudendo questa biografia, un grazie lo dobbiamo anche a Stefan Zweig che, raccontandoci di Balzac, ci mette in guardia da noi stessi.

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Una donna – Annie Ernaux

Annie Ernaux inizia a scrivere questo libro pochi giorni dopo la morte della madre. Racconta la sua vita, l’ambiente in cui è cresciuta, il rapporto che si era creato tra loro e la malattia, l’alzheimer, che se l’è portata via, prima nella mente e poi nel corpo.

E’ la vita di una donna normale, che si è sempre data da fare per uscire dall’ambiente contadino e dalla povertà, per farsi una cultura e per far studiare la figlia.

La Ernaux ha una scrittura concisa che tratteggia le situazioni con neutralità e precisione: scrive per fissare la vita della madre, perché se non lo facesse, di lei non resterebbe niente, e questo è il carattere che più ci fa riflettere sulla nostra essenza.

Segue un andamento cronologico, con paragrafi quasi diaristici, senza nessun tema da dimostrare né alcuna scaletta preimpostata: i ricordi vengono messi su carta man mano che li richiama alla mente.

E’ una storia drammatica perché universale, ci riguarda tutti, da vicino o da lontano.

Al Gruppo di Lettura molti hanno sottolineato la mancanza di giudizi: la Ernaux ti mette davanti ai ricordi senza darti appigli morali per valutarli, lascia fare a te.

Leggendola, mi ha dato l’impressione che sia lei che sua madre abbiamo vissuto senza poter davvero scegliere, come se ogni loro comportamento sia stato dettato dall’ambiente o dall’epoca.

Perché? Dopotutto, entrambe si sono date da fare, non si son trovate la strada spianata: lavoro, studio, famiglia, la morte di un figlio e di un marito/padre, un divorzio…

Credo che la risposta stia proprio nello stile: la scrittura è così scevra da giudizi, che da nessuna parte vengono esternati i desideri che erano all’origine dei comportamenti.

Mi spiego: i comportamenti sono descritti; i pensieri che hanno portato a quelle azioni, invece, no. Riportare i pensieri, infatti, avrebbe significato fare ipotesi, e l’ipotesi porta in sé un giudizio, o comunque qualche tipo di valutazione.

Durante la lettura, dunque, quando mi trovo la madre che apre un negozio di alimentari e che si fa in quattro per mandarlo avanti, posso intuire la motivazione che c’è dietro, ma se mi fermo alla parola scritta, questa motivazione non è esplicitata, e il comportamento sembra eruttare da un corpo senza volontà propria.

Il libro piace, non può lasciarti indifferente.

Quello che è mancato, secondo me (ma non era nell’intenzione della Ernaux) è il piano, la scaletta, un tema di fondo che mi aiuti a far entrare il libro nel novero della grande letteratura.

E’ un’opera d’arte, perché è una forma di comunicazione consapevole (molto consapevole), ma forse è un po’ troppo personale, troppo legato alla sfera intima.

(Ehi, qui sto facendo le pulci a un bellissimo libro… non ci badate)

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Fingersi medico per 18 anni

L’AVVERSARIO, di Emmanuel Carrère

Fingere di essere un medico ricercatore presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità in Svizzera… e non essere neanche laureato in medicina!

Sembra incredibile ma il francese Jean-Claude Romand lo ha fatto. Il castello di carte è crollato solo nel 1993, dopo che ha ucciso la moglie, i due figli di cinque e sette anni, e i vecchi genitori.

Per diciotto anni, nessuno tra parenti e amici si è accorto che Jean-Claude passava le sue giornate in giro per i boschi o, quando fingeva di andare a convegni, rintanato in una stanza d’albergo.

E i soldi? Bè, disponeva di una delega sul conto corrente dei genitori. Inoltre, alcuni amici e parenti gli avevano consegnato somme ingenti, perché aveva raccontato loro che, in quanto medico di un organismo internazionale, poteva depositare i soldi in Svizzera e guadagnarci il 18% di interessi.

Sconcertante anche il modo in cui presentava la dichiarazione dei redditi: aspettava che sua moglie firmasse i suoi moduli, poi lui firmava i suoi; ma sotto la voce “professione” indicava “studente” e allegava fotocopia del suo tesserino universitario (perché per anni ha continuato a pagare le tasse).

Ha smesso di dare esami al secondo anno di università. Frequentava le lezioni, andava tutti i giorni in biblioteca a studiare, prestava appunti agli amici, ma non dava esami. Si presentava alle sessioni all’inizio e alla fine, ma, approfittando della calca, nessuno si accorgeva che non entrava.

In casa, lasciava in giro tesserini di varie associazioni mediche, di cui pagava l’iscrizione, e non dava mai il suo numero di ufficio a nessuno, neanche alla moglie, con la scusa che all’Oms non si poteva disturbare (usava un cercapersone).

Pazzesco.

Al processo, Carrère era presente.

La sua attenzione si è focalizzata sulla personalità di Romand, così preso dalle proprie menzogne da non capire ormai più cosa era vero e cosa falso.

Gli hanno dato l’ergastolo. Oggi ha 64 anni e spesso, nei giornali francesi, si parla di liberarlo.

L’aspetto che invece mi ha colpito di più di tutta questa storia, al di là della paura di Romand per il Giudizio, sono gli Altri.

Per quanto sia stato astuto Romand nel nascondere la propria vera vita, mi chiedo quale sia stato il livello di attenzione di parenti ed amici. Perché una persona può sì essere schiva, timida, modesta, come spesso lo descrivevano, ma quanto può essere superficiale un rapporto? Un matrimonio? Un legame genitori-figlio?

Quanto conosciamo, noi, degli altri?

O, e la domanda è ancora peggiore: quanto ci interessa conoscere, degli altri?

E’ un libro che va letto per rendersi conto dei limiti cui può arrivare l’essere umano, dunque mi permetto di consigliarvene l’acquisto sul link affiliato Amazon qui.

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Papillon – Henri Charrière

Dialogo con me stessa:

– Noioso.

– Come “noioso”? Papillon? Ma se è un susseguirsi incredibile di azione e colpi di scena! Dove sei arrivata a leggere?

– Al punto in cui i tre evasi salutano i lebbrosi che li hanno aiutati dando loro un po’ delle loro misere cose.

– E hai visto che orripilante descrizione della malattia? Che onorevole comportamento dei malati?

– Sì, ma la scena è descritta in modo troppo colloquiale.

– E che mi dici dell’ingiustizia e delle fantasie di vendetta di Papillon appena condannato per un omicidio non commesso?

– Mi sembrano le fantasie morbose di uno che si è improvvisato scrittore senza esserlo. Senza contare il fatto che non era uno stinco di santo, apparteneva comunque alla malavita, era normale per lui maneggiare coltelli e derubare a destra e a manca. E poi: come facciamo a sapere che quello che ci racconta è davvero successo come dice?

– Il suo primo editore garantisce per lui.

– E ne ha tutto l’interesse: devono vendere! Bah, per me questo Papillon è un furbone che ha avuto sì una vita avventurosa, ma che ci ha marciato, perché ha capito che coi libri poteva tirar su un po’ di soldi.

– E quando Papillon si infila due tubi nell’ano per tenere nascosti i soldi, suoi e di un amico?

– Bah.

– Ma non puoi definire noioso questo libro! E’ pieno di malviventi, di traditori, di amici sinceri, passioni spinte al limite…

– Tutti elementi che sussistono nella vita di molti personaggi di altri libri. Quello che manca qui, secondo me, è lo stile. Lo stile dello scrittore di mestiere. Quello che uno si costruisce con anni e anni di scrittura. Senza questo, una bella storia resta una bella storia, ma la apprezzo di più in TV o al cinema. Non venitemi a parlare di letteratura orale. Non venite a dirmi che anche le storie di Omero erano “raccontate”. E’ vero, ma loro hanno la dignità dei millenni e non hanno lo scopo di far su un po’ di soldi dopo un rovescio finanziario.

– Ti fai influenzare da elementi esterni al libro. Bah… fai un po’ come ti pare.

– Infatti. Sospeso a p. 109 (su 645).

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Il Regno, Emmanuel Carrère @Adelphiedizioni

Lo scrittore Carrère è agnostico, ma non è sempre stato così. In gioventù ha avuto il suo c.d. periodo cristiano, in cui per circa tre anni andava a messa e si comunicava tutti i giorni, si confessava, e, ogni mattino, commentava il vangelo di Giovanni su dei quaderni appositamente acquistati. Ne ha riempiti 18.

Era un periodo in cui era in crisi dal punto di vista sia professionale che familiare. E’ uscito da questo ingorgo forse grazie alla sua professione, quando ha scritto la biografia di Philip K. Dick “Io sono vivo, voi siete morti” (con il quale, tra l’altro, aveva diversi punti in comune).

Questo libro sul Regno inizia con il resoconto del suo periodo “mistico”. Si confessa con un po’ di vergogna, rileggendo con imbarazzo i commenti che scriveva allora. Mi piace la sua sincerità. E mi piace ancora di più che nonostante non sia più cristiano, stia ancora studiando l’argomento. Ne è affascinato, e la sua biblioteca biblica deve essere notevole.

Il nucleo di questo libro riguarda S. Paolo, gli atti degli Apostoli, e l’evangelista Luca.

Se in chiesa spiegassero le scritture come le spiega Carrére, sono sicura, ma arcisicura, che le chiese sarebbero più frequentate.

San Paolo è diventato una persona reale, con le sue fisime e i pericoli a cui è andato incontro.

Per esempio: nessuno mi ha mai spiegato perché S. Paolo si rivolge ai tessalonicesi in un certo modo: in quella comunità era appena morto uno dei loro, e questo li aveva mandati fuori di testa. Ma come, dicevano, non doveva risuscitare? Si chiedevano se per caso tutta la storia sulla resurrezione dei morti non fosse una bufala. Paolo doveva rassicurarli.

E la lettera ai galati? Tutta tesa a sottolineare che quanto dice Paolo è la Verità, invitandoli a non credere a nessuno che dica il contrario… Perché? Perché dai galati era passato un rappresentante della chiesa di Gerusalemme, uno di quelli che aveva vissuto nei luoghi di Gesù, che forse lo aveva visto, e che cercava di spiegare ai galati come Paolo fosse solo un impostore, come la Legge fosse importante, come la circoncisione e i pasti e tutte le altre regole fossero importanti… (tutti “dettagli” superflui, per Paolo).

Paolo, che è considerato oggi il vero fondatore della Chiesa Cristiana, non andava d’accordo con i cristiani di Gerusalemme, anche se di Pietro, Giovanni e Giacomo diceva che erano le Colonne. Non se la sentiva di abbandonare l’ebraismo perché dubitava delle sue forze, temeva che da solo non sarebbe stato capace di portare avanti il messaggio di Gesù come lo aveva recepito lui.

Poi succede che il Tempio e la chiesa di Gerusalemme vengono rasi al suolo dai romani, insieme a tutta la Giudea. I primi cristiani (che non si chiamavano così) sono dispersi o massacrati. Insomma, al chiesa di Gerusalemme sparisce dalla terra. Ma sopravvivono altri cristiani, quelli convertiti da Paolo, in territori non ebraici. Gli ex pagani.

Questo libro è lungo e denso.

Mi ha affascinato come Paolo, visionario, emarginato, forse mezzo pazzo, di sicuro odiato dai discepoli di Gesù, riesca, alla fine, a imporre la sua visione al resto del mondo di allora.

Certo, la storia non si ferma là: Carrère va più avanti, ci parla di Luca (molto), di Giacomo, di Matteo, di Marco. Di Flavio Giuseppe, di Nerone, Tito… i nomi storici qui riuniti sono tanti, ma vengono raccontati da uno scrittore che sa dar loro vita, con i loro lati oscuri, ammettendo quando inventa e quando si rifà a documenti altrui.

Lettura piacevolissima.

Mi permetto dunque di consigliarvene l’acquisto sul link affiliato Amazon qui.

 

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Il segreto dei bambini ottimisti, Alain Braconnier @Feltrinellied

Cominciamo con gli aspetti positivi del libro, tanto per essere… ottimisti!

Il motivo che mi ha spinto a comprarlo, è che, temendo di essere una pessimista, non volevo rendere pessimista anche mio figlio, visto che i bambini ottimisti non solo ottengono più traguardi nella vita ma, in generale, sono più gioiosi.

E’ infatti innegabile che – oltre all’aspetto genetico – noi trasmettiamo ai figli il nostro modus vivendi. Braconnier è riuscito a tranquillizzarmi, dicendomi che ci sono due fattori che ostacolano questa trasmissione di pessimismo tra le generazioni:

Innanzitutto l’equilibrio che, spesso, si instaura a questo proposito fra i due genitori, uno dei quali, in genere, è più ottimista dell’altro. Il secondo fattore è più paradossale: il bambino stesso ci permette di tornare ottimisti, immergendoci in un’atmosfera e mentalità “infantili”.

Devo convincermi di questo, perché le convinzioni errate diventano spesso una profezia che si autoavvera!

Ho trovato poi alcuni suggerimenti generali che avevo già incontrato in altri manuali sull’ottimismo per gli adulti, ad esempio:

  • identificare i pensieri negativi.
  • Parlare col figlio di cosa potrebbe accadere nel corso della giornata.
  • provare nuove cose.
  • incoraggiare il bambino a commentare anche i progressi, non solo i risultati.
  • incoraggiarlo a chiedere consiglio a chi considera competente.
  • attenzione che un ottimismo esagerato può esser pericoloso!

In generale, tuttavia, questo libro non mi ha entusiasmato.

I consigli pratici sono pochi, è più descrittivo che prescrittivo, ripete sempre gli stessi concetti con parole diverse, ci sono tante domande retoriche e molte affermazioni più che ovvie.

In generale, inoltre, noto che Braconnier espone un sacco di teorie e tesi e ricerche scientifiche, ma non segue una linea sua. Lui ti spiega cosa dicono questo e quello, non sviluppa un suo modello speculativo: ciò ha i suoi lati positivi perché ti mostra la varietà della ricerca sul campo, ma è un puzzle di varie tessere che formano un disegno poco coerente (se si esclude una regola generale che è quella di adattarsi all’individualità di ogni bambino).

Di Braconnier avevo già letto “Anche l’anima fa male” e devo dire che in questo secondo incontro ho notato gli stessi difetti. Autore eliminato.

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Libri in fuga, André Schiffrin @volandedizioni

Che bella vita, quella di Schiffrin.

Figlio di un intellettuale russo, ha continuato il mestiere del padre, quello di editore. Ma non un editore come quelli che abbiamo oggi in giro: padre e figlio credevano nella capacità dei libri di cambiare le idee della gente. O, almeno, di far sì che la gente si ponesse delle domande, o che mettesse in dubbio le versioni ufficiali fatte girare dal governo e dalla stampa di regime.

Allo scoppio della seconda guerra Mondiale, la famiglia Schiffrin riesce, dopo molti tentativi andati a vuoto, a scappare negli Stati Uniti. E’ qui che Andrè cresce, come uno studente americano, anche se sui generis: quando, a partire dai 13 anni, scopre quanto è interessante la politica di quel periodo, non smetterà più di occuparsene.

Vicino alle idee riformiste di sinistra, finirà spesso nel mirino dell’FBI e della CIA, soprattutto durante il maccartismo: è interessante l’analisi che fa della società in quel periodo e delle conseguenze che tale paura strisciante farà ricadere fino ai giorni nostri.

In questa autobiografia parla anche dell’antisemitismo e delle università americane ed inglesi (studierà due anni a Cambridge); ma parla soprattutto della sua attività di editore, prima presso la Pantheon e poi, quando la Pantheon viene fatta fuori dalle strategie del profitto, presso la New Press.

Nelle ultime pagine si sente tutta la sua nostalgia per i bei tempi andati in cui gli editori facevano il loro mestiere, quando le case editrici non erano parte di enormi e fagocitanti gruppi orientati al solo profitto (solo un dato: all’inizio degli anni Cinquanta a New York c’erano 350 libreria, dieci volte più di oggi).

E poi, cita una miriade di intellettuali che ha conosciuto di persona: non solo Gide, gran amico di suo padre, ma anche Chomsky, Sartre, De Beauvoir, Leonard Woolf, Hobsbawm, Amartya Sen e molti altri.

Non mancano le stoccate al “nostro” Berlusconi e a Bush:

L’indipendenza dell’editoria è stata duramente limitata quando è diventata proprietà di grandi gruppi. Ci sono voluti due anni prima che grandi case editrici iniziassero a pubblicare libri che denunciavano le menzogne dell’amministrazione Bush, e molti di questi titoli sono diventati dei best seller. Sono convinto che se la stampa e le case editrici lo avessero fatto da subito, Bush non avrebbe portato il paese alla disastrosa guerra irachena.

La libertà della stampa è importante. Non ce rendiamo conto, ma influenza le nostre vite: pensiamo al caso sopra riportato della guerra irachena…. ragazzi: una guerra! Si poteva evitare. Così come si potrebbero evitarne altre se l’opinione pubblica si informasse e leggesse vere informazioni e veri approfondimenti.

Invece siamo inondanti da riviste di gossip e cacche varie, da TG che parlano in tono pietoso di cani abbandonati e, subito dopo, di veline e calciatori; e, poi, da libri ad alta diffusione e basso prezzo che trattano di storielle a lieto fine e improbabili serial killer. Stiamo copiando il peggio dell’America.

 

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La dieta fasting, JB Rives @NewtonCompton @casalettori

Nominare il digiuno è sempre impopolare: ecco perché si può intitolare un libro La Dieta Fasting, perché molti non sanno che Fasting significa proprio digiunare.

L’autore, che si definisce un appassionato di nutrizione senza essere né un medico né un nutrizionista, ci sottopone il suo attuale stile di vita. Stile di vita che gli ha permesso di perdere venti chili senza dedicarsi troppo attivamente allo sport né contare le calorie.

Il digiuno non è una pratica nuova, ma la scienza moderna negli ultimi decenni ha scoperto diverse ragioni per cui dovremmo prendere sul serio questo modo di vita.

Lo dice Walter Londo, con la sua Dieta Mima Digiuno, ma, per restare in tema di personaggi famosi italiani, lo diceva anche Veronesi. E lo dicono centinaia di esperti: mangiamo troppo. Il nostro corpo non è fatto per mangiare di continuo.

E’ interessante la carrellata storica che JB Rives ci scodella nella prima parte del libro: i perché della nostra alimentazione troppo abbondante. Riassumendo al massimo, si tratta di… soldi. Economia. Necessità di produrre e vendere alimenti. Sempre di più.

Magari inventandosi la necessità di snacking, dicendoci che dobbiamo mangiare cinque volte al giorno. Convogliando le ricerche scientifiche verso certe direzioni.

Ci sono vari modi di digiunare. L’autore ha scelto quella 16:8, cioè mangia nell’arco di otto ore e digiuna per altre 16, possibilmente facendo rientrare nella fase di digiuno anche la notte, quando già digiuniamo senza accorgercene. Lui quindi mangia dalle 12 alle 21, ma la fascia temporale è modificabile in base alla vita sociale e lavorativa di ognuno.

Anche se il titolo si incentra sul dimagrimento, la ragione principale del digiuno è molto più ampia: la salute. Con il digiuno, si favorisce l’autofagia delle cellule vecchie o malate, dando il via a un generale processo di depurazione.

C’è un gruppo Facebook dedicato al fasting. Si chiama Delay, don’t deny: ritarda, non rinunciare (certo, in inglese suona meglio). Sembrerebbe quasi che nelle otto ore di alimentazione uno possa permettersi di tutto e di più. In realtà, quando il corpo si abitua al fasting, la percezione della fame si modifica. Al mattino, dopo le prime due settimane, non si ha più voglia di far colazione, e il pizzicore allo stomaco prima di mezzogiorno è facilmente gestibile.

Alla fine non si riesce a condensare i precedenti cinque pasti col loro carico calorico nelle otto ore. E’ quasi inevitabile mangiare di meno.

Scopo raggiunto.

Ricordandosi che la dieta migliore è la dieta che riesci a seguire, direi che questo fasting merita un tentativo.

PS: il mio consiglio è, per le settimane che vi dedicherete a questo esperimento, di fornirvi di belle scorte di tè e tisane, perché dovrete bere molto.

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