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Gli anni della leggerezza (Elizabeth Jane Howard) @FaziEditore

Sussex, 1937. La famiglia Cazalet, come ogni anno, si riunisce nella casa di campagna dei capistipite, il generale e la duchessa.

Ci sono quattro figli: Hugh, il più vecchio, tornato dalla prima guerra mondiale senza la mano sinistra e con dei ricorrenti mal di testa; è sposato con Sybil, che è incinta, e hanno due figli.

Il secondo figlio è Edward: bello e affascinante, è sposato con Villy, ma ha una serie di amichette segrete, mentre la moglie si chiede in continuazione se ha fatto bene ad abbandonare la sua carriera da ballerina per dedicarsi al marito e ai figli.

Poi c’è Rachel, nubile, che vive con i genitori, ma che ama la sua amica Sid, un rapporto che è necessariamente tenuto nascosto a tutti.

Infine c’è Rupert, il più giovane e giocoso, vedovo e risposato con la giovanissima Zoe, che fatica a inserirsi nella famiglia e che è totalmente dedita alla propria bellezza.

Il generale, senza star tanto a parlarne, inizia a costruire e preparare alloggi per orfani e feriti di guerra, e tutta la famiglia è coinvolta nei lavori, sebbene i più giovani si dedichino anche ai loro svaghi estivi.

Le donne del romanzo sono come ci si aspetta siano le donne dell’epoca vittoriana: lavorano a maglia, organizzano la servitù, si preoccupano dell’entrata in società delle figlie e delle scuole dei figli. Non ci si aspetta da loro che provino desideri di carriera o che si interessino di politica.

Eppure desideri e curiosità inespresse covano sempre sotto l’aspetto esteriore.

Viene dato molto spazio ai più piccoli, alle loro litigate, alle loro domande e ai loro crucci: da Polly, la figlia di Hugh, che ha paura della guerra e non vuol sentirne parlare, a Louise che, un po’ più grande, si trova al centro di un’attenzione malsana da parte del padre, Edward.

Molti sentimenti e sensazioni, però, ci sono descritti dalla Howard senza che i protagonisti li esternino: non va bene piangere in pubblico, né parlar male di qualcuno, tanto meno nominare bisogni fisiologici; il sesso, poi, è un tabù che genera più curiosità che rassegnazione.

Un bel romanzo che ci presenta tante psicologie diverse.

E mi chiedo: la situazione della donna media è davvero tanto diversa oggi?

Quanta fatica fa ad affermarsi l’idea che il cognome della madre abbia la stessa dignità di quello del padre, ad esempio?

La necessità del cognome unico (paterno) viene giustificata ricorrendo alla praticità, alla tradizione, alla semplicità… e non ci si rende conto che la parità dei diritti passa anche attraverso la parola (anzi, spesso sono le donne a non rendersene conto).

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Invidia il prossimo tuo (John Niven)

Romanzo molto godibile.

Alan è un critico gastronomico famoso; sposato con una giornalista di ricchi natali, vive la vita invidiabile dell’alta borghesia, col giardiniere, la colf e la baby sitter; è iscritto a un club di lusso e si concede golf e vacanze ai tropici senza rimorsi.

Un giorno si imbatte in un barbone che lo saluta chiamandolo per nome e scopre che è il suo ex compagno di classe Craig: dopo un debutto fragoroso nel mondo della musica, Craig era uscito di scena e i due si erano persi di vista quasi trent’anni prima.

Alan è combattuto: da un lato inizia ad aiutare l’amico ospitandolo a casa sua ed informandosi da un avvocato circa i diritti che gli spettano per i dischi venduti; dall’altro, continua a provare verso di lui un’antica invidia per la sua scioltezza, il suo corpo ancora tonico, e, in generale, per la sua capacità di attirare la simpatia altrui.

Quando sono insieme, Alan e Craig tornano sedicenni: si ubriacano, ricominciano a parlare col vecchio accento scozzese, fanno le ore piccole.

Ma qualcosa va storto…

Mi fermo qui.

Romanzo ben costruito, sia dal punto di vista psicologico che della creazione dell’aspettativa, che poi viene premiata.

Interessante e ben dettagliato anche l’ambiente alto-borghese in cui Alan vive, senza dimenticare alcune scene comiche che sono piaciute pure a me (che di solito preferisco il drammatico).

Insomma: da leggere.

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Gli eredi della miniera (Jocelyne Saucier)

Di questo romanzo mi è piaciuta la costruzione perché gli eventi sono presentati un po’ alla volta, a seconda del punto di vista di chi racconta.

E’ la storia di una famiglia canadese negli anni Sessanta. Il padre ha scoperto una miniera di minerali, grazie alla quale è sorta una piccola cittadina, ma poi una società mineraria lo ha imbrogliato e gliel’ha sottratta.

L’uomo ha ventuno figli. Matz, il primo che inizia a raccontare la storia, è l’ultimo nato e vive nell’orgoglio di appartenere a una famiglia così numerosa e conosciuta, ma quello che c’è davvero sotto lo scopriamo un po’ alla volta, man mano che si presentano gli altri fratelli.

Quando incomincia a raccontare, si trova in un albergo per un congresso di minatori: la famiglia, nel tempo si è dispersa, e quel congresso è forse l’unica occasione che hanno per incontrarsi tutti di nuovo dopo trent’anni.

Veniamo così a conoscenza della madre, che ogni notte girava per i letti a contare i figli; del padre, che passava tutto il suo tempo in cantina a studiare i suoi minerali; di Geronimo, che è diventato medico di guerra e che è sempre in giro per il mondo; di Jean D’Arc, la figlia maggiore che ha sempre cercato di controllare i fratelli minori.

Vediamo come il padre abbia scoperto una vena di minerale dopo che la miniera è stata chiusa e inizia a scavare di nascosto insieme al figlio maggiore.

Ma soprattutto sentiamo la storia delle due gemelle, Tommy e Angéle, così identiche che perfino i genitori e i fratelli non riescono a distinguerle.

La tragedia gira proprio attorno ad Angéle, la più dolce tra tutti i bambini: proprio per la sua dolcezza, viene quasi adottata da una ricca famiglia che non riesce ad avere figli. Inizia a star via durante l’estate, e poi anche durante l’anno, per entrare in una scuola privata: quando torna a casa fatica a reinserirsi, gli altri fratelli, che sono rimasti a vivere nella povertà e in mezzo all’odio dei vicini di casa, vedono il suo allontanamento quasi come un tradimento.

Ma il giorno del congresso, Tommy, la sua gemella, è sul piede di guerra e giura che… mai più prenderà il posto di Angéle.

Non dico altro altrimenti vi rovino la storia (non l’ho trovata tradotta in italiano, solo in francese e tedesco).

Se devo dare un giudizio, devo dire che verso la fine la tensione scema un poco: quando si capisce cosa è successo, e manca solo un piccolo dettaglio per mettere tutte le tessere al suo posto, quel dettaglio è un po’ debole (mi riferisco al motivo per cui Angéle compie un gesto).

Però per la maggior parte del libro la lettura è piacevole, spero che venga tradotto presto in italiano.

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Venivamo tutte per mare (Julie Otsuka) #TeaEditore

Romanzo breve, appena 140 pagine, ma densissimo: all’interno troviamo la storia di tante, tantissime donne giapponesi arrivate negli Stati Uniti nella prima metà del Novecento, per sposare uomini di cui, nella stragrande maggioranza dei casi, non sapevano nulla.

Partivano con una lettera in mano o una foto, ma le parole e le immagini spesso si rivelavano, al loro arrivo, delle mere bugie: l’uomo che diceva di essere il proprietario di un ristorante, in realtà era uno sguattero; quello che diceva di dirigere una catena di lavanderie, in realtà era addetto alla stiratura; quello alto e con gli occhi intensi, in realtà era il cugino dell’uomo che la donna avrebbe dovuto sposare.

Poi gli anni passano, e le ragazze si adeguano al lavoro, ai soprusi, ai figli e alle loro morti. Sono poche quelle che hanno una vita facile.

E poi c’è Pearl Harbour: arrivano i sospetti, le sparizioni, i trasferimenti di massa.

E’ interessante lo stile: nei primi capitoli, sono le donne giapponesi a palare col “noi”.

Le assicurazioni ci cancellarono la polizza. Le banche ci congelarono il conto. I lattai smisero di consegnarci il latte a domicilio.

Nell’ultimo, quando le comunità giapponesi iniziano a ridursi ai minimi termini, quando i negozi e le strade che prima erano abitate da giapponesi diventano elementi di una città fantasma, il “noi” cambia. Sono gli americani che si chiedono cosa sia successo, se era giusto che succedesse, e cosa succederà.

Nuovi inquilini cominciano a trasferirsi nelle loro case.

“Noi” e “loro” non solo due pronomi: sono due culture e due destini.

Eppure sono anche pronomi, che ogni gruppo può usare: perché il contenuto di quel “noi” cambia nel tempo. Se oggi noi siamo i vincitori, domani potremmo diventare “loro”. E viceversa.

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Malaguti, Premio Campiello 2021, a S. Donà di Piave (VE)

Finalmente sono andata alla presentazione di un libro! E ho rincominciato in grande, ieri sera, al Caffè Letterario di S. Donà, con Paolo Malaguti, Premio Campiello 2021 Selezione Giuria dei Letterati.

Davanti a un gruppetto poco numeroso ma molto attento, ci ha parlato di “Se l’acqua ride”, un romanzo ambientato nella bassa padovana che ci racconta della fine della fine navigazione fluviale tra il 1965 e il 1967.

E’ dunque un libro incentrato sul momento di passaggio da un sistema economico che ruotava attorno al fiume, ad uno che ruota attorno all’industria e al trasporto su gomma. Non lo ho ancora letto, dunque non mi soffermerò sui dettagli, ma mi limiterò a raccontarvi un po’ di quello che è stato detto ieri sera.

Malaguti è affascinato dalle parole, soprattutto da quelle che sono cadute in disuso, e ammette che spesso parte da un termine per costruirci attorno una storia: cioè, non è il contenuto che guida la scelta delle parole, ma è l’autore che vuole assolutamente utilizzare una parola e inizia a chiedersi cosa può succedere attorno ad essa.

E qui è intervenuta Irene Pavan, che, in veste, per la prima volta, di presentatrice, gli ha chiesto se l’utilizzo di parole venete in un romanzo pubblicato da un editore a distribuzione nazionale non poteva essere pericoloso.

E’ una domanda che avrei potuto fare anche io, che ho sempre difficoltà a leggere libri di autori siciliani o napoletani che utilizzano troppi termini dialettali, ma devo ammettere che col veneto, per ovvi motivi, faccio meno fatica.

Qui Malaguti però ha detto una cosa interessante: la comprensione va… provocata. Cioè, non bisogna limitarsi a scrivere quello che si sa che il pubblico può capire, non stiamo leggendo un libretto di istruzioni per montare un mobile Ikea. La letteratura in quanto tale possiede un’anima poetica, e la poesia può e deve celarsi: è dunque tutto a posto se la sfumatura che un lettore dà a una frase è diversa dalla sfumatura che ne dà un altro lettore (cosa che potrebbe creare problemi invece se dovessimo montare una libreria).

In secondo luogo, ha aggiunto Malaguti, l’italiano non è una lingua parlata (Meneghello docet) e non ha una origine popolare, e questo lo priva di alcuni connotati affettivi che sono intrinseci alla lingua che si usa tutti i giorni e che di fatto è nostra nel senso più completo del termine.

Sono stati affrontati anche molti altri temi prima di chiudere l’incontro e di dedicarci alla firma degli autografi, ma mi fermo qui, perché voglio prima leggere il romanzo e poi confrontare quello che ho sentito con quello che leggerò.

Mi concedo solo un ultimo commento sulla sensazione generale della serata.

Come ho detto c’erano poche persone: se da un lato S. Donà non ci ha fatto una bella figura, dall’altro… si stava proprio bene! La gente era seduta ai propri tavolini, con la possibilità di bersi uno spritz, non c’era confusione, e non ho dovuto uccidere nessuno per farmi fare l’autografo.

Malaguti ed Irene, poi, avevano un atteggiamento rilassato, sembravano a casa propria tutti e due: capisco Malaguti, che è insegnante ed è abituato a parlare davanti a tanti occhi che lo guardano, ma lasciatemi fare i complimenti ad Irene Pavan (che è l’autrice di Solo per dirti addio) e che non ha lasciato trasparire quasi nulla dell’emozione che si portava dentro.

Ci sono scrittori che ti fanno sentire un animale di razza inferiore: magari non lo fanno consapevolmente, perché non ti conoscono e non vogliono farti del male, ma la sensazione ti arriva lo stesso attraverso l’uso di una frase in latino, o un movimento della testa quando dici qualcosa di ingenuo dal loro punto di vista.

Malaguti non è così: pur avendo vinto uno dei più importanti premi letterari italiani e pur essendo pubblicato dall’Einaudi, quando sorride, sorride.

Non è scontato.

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Open (Andre Agassi) @LibriEinaudi

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Ho deciso di dedicarmi a questa biografia, solo dopo aver letto molte recensioni positive: non mi interessa il tennis e quasi non mi ricordavo di Agassi, perché avrei dovuto perdere tempo con 496 pagine di sport?

Per fortuna, qui di tennis non si parla molto.

Inoltre, il testo in sé è stato scritto da Moehringer, un premio Pulitzer: e si sente.

Ben fatto! Senza fingere che il nome in copertina sia anche quello dell’autore, Agassi ha deciso di svelare nell’ultimo paragrafo il nome di chi si è occupato della stesura. E’ una sincerità che mi piace: odio le bio di personaggi che si spacciano per scrittori.

Le parti più sconvolgenti, sono quelle che parlano del padre di Agassi. Armeno-iraniano, è immigrato negli Stati Uniti con documenti falsi. Già in Iran era famoso come pugile (aveva partecipato anche alle olimpiadi). Arrivato negli Stati Uniti, decide che i figli devono diventare ricchi e famosi col tennis.

Li fa morire!

Allenamenti estenuanti, spara-palle costruito da lui, monotematicità dei discorsi, pillole, spinte, scuola-prigione, urli e umiliazioni: tutto per cercare di farli sfondare.

Ci riesce solo con Andre, anche se, per anni e anni, Andre odierà il tennis.

Incapace di accettare le sconfitte, Andre sarà spesso tentato di mollare tutto: una volta regalerà racchette da centinaia di dollari ai barboni, una volta darà fuoco a fogli e foglietti in una camera d’albergo…

Incredibile come le persone ricche e famose siano insicure di sé, incredibile quante paure le tormentino.

Andre Agassi sarà sempre incompreso dai giornalisti, che criticavano il suo look simil-punk, e lui sarà sempre incapace di passare incolume sopra certi articoli.

Un’altra fisima saranno i suoi capelli: li perdeva. Era arrivato al punto di indossare un parrucchino, con tutta l’ansia che poteva provocargli il rischio che cadesse durante un match.

E poi… la sua amicizia con Barbra Streisand, i suoi matrimoni con Brook Shields e Steffi Graf… i suoi amici, importantissimi…

Inquieto, insoddisfatto, lunatico: sono tanti gli aggettivi che gli si addicono. Si sente davvero felice solo quando aiuta qualcuno: la figlia di un amico ferita in un incidente, il cameriere di un ristorante che non ha soldi per l’università dei figli… E la sua fondazione per l’educazione in un quartiere degradato.

Lui, che ha mollato la scuola in terza media, raccoglie milioni di dollari per mandare avanti una scuola modello.

E su tutto, su ogni vicenda, personale o pubblica, incombe il tennis, l’odiato tennis.

Quanta gente conoscete che fa un lavoro che odia eppure lo fa bene?

Il fatto è che una volta intrapresa una strada, bella o brutta, cambiare è difficilissimo.

Una volta che il tuo curriculum mostra un certo ruolo professionale, continuano a cercarti per quel ruolo professionale. Non ti schiodi più.

Scusate, sto divagando…

 

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Cronache di un venditore di sangue (Yu Hua)

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Cina, seconda metà del secolo scorso.

Chi ha bisogno di soldi, l’equivalente di sei mesi di lavoro in campagna, vende il sangue.

La vendita del sangue è l’espediente a cui Yu Hua ricorre per narrare la vita di Xu Sanguan.

Il primo guaio che deve affrontare, e per il quale gli servono soldi urgenti, è quello procuratogli dal figlio Felice Uno, che spacca la testa al figlio del fabbro Fang.

Un’altra volta, vende il sangue per fare dei regali a una collega con la quale è finito a letto.

Un’altra volta per dar da mangiare alla famiglia, ridotta pelle e ossa a causa di un’inondazione e di una carestia (ma anche della politica di Mao).

Un’altra volta per offrire una cena sontuosa al capobrigata del figlio Felice Due, perché un’accoglienza insufficiente rischierebbe di causare al figlio grosse difficoltà.

Infine, Xu Sanguan ricorre alla vendita del sangue, più volte, per salvare la vita al figlio Felice Uno, ammalatosi di epatite, che deve essere curato a Shanghai: lo vende più volte, lungo il tragitto da casa fino all’ospedale, rischiando la vita (e attenzione, che Felice Uno non è suo figlio, anche se lui lo ha creduto per nove anni).

All’inizio, la lettura mi è risultata un po’ difficile: lo stile è molto ironico, i protagonisti parlano gesticolando molto, si ripetono, un po’ come nei film di Bruce Lee; poi però si capisce che dietro certe scene apparentemente comiche si celano dei drammi non indifferenti.

Lungo tutto il romanzo, serpeggiano paure: di morire di fame, di perdere la faccia davanti alla comunità, di scialacquare il sangue, simbolo di forza, vita e retaggio degli avi.

Della storia della Cina si parla solo indirettamente.

 

 

 

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Non volare via – Sara Rattaro @GarzantiLibri

(Attenzione: spoiler)

Le aspettative sono importanti.

Se il risvolto di copertina mi parla di Matteo, un bambino sordo, e della sua paura che il padre voli via per seguire l’amore della sua vita, io mi aspetto che il libro parli di Matteo e delle sue paure.

Non dico che non voglio la storia dal punto di vista del padre che, da diciottenne, si innamora, ricambiato, della bellissima Camilla, e che perde di nuovo la testa quando è sposato con due figli, di cui uno sordo… ma dico che il risvolto di copertina poteva essere un po’ più inerente alla storia raccontata.

Tornando al libro in sé: la Rattaro sa scrivere, certo; però, leggere un suo romanzo dopo aver letto Philip Roth non è stata una buona idea… mi saltavano all’occhio tutti i difetti (sui quali avrei sorvolato in altri momenti, perché, alla fine, questa è una lettura piacevole).

Passiamo alle ovvietà e gli scivoloni…

L’Alberto diciottenne, per sua ammissione postuma, è insignificante: non è una bellezza, non è simpatico, tutti lo ignorano. E appena arriva Camilla, bellissima e popolarissima, lei si innamora subito di lui. I want You, sembra dirgli ogni volta che gli rivolge la parola. Conoscendo i ragazzi (di oggi o di ieri, non importa), vi sembra verosimile?

Poi: quale è il sogno di Camilla? Fare la ballerina, come faceva la madre morta. E già qui…

Ma poi ci sono un paio di scene che sembrano copiate e incollate dall’immaginario televisivo. Ad esempio, quella in cui Camilla balla solo per Alberto in un teatro deserto, di notte. E poi, quella in cui lei, di notte, in spiaggia, si spoglia senza tanti pudori per correre a tuffarsi in acqua, tirando per il braccio un riluttante quanto banale Alberto.

Un altro elemento stonato, è l’atteggiamento di Sandra, la madre di Matteo e moglie di Alberto: è isterica. Alberto non fa altro che lodarne la forza e la resistenza, dicendo che è grazie a lei se la famiglia resta unita, eppure questa donna pianta crisi isteriche ai dottori e agli insegnanti perché non condivide i loro metodi o perché ritiene che il figlio non sia seguito/curato nel modo adeguato.

Ecco: queste sono scene cinematografiche. Ci possono stare in un romanzo, se è il pathos che cerchi (ognuno ha il diritto di cercare quello che vuole, in un romanzo!), ma sono troppo televisive.

Mio malgrado, li frequento, gli ospedali; e madri di figli disabili ne vedo tante, ma tante, tante. Crisi isteriche non ne ho mai viste; di solito vedo donne molto controllate: meno attirano l’attenzione e meno ansia lasciano trasparire.

Altro difetto: l’abbondanza di “tesoro mio, amore, piccolo… ecc…”. Siamo sicuri che la gente parli così?

Sì: in TV.

Punto incompreso: le parti in corsivo…

All’inizio credevo che le parti in corsivo riportassero verità rivelate, frasi che uscivano dal testo per attaccarsi alla vita del lettore, ma non era così. Erano frasi pensate dal personaggio, sue riflessioni; e allora… perchè in corsivo!!??

Alcuni esempi:

E’ come nelle foto, vieni sempre benissimo se sai quando avviene lo scatto.

Certe cose sono straordinarie solo per chi le racconta.

Non importa quanto cerchi di allontanarti. Prima o poi ritorni sempre dove ti eri fermato.

Se c’è un blackout o sbagli la direzione del treno, non puoi fare altro che aspettare.

La fiducia è qualcosa di fragile, ha sempre i minuti contati e raramente accetta scuse.

Sono solo io che le trovo frasi banali? Forse mi sembrano più banali proprio perché messe in corsivo, come nel tentativo di farle risaltare allo scopo di creare l’aforisma che l’adolescente possa poi trascriversi nei social.

Vogliamo parlare di Camilla? Di questa ballerina che ha avuto un successo strepitoso ma che (non si capisce bene perché) torna dopo qualche lustro di assenza e subito va a rompere le palle al suo ex, senza storcere un ciglio quando scopre che lui è sposato? Un minimo di rimorso, un ripensamento, un qualcosa, non si poteva lasciar trapelare?

Suo padre, quando lei frequentava le superiori, la picchiava: Alberto scopre i lividi sul suo corpo. Ma non fa niente. Niente. Neanche domande. Vi sembra verosimile?

Un altro punto che considero una debolezza, sono le coincidenze.

Alberto, adulto, ascolta sempre un certo Davide alla radio. E guarda caso, dopo che lui ha tradito la moglie Sandra e ci è tornato assieme, scopre che lei si è innamorata proprio di questo Davide che ha, pure lui, un figlio sordo.

Mi fermo qui.


Eh, ma che pignola, che sei… direte.

Vero.

Ho elencato molti dei difetti che mi sono saltati all’occhio (o quelli che io considero difetti), dunque è mio dovere ribadire che è una lettura piacevole (magari, non dopo aver letto Philip Roth), leggera, nonostante i temi caldi, e, sì, meritevole, considerata l’età dell’autrice: se non si lascia trascinare dal mercato, è una che può migliorare molto.

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Lolita – Vladimir Nabokov

Capolavoro della letteratura mondiale.

Così, perlomeno, è definita quest’opera. E dopo “Leggere Lolita a Teheran”, mi sembrava logico passare all’originale Lolita, anche perché mi piaceva l’interpretazione che ne dava Azar Nafisi, come di un romanzo che mostra come il potere oppressivo sia cieco ai bisogni e ai sentimenti altrui.

Sì, c’è anche questo in Lolita; e c’è anche molto altro. (Quasi) di sicuro, però, escluderei l’etichetta di “romanzo erotico”, etichetta utilizzata dal Club Degli Editori per identificare il libro con la pruderie necessaria ad aumentarne le vendite (con tanto di donne seminude sul retro di copertina, vedi foto) e ad inserirlo nell’omonima collana del 1978.

Ora: mi è piaciuto?

Ebbene, giudicatemi grezza, ma non lo inserirei nella lista dei miei libri preferiti; e c’è un motivo ben preciso: in questo romanzo non c’è nessuno con cui identificarsi. Nessuno. Neanche un personaggio secondario. Neanche l’operatore ecologico che svuota i secchi della spazzatura. Neanche la vecchina che prende un po’ d’aria sul portico.

Humbert Humbert, che parla in prima persona, è un uomo di cultura, fine, elegante, educato, che si intende di letteratura, che ricorre molto spesso a citazioni erudite. Sarebbe il personaggio giusto in cui identificarsi per guardare la storia dall’interno: peccato che sia un pedofilo.

La parola “pedofilo” non compare mai nel libro, così come non compaiono mai scene di sesso, ma come lo definite uno che va fuori di testa per le ragazzine di 11-13 anni? Uno che sposa la madre di Lolita pur di poter stare vicino alla sua adolescente tentazione? Uno che attraversa tutti gli Stati Uniti per godersi la “gioventù” di Lolita una o due volte al giorno senza mai perdere di vista le amichette della figlia adottiva?

C’è addirittura un passaggio in cui Humbert si lamenta che dopo due anni di vagabondaggi Lolita sta crescendo, e allora pensa di sposarla, per fare una figlia, che sarà uguale alla madre; e lui fa due conti, per giudicare che quando la figlia sarà pubere, lui sarà ancora sessualmente attivo; e poi si spinge ancora più in là, pensando alla nipotina…

Ecco, non si può identificarsi in un personaggio del genere senza definirsi malati.

Ma non ti puoi immedesimare neanche in Lolita. Per quando Humbert sia un narratore inaffidabile (e tu lo sai, che è inaffidabile), Lolita è da prendere a sberle. Non sono riuscita a sentire empatia per lei, neanche quando insultava Humbert per averla violentata. Credo sia un effetto voluto: Humbert te la descrive in modo così diabolico, che alla fine la vittima diventa il carnefice.

Anzi, più in generale, tutto il libro ti sfasa le sensazioni: mentalmente capisci che dovresti essere disgustato da Humbert, ma non lo sei. Mentalmente capisci che dovresti essere dalla parte di Lolita, ma non lo sei. E alla fine ti ritrovi quasi a prendere le difese di Humbert, a diventare un suo Bruder (fratello), come ti chiama lui mentre scrive le sue memorie.

Questo è il punto: siamo tutti colpevoli.

Tutti ci giustifichiamo, ci ammantiamo di cultura, di buone intenzioni, eppure, per quanto cerchiamo di abbellire la nostra maschera (maschera! Parola chiave!), dentro ci portiamo i nostri piccoli e grandi mostri.

Non è spiazzante?

Insomma, nel romanzo non trovi nessuno con cui identificarti. E la storia è una storia di sfruttamento e morte e infelicità.

E allora come ci si salva?

Con l’arte.

Senti qua:

Se non è possibile dimostrarmi che nel divenire infinito non importa un fico se una bambina pubere nord-americana a nome Dolores Haze è stata privata della fanciullezza da un maniaco, non vedo altro rimedio alla mia infelicità se non il palliativo malinconico e del tutto locale dell’arte articolata.

O ancora, alla fine:

(…) penso al rifugio dell’arte. E questa è la sola immortalità che tu ed io possiamo condividere, Lolita mia.

E difatti, la prosa del romanzo è arte allo stato puro.

Leggiamo di personaggi senza libertà di scelta, di gente infelice o, quando va bene, meschina (o almeno così ci viene descritta), ma attraverso lo schermo di un linguaggio da esteta, e l’abnorme perde in mostruosità.

Maschere, libertà, sensibilità, intellettualismo, paura, ossessione, passione, umanità, menzogna… ecco alcuni temi di questo romanzo. Che può piacere o non piacere, ma di sicuro non ti lascia indifferente.

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L’ultima lezione – Randy Pausch (con Jeffrey Zaslow)

Nelle università statunitensi si usa offrire agli studenti una “ultima lezione”: il professore fa un sunto dei punti più importanti del suo insegnamento, come se poi non ci fossero altre lezioni, in vista di un’ipotetica morte annunciata.

Quando è toccato a Randy Pausch, le autorità accademiche volevano cambiare il titolo in qualcosa di meno macabro: Randy Pausch infatti, quarantasettenne professore di informatica, aveva una decina di metastasi al pancreas e non gli restavano molti mesi di vita. Ma Pausch non ha accettato.

Potete vedere interamente la sua ultima lezione online (#thelastlecture), intitolata “Realizzare davvero i sogni dell’infanzia”.

La sua ultima lezione non parla di informatica, ma di vita. E il libro che ne è nato, non è di quelli che ti fa piangere ad ogni pagina: è un insieme di aneddoti sulla sua vita e una raccolta degli insegnamenti che lui si sente di lasciare ai suoi tre figli.

Ne esce il ritratto di un uomo pieno di energia, amante dei parchi giochi, luna park e delle giostre estreme, che è riuscito a coniugare la professione con le sue passioni. Uno che aveva dei sogni da piccolo e che è riuscito a farli avverare.

Sono messaggi semplici, niente di trascendentale, eppure sono impregnati delle piccole verità che danno significato alla vita.

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