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Storia di mio figlio (Nadine Gordimer)

Sudafrica negli anni Ottanta.

Sonny è un insegnante di colore; è sposato con Aila. Hanno due figli: Baby, la più grande, che sembra sempre in cerca di divertimento, e Will, taciturno e studioso.

Quando Sonny accompagna gli alunni durante una protesta, passa quasi senza accorgersene dalla parte della resistenza contro il governo dell’Apartheid, anche perché, grazie ai suoi studi letterari, è un buon oratore. Viene licenziato e finisce in carcere. Là conosce Hannah, un’attivista bianca, e ne diventa l’amante.

Un giorno Will bigia la scuola e va al cinema, e proprio là trova il padre con l’amante.

La storia è narrata da due punti di vista: uno onnisciente e l’altro che parla attraverso le parole del figlio Will, arrabbiato e deluso dal comportamento del padre che prima vedeva come una figura degna di rispetto.

Ma Will non dice cosa ha visto alla madre, e Aila continua la sua vita quotidiana dedicandosi alla famiglia e al lavoro senza mai lamentarsi.

E’ interessante leggere le pagine dedicate a Sonny dalla voce onnisciente: si cerca di capire le ragioni del tradimento senza giudicare. Una ragione importante che tiene in piedi questa storia è il fatto che Sonny e Hannah abbiano una causa in comune che li tiene uniti non solo nel letto.

Sonny non ha mai coinvolto la moglie Aila nei suoi discorsi o nei suoi viaggi politici e lei non ha mai mostrato di voler partecipare.

Finché un giorno Baby scappa all’estero e…

Attraverso la storia di questa famiglia, vediamo la storia più grande di tutto il Sudafrica, dei suoi attivisti, delle crepe che indebolivano il movimento, e dei suoi punti forti.

Ma si scende anche su un livello più intimo, del figlio nei confronti del padre e del padre nei confronti dell’amante. Quella che rimane sempre un po’ più misteriosa è Aila, che parla solo alla fine del libro.

Non vi rovino la storia, ma il libro è bello soprattutto perché è ben scritto. Nadine Gordimer se lo è meritato il Nobel.

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Gli armadi vuoti (Annie Ernaux)

Denise Lesur è appena stata da una mammana e aspetta di abortire. Il tempo scorre in attesa di liberarsi di quello che ha dentro, ma quello che ha dentro non è solo un feto non voluto.

Denise Lesur è piena di rabbia: il romanzo è una lunga invettiva contro il mondo da cui proviene.

La sua è una famiglia di negozianti, nel quartiere è considerata benestante: il bar va avanti bene, sempre pieno di ubriaconi che vomitano e stramazzano al suolo, e la rivendita di alimentari è un continuo via vai di donne in pantofole che chiedono di poter pagare a fine mese.

Ma nel quartiere ce ne sono tanti che stanno peggio, molto peggio, e Denise ogni domenica va a trovare qualche malato con la madre e a portare un po’ di scatolame per alleviare la miseria.

Denise Lesur da bambina è invidiata dalle amiche: può mangiare quello che vuole e può giocare con bambole che camminano da sole.

Tutto cambia quando iniziano le elementari: i genitori la mandano in una scuola privata dove Denise scopre di non essere al centro del mondo, di non essere la bambina più ricca né la più benvoluta. E’ la cacciata dal giardino dell’Eden.

Per recuperare l’ammirazione di cui ha spasmodicamente bisogno, diventa la prima della classe, e lo sarà sempre, anche alle superiori e all’università, ma, man mano che cresce, inizia ad odiare l’ambiente da cui proviene: si vergogna dei suoi genitori, del loro basso livello culturale, del loro linguaggio scurrile, della loro volgare abbigliamento.

Cerca di tenere separati il mondo della scuola e il mondo della famiglia, perfino il suo modo di parlare cambia a seconda dei due ambienti.

Quando inizia ad accorgersi dell’altro sesso, sceglie i ragazzi in base al loro livello, a quanto sono fini, a quanto possono arrivare lontano. Oscilla tra il senso di superiorità nei confronti del suo ambiente di origine al senso di inferiorità nei confronti di certi studenti ricchi e aggraziati.

Non è un libro sull’aborto, o sul diritto all’aborto. E’ un romanzo sulla perdita dell’ingenuità e sul tentativo di una giovane di staccarsi dal proprio passato.

E’ pieno di rabbia (e leggere 237 pagine piene di rabbia non è salutare).

Mi si dirà che è una rabbia dettata dalla costrizione dell’aborto: Denise Lesur non può tenere il figlio, i suoi non glielo perdonerebbero mai, imbottiti di morale come sono.

Ma in realtà, a lei il figlio non interessa per niente. Non ne parla mai in termini di “bambino”, non si vede mai nel ruolo di madre. Quello che la manda fuori di testa è che è costretta a fare qualcosa per colpa della morale imperante, e a farla di nascosto, perché la fanno sentire colpevole.

Questa settimana Annie Ernaux ha vinto il Nobel per la letteratura e tutti giù a dire che è un Nobel politico, una reazione all’avanzare della destra che minaccia il diritto all’aborto.

Il diritto all’aborto va tutelato, ma non bisogna strumentalizzare ogni accenno all’interruzione di gravidanza per giustificare certi premi.

Annie Ernaux sa scrivere, ma a mio parere, c’erano altri nomi più meritevoli per un premio così ambito.

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E se votassimo tutti scheda bianca?

SAGGIO SULLA LUCIDITA’ (JOSE’ SARAMAGO)

E se votassimo tutti scheda bianca? E’ questo lo scenario da cui parte Saramago per scrivere il romanzo che è la continuazione di Cecità.

In una capitale non meglio precisata, le votazioni vanno prima deserte e poi, al secondo tentativo, la maggioranza delle schede è bianca. La destra riesce comunque ad andare al potere, ma il comportamento della popolazione lascia sconcertati i politici che si mettono subito alla ricerca del colpevole.

Il governo cerca di scoprire i cospiratori ricorrendo prima a delle spie infiltrate in città, poi con interrogatori segreti e cruenti e infine dichiarando lo stato di assedio e abbandonando i cittadini a loro stessi.

I politici non riescono a capacitarsi che l’83% dei votanti abbia lasciato cadere una scheda bianca nell’urna senza un qualche tipo di guida comune, non ammettono che il popolo sia solo disilluso, ci deve per forza essere un piano eversivo comune, ma tutti i tentativi di scoprire i colpevoli si rivelano infruttuosi.

Il governo ricorre ad ogni mezzo: fa perfino scoppiare una bomba alla stazione per cercare di mobilitare la popolazione che però, dopo il primo sconcerto, continua a comportarsi in maniera civile.

Ma un colpevole è necessario.

Dopo una serie di battibecchi tra primo ministro, ministro dell’interno e ministro della giustizia, si decide di mandare tre poliziotti in incognito in città allo scopo di indagare su una donna che quattro anni prima, nel bel mezzo dell’epidemia di cecità (ecco il legame col primo libro) non si è ammalata. Lei deve essere la colpevole, è stato deciso così.

I messaggi del libro sono tanti.

Intanto, l’importanza delle parole: il superintendente che indaga sulla donna, e che avrà un ruolo importante nella seconda parte del libro, ci tiene che vengano utilizzate le parole corrette. Se non nomini le cose con termini precisi, rischi di togliere realismo a quelle cose.

Poi c’è l’atteggiamento dei governi autoritari: l’incapacità di guardarsi dal di fuori, il bisogno spasmodico di trovare capri espiatori per giustificarsi, la necessità di CREARE I NEMICI, l’accentramento dei poteri.

Poi c’è l’importanza del voto: Saramago sembra dirci che anche se non votiamo, qualcun altro lo farà per noi.

E infine la cecità: guarda caso, il popolo ha sofferto di cecità proprio quattro anni prima. Quattro anni di solito è il periodo di durata delle legislature. E’ come se quattro anni prima il popolo cieco avesse votato per il partito sbagliato, se ne fosse reso conto e, perse ormai le speranze, abbia deciso di rinunciare a votare.

Se quattro anni prima erano stati ciechi, dunque, adesso sono ben lucidi.

Peccato che la lucidità adesso non serva a molto, perché le conseguenze della cecità di quattro anni prima si protraggono negli anni.

Ho letto adesso questo libro alle soglie delle elezioni del 25 settembre (che è pure il giorno del mio compleanno) e spero che gli italiani non siano così ciechi da consegnare il potere a chi poi – in un modo o nell’altro – non lo mollerà più.

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Mille gru (Kawabata Yasunari)

Tutto parte da una cerimonia del té alla quale partecipa il giovane Kikuji. La maestra della cerimonia, Chikako, ha infatti invitato una ragazza con cui lei vorrebbe che Kikuji si sposasse. Ma alla cerimonia prendono parte anche la signora Ota con la figlia.

Bisogna sapere che la signora Ota è stata l’amante del padre di Kikuji fino alla morte di lui. Ma anche Chikako è stata amante dell’uomo, per un breve periodo.

Ebbene, dopo questa cerimonia, Kikuji ha un’avventura con la matura signora Ota.

E’ una storia basata sulla solitudine e sulla sensualità: nonostante il rapporto tra Kikuji e la signora Ota abbia in sé qualcosa di scabroso, il tutto è descritto in termini molto puliti e gli stessi protagonisti faticano a parlarne in termini espliciti.

Però il fattaccio si è concluso e la signora Ota, forse a causa della vergogna, si suicida.

Kikuji entra così in contatto con sua figlia e comincia a provare per lei la stessa attrazione che ha provato per la madre.

In questo rapporto si inserisce Chikako che diventa sempre più fastidiosa, probabilmente perché alla ricerca di un modo per vendicarsi che il padre di Kikuji abbia preferito la signora Ota a lei.

E’ un classico esempio di letteratura giapponese, molto etereo e con frequenti descrizioni della bellezza del paesaggio o delle tazze per la cerimonia del té.

Breve, pulito, giapponese.

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Sbucciando la cipolla (Günter Grass) @EinaudiEditore

Ammetto subito che lo ho sospeso due volte prima di finirlo: Grass usa una prosa molto ipotattica, piena di metafore elaborate che si ripetono e vengono approfondite nel corso del libro. Non una prosa semplice, insomma, e tutto il mio rispetto va al traduttore Claudio Gross, morto l’anno scorso, per il lavoro che ha compiuto su questo testo (se è difficile da leggere in italiano, non oso pensare cosa sia in tedesco).

Grass ha preso il premio Nobel per la letteratura nel 1999. Questo lo sapevo. Quello che non sapevo è che Grass faceva parte delle SS.

Certo, non ci è rimasto a lungo, e, va detto, aveva 16 anni quando ci è entrato: va anche detto che il suo primo battesimo del fuoco gli ha inflitto una tale dose di paura che si è fatto la pipì addosso e ha avuto gli incubi per anni, dopo la guerra.

E’ comunque interessante leggere come Grass dopo quasi sessant’anni cerchi di capire le ragioni di quell’appartenenza (soprattutto alla luce della sua successiva militanza nella sinistra tedesca) ma senza cercare giustificazioni postume. Va sottolineato però, che nel tentativo di prendere le distanze dal suo “io” di allora, quando parla del se stesso di quel periodo spesso lo fa in terza persona.

Salvatosi un paio di volte per puro caso, quando la guerra finisce Grass si ritrova senza arte né parte: non ha finito la scuola, non sa che fine abbia fatto la sua famiglia, non sa dove andare.

E così, il futuro premio Nobel, comincia una vita vagabonda, rimanendo per anni ospite della Caritas.

Nonostante la sua aspirazione a diventare un artista, prima di iscriversi ad una vera e propria accademia fa un po’ di tutto, dal lavoro in miniera allo scalpellino. In questi anni, tre sono i tipi di fame che lo affliggono: la fame vera e propria, la fame di donne e la fame d’arte.

Il libro termina quando, dopo vari tentativi di darsi alla scultura, Grass inizia a guadagnare i primi soldi con l’attività letteraria.

Da questa autobiografia si capisce come la sua vita sia spesso stata travasata nei suoi romanzi: spesso i personaggi dei suoi libri, tratti dalla realtà, si sovrappongono ai ricordi, distorcendoli.

Non è una lettura semplice, dicevo, ma se arrivate alla fine ne varrà comunque la pena.

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Le rane (Mo Yan)

Un drammaturgo, detto “Girino”, racconta la storia della zia ostetrica in Cina durante la rivoluzione culturale.Era un’ostetrica un po’ particolare, perché, dopo aver aiutato molte madri a partorire, il partito le chiede di supportare la politica del figlio unico, facendo abortire le donne che rimangono incinte “illegalmente”.La regola era infatti che si potesse avere solo un figlio. Si poteva restare incinte la seconda volta solo se il primo parto aveva dato alla luce una femmina.La zia di Girino prende gli ordini alla lettera e si ritrova a rincorrere madri col pancione che scappano a nascondersi in tutta la sua provincia.Detto così sembra una storia comica, in realtà la tragedia è dietro l’angolo, visto che gli aborti sono adottati anche se le gravidanze sono molto avanzate.La figura della zia è drammatica: se agli inizi della carriera era innamorata del fatto di far nascere bambini, quando deve dedicarsi agli aborti lo fa con una dedizione al limite del fanatismo, utilizzando astuzie che la rendono odiosa agli occhi di tutta la popolazione, parenti e amici inclusi.Lei è una donna dal carattere forte, che tiene testa agli uomini e ai funzionari, ma il logorio e i sensi di colpa a cui è sottoposta si farà sentire negli ultimi anni.Girino è un personaggio più sottomesso: accetta le decisioni del partito e della zia, e quando la prima moglie gli muore perché l’aveva convinta a sottoporsi all’aborto al settimo mese di gravidanza, non se la prenderà con la zia, ma piuttosto con se stesso.Ci sono tanti personaggi: è un libro che parla della Cina, più che di alcune figure specifiche.Voto: 4+/5

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Le livre de mon ami – Anatole France

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Anatole France, premio Nobel per la letteratura 1921, difensore irriducibile dei diritti umani, membro dell’Accademia Francese e ora pressoché dimenticato. Perché?

Perché è noioso!!

Sono riuscita a leggere metà libro senza sbadigli, la metà in cui il narratore parla in prima persona della propria infanzia e giovinezza tra gli agi di una famiglia francese di fine Ottocento.

Non certo una lettura avventurosa, e neanche una lettura attraente dal punto di vista psicologico: è tutta ammantata dalla soavità del ricordo, immagini offuscate dalla nebbia, i fiorellini, la mammina che si preoccupa se il figlioletto ha le guance rosse e se si sporca i pantaloncini (tanti diminutivi e vezzeggiativi), ecc…

La seconda metà può essere davvero utilizzata al posto del sonnifero serale: è la parte in cui il narratore parla della figlioletta, di lei che gioca, di lei che è bella, dei suoi amichetti che leggono i libri dell’infanzia…

Ammetto che tra un bambino e un gatto preferisco il gatto, ma… non leggo neanche libri di gatti, dunque cercate di capire la fatica che ho fatto per arrivare alla fine del libro.

E neanche alla fine: ho saltato le ultime venti pagine in cui c’è un dialogo sulle fiabe.

No, questa letteratura edulcorata non fa per me.

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Satana a Goraj – Isaac Bashevis Singer

Mamma mia che mondo invivibile, quello di Goraj tra il 1665 e il 1666, il tempo in cui, secondo gli esperti della Cabbala, il Messia si sarebbe manifestato e l’esilio sarebbe giunto alla fine!

Guerre, torture, distruzioni, incendi, inondazioni, possessioni diaboliche, segni divini e maligni… questo romanzo è un susseguirsi di immagini forti, ma raccontati da una voce che cerca di restare distaccata. O finge, di voler restare distaccata…

Singer narra la storia di un paesino che si trova in un luogo non ben definito (neanche il suo nome è certo, tant’è che non si possono registrare le sentenze di divorzio perché ci sono dubbi in merito).

Nel 1665, circola la voce che il Messia sia arrivato nelle spoglie di un certo Shabbatay Tzevi: tutti gli ebrei vanno fuori di testa e si preparano a risvegliarsi nella Terra Promessa.

Nascono fazioni pro e contro il presunto messia, e un rabbi si sostituisce all’altro, in successione, nel favore popolare.

Tutto succede all’insegna dell’Attesa: spasmodica, febbricitante attesa.

Singer ci fa entrare nell’atmosfera: pensate un popolo esiliato e martorizzato, bersaglio di pogrom e genocidi, vittima di guerre ed eventi atmosferici straordinari; e pensate alla sua impotenza di fronte a tutte queste calamità.

Non verrebbe anche voi la voglia di abbandonarvi a una speranza pazza e risolutiva?

Se vi dicessero che domani tutte le vostre infinite disgrazie finiranno di colpo, le vostre regole morali non verrebbero travolte dalla felicità e dallo stordimento?

E se d’un colpo poi vi privassero di questa speranza, non subentrerebbe una rabbia distruttiva? Non vi travolgerebbe il disastro?

E’ quello che succede con Shabbatay Tzevi.

Leggendo il romanzo, mi son spesso chiesta cosa pensava Singer mentre lo scriveva. Da che parte stava, lui, ebreo praticante in terra Americana?

Perché da un lato, tra le righe si percepisce l’empatia per le sofferenze e le speranze del suo popolo, certo; ma tale empatia non è mai scevra di compatimento nei confronti dei mille e mille riti e superstizioni che intaccano ogni minimo aspetto della vita di un ebreo.

Tanto che, alla fine, mi par di capire che il nemico vero, non sono “gli altri”, la nebulosa moltitudine di esseri esterni alla vera fede a cui si attribuiscono le colpe delle carestie e delle violenze; alla fine, il nemico vero è interno al popolo eletto, si impossessa della moglie di un Giusto, viene dalla carne ebrea e da altri ebrei viene rinnegato.

Insomma: non c’è scampo al tormento.

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Termine di un viaggio di servizio – Heinrich Boell

Siamo in Germania, nel 1962.

Il processo Gruhl deve svolgersi in fretta e in sordina. I Gruhl padre e figlio hanno dato fuoco a una jeep americana: niente di grave, nessuno si è fatto male, sembra, ma qualcuno vuole che non venga data rilevanza al fatto.

Perché lo hanno fatto?

C’è stata premeditazione, su questo non c’è dubbio, e i due imputati sono sani di mente, ci sono le perizie. E allora?

Mentre seguiamo il processo, presieduto da un giudice che è al suo ultimo incarico e che è famoso per la benevolenza nei confronti degli imputati in generale (tanto più in questo caso, visto che in provincia tutti si conoscono fin da bambini), vediamo tutti i casi umani che girano attorno ai due Gruhl.

Ne salta fuori un pezzo di storia tedesca: non di gerarchi, non di fuehrer, ma di piccola manovalanza, piccoli artigiani, casalinghe, prostitute, piccola e media borghesia.

Non so come va a finire, ho esercitato il mio diritto di sospendere la lettura (a pag. 102 su 231): la scrittura è troppo ironica. Forse un giorno lo riprenderò, ogni libro ha il suo momento.

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Appigionasi – John Galsworthy

Londra, 1920.

Soames Forsyte ha una figlia che adora, Fleur. Fleur si innamora di un lontano cugino, Jon, ma la loro storia è impossibile: la madre di Jon vent’anni prima è stata sposata, senza amore, con Soames Forsyte, e dopo pochi anni lo ha abbandonato per andarsene con un altro.

I due giovani non sanno di questa storia ma intuiscono che qualcosa non va nei rapporti tra le rispettive famiglie.

Sarà il passato a decidere del loro rapporto, perché certi scandali non si perdonano neanche a decenni di distanza.

A noi, oggi, un impedimento del genere fa sorridere: Jon rinuncia a Fleur solo perché il padre di lei, molto tempo prima, ha posseduto la madre di lui come fosse stata una proprietà? Perché non ha voluto concederle il divorzio? Perché l’ha costretta a tradirlo? Ma dai…!

Credo che il nocciolo di tutto stia proprio nel concetto di proprietà, che, per la famiglia Forsyte, si applica sia alle case che alle persone.

In questo romanzo non ho trovato nessun personaggio che sia davvero positivo: non Soames, che brama ricchezze e persone; non Fleur, che – forse – porta in sé l’avidità del padre; non Irene, che alla fine lascia che il figlio rinunci a Fleur pur di non riallacciare i rapporti con l’ex marito; non Jon, che cede alla forza “maggiore”. E nessuno degli altri parenti e amici che gravitano attorno alla famiglia, tutti tesi nel silenzio, quando sarebbe stato molto più semplice informare i giovani fin dall’inizio per evitare complicazioni.

Perché dico che Fleur forse porta in sé l’avidità del padre? Perché c’è una parte del romanzo in cui so parla dell’idea fissa:

L’idea fissa, che più di ogni altra forma degenerativa dell’umana natura ha dato luogo a disordini e delitti, non è mai tanto temibile come quando assume la maschera della frenesia amorosa. L’idea fissa dell’amore non fa caso a nulla, né a cancelli, né a porte, né a fossati, né agli esseri posseduti da altre idee fisse, né a coloro che soffrono del medesimo male. (…) Fleur era diventata indifferente a ogni cosa. Non desiderava che l’inafferrabile.

Questo suo volere Jon, soprattutto dopo aver scoperto che era meglio lasciarlo stare, è uno specchio del comportamento del padre, che anni prima si era affannato a volere la madre di lui sebbene Irene non lo amasse. Non si vede amore incondizionato, qui, solo voglia di possedere qualcosa (qualcuno) che non si può possedere.

E’ un romanzo molto radicato nella società dell’alta borghesia inglese del Novecento, eppure, questa insistenza sulla falsità di certi sentimenti è ancora attuale. Non ci deve essere necessariamente malafede: Fleur non è consapevole dei suoi sentimenti come poteva esserlo suo padre davanti al netto rifiuto di Irene.

Tuttavia, alla base degli errori di questi personaggi (errori che si ripercuotono negli anni) c’è una generale incomprensione dei sentimenti più nobili.

Autocensura o mancanza di autoconsapevolezza?

La risposta ha un valore relativo, se la cerchiamo per i personaggi del romanzo.

Assume invece un’importanza vitale se la cerchiamo per noi stessi.

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