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Due biografie: Agatha Christie e Katherine Mansfield

Nate entrambe alla fine dell’Ottocento, la Christie ha superato gli ottanta anni, mentre la Mansfield non è arrivata ai quaranta.

Entrambe con una spasmodica voglia di vita ed esperienze, la prima è riuscita a viaggiare per il mondo e a vivere della sua arte, mentre la Mansfield è sempre rimasta insoddisfatta del suo lavoro e ha viaggiato quasi solo allo scopo di trovare sollievo alla sua malattia.

Tra le due biografie, ho adorato quella della Christie: sapevate che ha sofferto di un disturbo della personalità per un breve periodo?

È stato in seguito alla morte della madre e del tradimento del marito.

Si è ripresa grazie al secondo marito, un archeologo, che lei ha seguito nei suoi viaggi, anche dedicandosi personalmente agli scavi e ai reperti.

La biografia della Mansfield, invece, è meno ricca di esperienze. Un po’ perché, a causa della tubercolosi, lei non ha potuto fare sfogo alla propria vitalità, un po’ perché in questa biografia c’è tanto Citati e poca Mansfield 😭😠

Citati è uno scrittore poco adatto alle biografie, secondo me. Riporta pochissimi fatti, incentra tutto sulle sensazioni e sui dettagli, non riporta dialoghi, dà più importanza a una mela e a un’ombra sul muro che alla malattia della scrittrice.

Finito il libro, della Mansfield so poco più di quello che sapevo prima…

Se cercate un libro bello, vero e interessante, vi consiglio questa biografia di Agatha Christie 😁✔️

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Exodus (Leon Uris) – 1° volume

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Per raccogliere il materiale necessario a questo libro ho percorso circa ottantamila chilometri. I metri di nastro inciso, il numero di interviste, le tonnellate di libri consultati, la quantità di pellicola impressionata e di dollari spesi raggiungono cifre non meno impressionanti.

Ecco cosa dichiara Leon Uris nella prefazione del libro, uscito nel 1958.

Exodus è il nome di una vecchia nave che – una volta finita la seconda guerra mondiale – porta 300 bambini in Palestina. La nave del romanzo, che si ispira a una vicenda realmente accaduta, parte da Cipro, dove gli ebrei scampati allo sterminio hitleriano erano rinchiusi in campi inglesi!

Bisogna ricordare che gli inglesi avevano il Mandato sulla Palestina ed erano contrari all’immigrazione ebraica, perché questo li avrebbe messi in difficoltà con le popolazioni arabe di cui erano, storicamente, alleati.

Pensate: centinaia e centinaia di persone sfuggite dalle camere a gas europee che credono di essere in salvo e invece si ritrovano di nuovo rinchiuse in campi recintati!

I personaggi del romanzo sono un’invenzione letteraria, ma necessariamente entrano in gioco molti nomi di vere personalità storiche (Ben Gurion, Churchill, gli zar russi, i muftì…).

I protagonisti principali sono pochi: uno è Arì Ben Canaan, ebreo palestinese ed ex soldato inglese, con un passato di lotte e dolore.

Poi c’è Kitty, una giovane vedova infermiera che si dedica ai bambini ebrei e che decide di andare in Palestina per seguire una ragazza che le ricorda la figlia morta a pochi anni di età.

Altri personaggi sono meno delineati dal punto di vista psicologico, ma sono necessari perché, attraverso la loro storia e la storia dei loro genitori, nonni, avi, viene narrata la storia ebraica nel mondo, dalla distruzione del Tempio fino ai giorni della vicenda.

Sono digressioni lunghe molte pagine, a volte sembra di leggere un libro di storia, e, considerando le origini ebraiche dell’autore, ci si chiede quanto obiettive siano (ma… esistono libri di storia obiettivi?).

Il romanzo, appena uscito, è diventato subito un bestseller tradotto in decine di lingue, eppure il gotha letterario lo ha molto criticato.

Stando ai critici, il romanzo soffre di difetti sia letterari che contenutistici.

Non sono un’esperta, ma neanche io credo di aver tenuto nelle mani una grande opera d’arte. Il registro cambia spesso e in modo repentino, ci sono troppi punti esclamativi, è troppo simile a una sceneggiatura cinematografica (Uris era anche sceneggiatore, e infatti questo romanzo è diventato un film diretto da Otto Preminger, starring Paul Newman).

Per quanto riguarda i contenuti, molti hanno accusato Uris di propaganda antipalestinese. 

Dal mio punto di vista, sì, è vero che i musulmani sono spesso identificati come ladri, ignoranti e violenti, ma stiamo parlando di tribù seminomadi che attaccavano i neo-insediati ebrei: in un romanzo di poche pretese psicologiche è “normale” che si prendano le parti dei protagonisti che devono affrontare le difficoltà per arrivare al loro scopo (una nazione ebraica).

Tanto più che certi musulmani diventano amici di Ben Arì e di suo padre, dunque la caratterizzazione negativa non mi sembra così generalizzata.

Nel romanzo si parla molto peggio degli inglesi! Quelli sì che erano i veri traditori!

Il primo volume finisce con l’Exodus che, dopo aver gabbato gli inglesi facendo leva sull’opinione pubblica mondiale, arriva sulle coste della Palestina.

Per ora mi fermo al primo volume. Seppure interessante dal punto di vista storico, secondo me è un po’ debole sulle caratterizzazioni psicologiche.

Prendiamo Kitty, ad esempio: resta vedova dell’uomo tanto amato e poi le muore la figlioletta. Pochi anni dopo, incontra una adolescente nel campo di internamento inglese a Cipro e scatta il colpo di fulmine, e addirittura pensa di adottarla… il passaggio è troppo rapido e poco verosimile.

Uris è più efficace quando allarga lo sguardo, quando, attraverso i lunghi flash back, ti fa capire come è stato trattato il popolo ebraico nei secoli, e soprattutto come i governanti dei vari stati, per motivi di volta in volta diversi, siano riusciti a trasformare gli ebrei in capri espiatori.

Una cosa ho notato: è più facile instillare l’odio verso certe minoranze sfruttando il senso di inferiorità delle popolazioni. Chi si sente escluso, chi si sente impotente, chi crede (o è) vittima di ingiustizie… tutta questa gente ha bisogno di qualcuno su cui sfogarsi.

Una volta erano gli ebrei.

E oggi?

Gente frustrata ce n’è a iosa, guardate i social!

Basta raccontare una storia in modo leggermente diverso e il capro espiatorio… è qui!

 

 

 

 

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Vita di Alberto Moravia (Moravia – Alain Elkann)

Libro intervista

Moravia è stato spesso accusato di essere un figlio di papà, un rampollo viziato e fortunato.

Bisogna dire che veniva da una buona famiglia: aveva una governante francese, i genitori si potevano permettere di andare all’opera, e il padre, architetto, lo mantenne ben oltre i trent’anni (fino al matrimonio), pagandogli anche i viaggi di piacere.

Fu il padre che gli prestò i soldi per pubblicare il suo primo libro, Gli Indifferenti, scritto tra l’altro ad un’età precocissima.

Tuttavia Moravia si è sempre difeso dicendo che ha avuto anche lui il suo periodo di sofferenza finanziaria (anzi, dice chiaramente “eravamo poveri), e in questa intervista ne parla senza amarezza, come di un’esperienza come un’altra.

Il primo evento che lo ha segnato stato la malattia: per tutta l’infanzia è stato malato, è stato anche in sanatorio, e anche una volta ufficialmente guarito si è sempre sentito l’ombra della malattia sul collo.

E poi ci sono state le donne.

Ha avuto tre mogli, Elsa Morante, Dacia Maraini e Carmen Llera, ma la schiera di avventure e innamoramenti è molto, molto lunga. Probabilmente se seguite il mio blog avete già intuito che sono un po’ talebana, e infatti questa facilità nell’andare a letto con donne appena conosciute mi lascia perplessa, ma non sono un uomo, forse i maschi ragionano in modo diverso.

Moravia non è il mio scrittore preferito. Ho come l’impressione che i suoi libri abbiano ottenuto quel successo enorme solo per casualità fortunate (pubblicazione nel momento giusto, appartenenze politiche, enorme rete di conoscenze).

La sua vita però è stata all’insegna del cosmopolitismo, e questo mi piace, nei scrittori e in tutti quanti.

Viaggi, viaggi, viaggi, ma non solo toccata e fuga: sono le persone dei paesi stranieri che ti permettono di toccare con mano la cultura diversa e Moravia doveva essere un tipo, alla fine, socievole, nonostante il cipiglio che gli si è attaccato alla faccia in vecchiaia (diciamo anche che la sua rete di conoscenze si nutriva da sé, visto che si faceva scrivere lettere di introduzione dai personaggi che conosceva e che gli permettevano di venir ammesso a molti salotti letterari a livello europeo).

Mi permetto di riportare una frase dell’autore, che parla della sua impressione appena sceso negli Stati Uniti negli anni Cinquanta:

La sensazione in America fu di un grande paese, in cui gli italiani non contavano nulla.

E’ una frase che gli italiani tenderanno a giustificare: erano gli anni Cinquanta, ora è diverso.

No, gente. Gli italiani non contano nulla nel mondo, adesso come allora. Siamo noi che ci gloriamo del nostro fastoso passato e crediamo che tutti ci studino e ci pensino: parlate con l’uomo medio americano, o cinese, o africano, o australiano, e chiedetegli la nostra forma di governo, il nome del nostro presidente della repubblica, o di un autore o cantante contemporaneo. Resteranno muti.

La biografia è interessante anche per tutte le opinioni che Moravia esprime sui più importanti personaggi letterari del Novecento: vi assicuro che li ha conosciuti quasi tutti (Prezzolini, Malaparte, Visconti, Pasolini…); per non tacere delle opinioni che lo scrittore ci semina qua e là in merito alla sua arte e che possono essere considerate come perline di saggezza per chi mira alla carriera letteraria.

Nonostante l’interesse di questo libro-intervista, Moravia non mi è diventato più simpatico di prima. Frasi come quella sotto mi hanno impedito di prenderlo a benvolere:

A quei tempi Borghese e Pancrazi, altro critico del Corriere della Sera, potevano creare uno scrittore, per quel centinaio di lettori che si interessavano di letteratura. Oggi questo non è più possibile, ci sono più lettori, è vero, ma la letteratura non è più qualche cosa di culturale, è un prodotto industriale come un altro.

Come a dire, che la cultura letteraria è solo quella creata dai critici, (che – si sa – possono essere ben di parte coi propri amici) e non dai lettori che formano il popolo “normale”.

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Appigionasi – John Galsworthy

Londra, 1920.

Soames Forsyte ha una figlia che adora, Fleur. Fleur si innamora di un lontano cugino, Jon, ma la loro storia è impossibile: la madre di Jon vent’anni prima è stata sposata, senza amore, con Soames Forsyte, e dopo pochi anni lo ha abbandonato per andarsene con un altro.

I due giovani non sanno di questa storia ma intuiscono che qualcosa non va nei rapporti tra le rispettive famiglie.

Sarà il passato a decidere del loro rapporto, perché certi scandali non si perdonano neanche a decenni di distanza.

A noi, oggi, un impedimento del genere fa sorridere: Jon rinuncia a Fleur solo perché il padre di lei, molto tempo prima, ha posseduto la madre di lui come fosse stata una proprietà? Perché non ha voluto concederle il divorzio? Perché l’ha costretta a tradirlo? Ma dai…!

Credo che il nocciolo di tutto stia proprio nel concetto di proprietà, che, per la famiglia Forsyte, si applica sia alle case che alle persone.

In questo romanzo non ho trovato nessun personaggio che sia davvero positivo: non Soames, che brama ricchezze e persone; non Fleur, che – forse – porta in sé l’avidità del padre; non Irene, che alla fine lascia che il figlio rinunci a Fleur pur di non riallacciare i rapporti con l’ex marito; non Jon, che cede alla forza “maggiore”. E nessuno degli altri parenti e amici che gravitano attorno alla famiglia, tutti tesi nel silenzio, quando sarebbe stato molto più semplice informare i giovani fin dall’inizio per evitare complicazioni.

Perché dico che Fleur forse porta in sé l’avidità del padre? Perché c’è una parte del romanzo in cui so parla dell’idea fissa:

L’idea fissa, che più di ogni altra forma degenerativa dell’umana natura ha dato luogo a disordini e delitti, non è mai tanto temibile come quando assume la maschera della frenesia amorosa. L’idea fissa dell’amore non fa caso a nulla, né a cancelli, né a porte, né a fossati, né agli esseri posseduti da altre idee fisse, né a coloro che soffrono del medesimo male. (…) Fleur era diventata indifferente a ogni cosa. Non desiderava che l’inafferrabile.

Questo suo volere Jon, soprattutto dopo aver scoperto che era meglio lasciarlo stare, è uno specchio del comportamento del padre, che anni prima si era affannato a volere la madre di lui sebbene Irene non lo amasse. Non si vede amore incondizionato, qui, solo voglia di possedere qualcosa (qualcuno) che non si può possedere.

E’ un romanzo molto radicato nella società dell’alta borghesia inglese del Novecento, eppure, questa insistenza sulla falsità di certi sentimenti è ancora attuale. Non ci deve essere necessariamente malafede: Fleur non è consapevole dei suoi sentimenti come poteva esserlo suo padre davanti al netto rifiuto di Irene.

Tuttavia, alla base degli errori di questi personaggi (errori che si ripercuotono negli anni) c’è una generale incomprensione dei sentimenti più nobili.

Autocensura o mancanza di autoconsapevolezza?

La risposta ha un valore relativo, se la cerchiamo per i personaggi del romanzo.

Assume invece un’importanza vitale se la cerchiamo per noi stessi.

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Dinastia – Robert S. Elegant

Mary Philippa Osgood arriva nel 1900 a Hong Kong. Ha vent’anni: non è la più bella ragazza tra le inglesi della colonia, ma riesce subito a mettersi in mostra e ad accalappiarsi il rampollo della famiglia cino-inglese Sekloong.

Il fondatore della dinastia, Sir Jonathan Sekloong, è ricchissimo e spregiudicato, ma dà sempre la priorità ai bisogni della famiglia. Mary imparerà ad inserirsi nel clan e a capire gli orientali, anche se non subito.

Non mancheranno le incomprensioni col marito che, pur amandola (ricambiato), da buon cinese miliardario non si dimentica di saltare da un letto all’altro.

Anche Mary vivrà la sua storia (col cognato), ma alla fine la Famiglia avrà la precedenza su ogni tipo di capriccio.

Il clan Seklong è pieno di ramificazioni sparse per il mondo e si suddivide in diverse correnti politiche: seguiremo i vari personaggi lungo gli anni dal 1900 al 1970.

Elegant scrive benissimo, e questo è un dato di fatto.

E’ però anche un dato di fatto che ha vissuto vent’anni a Hong Kong, che si è documentato benissimo (lo si vede anche dai dettagli quotidiani che descrive), che il libro è lungo 701 pagine infarcite di storia e nomi cinesi: essendo questa una parte del mondo che non sempre studiamo, nomi ed eventi ci risultano estranei, e può essere difficile appassionarsi alle vicende dei vari personaggi.

Finché la storia gira attorno a Mary e ai principali componenti della famiglia con le loro vicende, anche drammatiche, mi sono appassionata. Quando la storia si allarga, mi son persa…

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Una biografia di Thomas Mann (Ronald Hayman)

Uno scrittore scrive.

Ohhh! Che affermazione incredibile!

Certo, lo sanno tutti… Eppure, ho la straordinaria capacità di meravigliarmi quando leggo una biografia di 600 pagine e mi accorgo di essermi annoiata. Soprattutto quando la biografia è così dettagliata, a volte spiegando giorno per giorno cosa fa Mann con la sua famiglia.

Thomas Mann aveva una routine strettissima, nel suo lavoro: scriveva prevalentemente al mattino, mai più di una, due pagine al giorno. Siccome la scrittura è un gesto monotono, non potendo Hayman dilungarsi su cosa facesse Mann alla scrivania, ha dedicato pagine e pagine a riportare brani di opere e di commenti alle stesse, aggiungendo pagine e pagine sui viaggi dello scrittore.

La parte secondo me più interessante è quella che riguarda il periodo della seconda guerra mondiale, quando Mann è indeciso se intervenire o meno nel dibattito politico: lui si trovava in Svizzera quando è scoppiato il conflitto, e poi si trasferisce negli Stati Uniti.

Come molti altri intellettuali, non aveva compreso fino in fondo la pericolosità di Hitler; inoltre, essendo fuori del proprio paese, si tratteneva dal commentare in modo troppo negativo i fatti tedeschi, essenzialmente per due motivi: innanzitutto, i suoi libri venivano ancora venduti in Germania, e, in secondo luogo, aveva ancora molti possedimenti e molti parenti nella madre patria.

Questa parte della biografia mi è piaciuta perché ci mostra un Thomas Mann combattuto, umano che, alla fine, dopo molti tentennamenti, prende posizione.

Anche dal punto di vista sessuale, Thomas Mann ha preso posizione: ha una predilezione per i giovani ragazzi, ma tiene molto di più alla propria immagine, al suo ruolo di Pater Familiae, e non scende mai a compromessi con questo suo ideale, anche se questo significa rinunciare a rapporti più rispondenti alle sue tendenze.

Interessante che almeno due o tre dei suoi figli avessero tendenze sessuali altrettanto anticonformiste, e impressionante il numero di morti suicidi che ci sono in questa famiglia.

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I piedi della concubina, Kathryn Harrison

(English version: below)

Che bello questo libro! Strano che nella rete se ne parli così poco.

La storia è raccontata su diversi livelli temporali con molti flash-back e sebbene ci sia una protagonista principale, la cinese May, attorno a lei ruotano molti altri personaggi, di quelli che piacciono a me, strani, diversi, ma mai macchiettistici.

May appartiene a una famiglia cinese facoltosa e come di consueto, a cinque anni incominciano a fasciarle i piedi. Lo fa sua nonna, perché sua madre non ne ha il coraggio. E’ una procedura dolorosa, che causa piaghe, rottura delle ossa, calli, infezioni continue, e che le condizionerà tutta la vita, in tutti i suoi aspetti.

Grazie (!??) ai suoi piedini di loto, May va in sposa a un ricco mercante. Il matrimonio, fin dalle nozze, si rivela molto diverso da come se lo aspettava: intanto, scopre di essere solo la quarta moglie, e poi il mercante, oltre a non consumare il matrimonio, la picchia perché lei si ribella. I tentativi di suicidio vanno a vuoto, e allora May scappa.

Ma lo fa in modo intelligente: va a lavorare in un bordello ma si concede solo agli occidentali, e, rinnegando tutta quella che è stata la sua vita precedente, impara benissimo l’inglese e il francese.

Finché Arthur, un australiano ricco ma inconcludente, si innamora di lei e la sposa. Così May entra a far parte della famiglia Cohen-Benedict. Si attaccherà moltissimo alla nipote Alice, alla quale trasmetterà a sua insofferenza per le regole. I soldi non mancano perché il cognato Dick specula sulla guerra.

Nel passato di May c’è una figlia che lei non ha più visto, e che ad un certo punto si mette a cercare. La troverà, zoppa, e la causa della sua infermità ci fa capire quanto May sia una donna ferita che, nonostante le apparenze, la bellezza e la cultura, non riesce a guarire.

Drammi ne abbiamo?

In abbondanza.

La storia si snoda tra Shanghai, la Transiberiana e Nizza.

Potete immaginare com’era Shanghai durante l’epidemia di spagnola, quando le fabbriche di chiodi chiudevano per mancanza di operai e non si potevano serrare le bare?

Potete immaginare come reagiscono i clienti di una rinomata pasticceria inglese quando una cinese entra con una portantina sostenuta da due semi-schiavi?

Avete un’idea di come erano le protesi dentarie negli Stati Uniti agli inizi del Novecento?

Questo romanzo è stupendo: la storia, la scrittura, la ricerca che c’è sotto. Assolutamente consigliato.

Se proprio devo trovare un difetto, lo vedo nel titolo: non c’è nessuna concubina, qui. May fa la moglie, la prostituta, la moglie e poi la vedova. Qui ci si è messa di mezzo la pruderie italiana. Guarda a cosa ci si è ridotti per tentare di vendere un libro in più.


What a wonderful book! Strange, that you find so few reviews in internet.

The story rolls among several temporary levels with a lot of flash-backs; although there is a main carachter, May, there are also many other carachters who are strange (the kind I like most), but never silly.

May belongs to a rich Chinese family and at 5 years old she got her feet swaddled. The operation is cause of broken bones, infections, callus, sores, and will limit her walk and her Whole life.

Thanks (?!?) to her lotus feet, May get married to a rich merchant, but the union is very different from the idea she had in her mind. First of all, she finds out that she is only the 4th bride. Secondly, her husband is violent and will not give her a child. May is rebel, and often got humiliated and beated. She tries several times to kill herself, but at the end she decides to escape.

She lands in a brothel, where she accepts only occidental clients and learn English and French. An inconclusive but rich australian man falls in love with her and marries her. As a result, she enters his family, where she binds herself to the nephew Alice, who is nearly as rebel as her.

May’s life hides a secret: a daughter, whom she “lost” when she was Young and whom she manages to meet again 24 year later. She is lame: why? When you find out the reason of this handicap, you will understand how May is a wounded woman who cannot heal.

Yes, I like tragedies books, and here you find many of them. For instance: Shanghai during the spanish influence, when the nail industries had not enough workers, because they were falling like flies, and therefore there was no way to close coffins…

There is a defect, in this book: the title. “The feet of the concubine” is the italian title, whereas there is no concubine in the story… the English title is “The binding chair”, recalling May’s difficulties in walking.

A great pity that Italian publishers must mangle titles in this way, because, without pruderie, italian readers don’t read…

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Evviva i bersaglieri! (e i carabinieri, e i poliziotti e i finanzieri e tutti gli altri, ma…)

Ci sono bersaglieri un po’ dappertutto, in questi giorni: son simpatici, mettono allegria, è bello vederli in giro (ebbene sì, adoro le divise!).

Ma poco fa mi è caduto sotto l’occhio un estratto di “Prima dell’alba” di Paolo Malaguti:

In memoria dei 345 bersaglieri del XVIII Battaglione III Reggimento, cinque dei quali condannati alla fucilazione, uno condannato ai lavori forzati a vita, il caporale a 15 anni di reclusione militare, gli altri 338 a 3 anni di reclusione militare per abbandono degli alloggiamenti a Salesei.

Letta così, sembra la giusta punizione per dei soldati che sono scappati davanti al nemico, che hanno tradito la patria. E invece le cose non sono così semplici.

I libro di Malaguti parla dell’altra faccia della guerra: parla sì dei morti e dei mutilati a causa del nemico, ma si concentra sui morti e sui mutilati a causa dell’amico, del governo italiano.

Il romanzo è incentrato sulla fine, vera, del generale Graziani, che un giorno del 1931 è stato trovato morto sulla massicciata della ferrovia, apparentemente caduto da un treno in corsa.

Graziani: chi era? Un eroe di guerra, un organizzatore di aiuti e grandi opere, uno per il cui funerale si sono mosse le alte cariche dello stato. È anche però lo stesso che ha fatto fucilare seduta stante, senza processo, un soldato, perché, nel mettersi sull’attenti al suo passaggio, non si è tolto il sigaro di bocca.

Questo soldato è stato solo uno delle decine e centinaia di caduti a causa del governo italiano. Caduti che nessuno ricorda mai. Si fanno le piazze a Diaz, a Cadorna e compagnia bella, ma delle vittime del governo non si ricorda mai nessuno.

Certo, era una situazione di emergenza: c’erano i crucchi in territorio italiano, era appena successo il disastro di Caporetto. Graziani ha applicato – come d’altri, dopotutto – gli ordini dei suoi superiori. Dunque, scrivo “Graziani”, ma in realtà dovrei dire “governo”, così, con la “g” maiuscola.

Qualcuno si lamenta, a volte, che ho un problema con l’autorità: non è vero. Ho un problema con l’autoritarismo. A me piacciono le regole, quando favoriscono il vivere civile e, tramite di esso, l’essere umano. Non mi piace invece chi manda le persone a morire e a uccidere contro la propria volontà.

Non mi sento né anarchica né antipatriota, ma “per non saper né leggere né scrivere” (come dicono i personaggi di Malaguti) sono contraria alla guerra e a chi ti ordina di farla.

Dunque faccio mia la proposta dell’autore: piazze e strade intitolate a Diaz, Cadorna & C.? Sì, perché la censura storica fa più male che bene. Ma ristabiliamo la par condicio, e ricordiamo anche le loro vittime.

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