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Il mandarino bianco (Jacques Baudouin)

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Romanzo sulla vita di Teodorico Pedrini, musicista (e pure prete, ma… a fasi alterne!).

Vissuto a cavallo tra il 1600 e il 1700, il Papa lo mandò in Cina per controllare i gesuiti (che stavano “cedendo” troppo su certe questioni ritualistiche) e con la speranza di convertire al cattolicesimo niente popò di meno che… l’imperatore Kanxi!

Bisogna dire che Pedrini era diventato prete in modo particolare: la sua più grande passione era la musica, ma senza appoggi nobiliari o ecclesiastici aveva poche possibilità di sfondare. Cedette alla tonaca solo dopo la morte della ragazza di cui si era innamorato (schiacciata dai cavalli durante il carnevale, per la cronaca).

Ovviamente, come in ogni avventura che si rispetti, per andare da Roma a Pechino, il Papa non gli ha fatto fare la strada più breve, via terra: lo ha mandato prima nel nord della Francia, a S. Malo; poi con la nave gli ha fatto attraversare lo stretto di Magellano, passare per il Cile, andare in Messico (dove stava per restare a causa di una meticcia) e poi ripartire per la Cina.

Il viaggio per arrivare in Cina è durato solo (!!) sette anni, anni molto difficili, considerando i pericoli dei viaggi a quei tempi.

A Pechino viene ricevuto dall’imperatore Kanxi soprattutto grazie alle sue capacità musicali, ed assurge fino alla carica di mandarino: onore tra gli onori!

Peccato che l’imperatore sia sotto l’influenza dei gesuiti…

I gesuiti nel 1600-1700 sono molto potenti perché dispongono di conoscenze matematiche ed astronomiche che sono utili all’imperatore.

Le fortune di Pedrini, così come sono salite alle stelle in maniera repentina, in maniera altrettanto repentina cadono nelle fogne.

Viene arrestato, picchiato e incarcerato con una scusa qualsiasi.

Durante la prigionia, pensa di continuo alla concubina e al figlio (ve l’avevo detto che era prete a fasi alterne), ma riflette anche sull’opportunità di costringere i cinesi ad adottare i riti romani: è davvero così necessario che rinuncino a prostrarsi davanti alle tavolette dei loro antenati?

Quando muore Kanxi e sale al trono il figlio, le fortune di Pedrini si risollevano.

Per poco: perché arriva il terremoto e lui resta vedovo.

Sono 317 pagine, dunque potete capire che il mio riassunto qui sopra è stato davvero succinto. Ho sorvolato su tutti gli intrighi di corte (sia occidentali che orientali) che hanno determinato il destino di Pedrini, e sull’inutilità dei suoi sforzi per convertire chicchessia in Cina.

Certo, l’autore non ha uno stile da eccelso scrittore, ma il libro si fa leggere grazie all’andamento episodico, che tralascia i tempi morti di una vita e allontana la noia.

E’ inoltre istruttivo vedere come l’atteggiamento e il pensiero di Pedrini cambino negli anni: all’inizio è convinto della sua missione e i suoi stessi discorsi sono pieni di ragionamenti sulla necessità di convertire i cinesi anche dal punto di vista ritualistico.

Alla fine, Pedrini quasi abbraccia le modalità con cui hanno agito i gesuiti e cerca (tramite interposta persona) di convincere il Papa che se la Chiesa non adotta le tesi gesuitiche, rischia di perdere la Cina per sempre.

Questo non si chiama essere voltagabbana.

La realtà cambia di continuo. Non cambiare idea (quando necessario), non è mancanza di coerenza, ma è sintomo di rigidità mentale.

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Tra loro (Richard Ford) @feltrinellied

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Lo scrittore americano Richard Ford racconta i suoi genitori.

Il libro è diviso in due parti, la prima dedicata a suo padre e la seconda a sua madre.

Entrambi erano persone semplici.

Suo padre veniva dalla campagna, era un tipo di poche parole, ultimo figlio di una vedova di marito suicida. Per tutta la sua vita lavorò come commesso viaggiatore in un’azienda produttrice di amido per bucato.

Sua madre lavorò in un negozietto, poi, dopo il matrimonio, viaggiò insieme al marito negli stati del Sud. Una volta nato Richard, divenne una casalinga a tutti gli effetti: era quello che facevano le donne in quegli anni.

Richard Ford non sa molto della vita dei suoi genitori prima della sua nascita: loro non parlavano molto. Non erano portati alla descrizione, al racconto, un po’ per pudore, un po’ per mancanza di preparazione.

Ho così tentato, meglio che potevo, di scrivere solo di ciò che fattualmente sapevo e non sapevo. I miei genitori, dopo tutto, non erano fatti di parole. Non erano strumenti letterari utilizzabili per evocare qualcosa di più grande.

Eppure Ford, scrittore, che di parole vive, ribadisce più volte di aver avuto un’infanzia felice.

E’ un libro di 132 pagine in cui succede molto poco, eppure quel poco è tutto quello che conta: un po’ come la vita di tutti noi.

Il mondo spesso non ci nota. La comprensione di questa realtà è stata un impulso cruciale per quasi tutto ciò che ho scritto in cinquant’anni.

Le vite dei nostri genitori, anche quelle avvolte dall’oscurità, sono per noi la prima, forte assicurazione che gli eventi umani contano.

Un libro sull’accettazione della vita. Quasi un suggerimento.

L’unica cosa che conta, quasi sempre, è quello che facciamo.

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I conti con me stesso (Indro Montanelli)

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Diari 1957-1978 – a cura di Sergio Romano

Questo è un diario: limite e grandezza del libro.

Grandezza, perché leggiamo cosa pensava davvero Montanelli di certi personaggi dello scenario italiano. Le sue critiche a Moravia, a Bocca, a molti politici del tempo; veniamo a sapere che Flaiano aveva una figlia con gravi problemi di salute, e che ammetteva di non riuscire a volerle bene.

Il libro è pieno di racconti di meschinerie, vanità, bugie, anche dello stesso Montanelli, che, con se stesso, si permette il lusso di essere sincero, cosa che non sempre fa in società o davanti agli schermi TV.

L’aspetto diaristico è una vantaggio anche perché ci fa capire come personaggi del genere gestissero il proprio entourage: mangiando. Montanelli va continuamente a cena, pranzo, colazione con giornalisti, politici, letterati.

Ma il diario è uno svantaggio per chi non è più ben addentro alle beghe politiche e giornalistiche di quegli anni: c’è una sfilza di nomi che oggi, a noi, dice poco o nulla. In particolare, ho davvero capito molto poco delle manovre di acquisto e controllo dei giornali del tempo.

Salvo alcuni passaggi, non è una lettura leggera.

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Evita (John Barnes)

IMG_20200307_155036[1]Evita Duarte era figlia illegittima di una poveraccia e di un proprietario di media ricchezza (già sposato) che le manteneva.

Da una vita fatta di stenti e ostracismo, Evita passò ad essere la first lady dell’Argentina, amata e osannata come una santa, tanto che molte famiglie tenevano in casa un altarino con la sua foto.

Come ha fatto?

La sua è stata un’ascesa graduale ma rapida: una donna, a quei tempi, in un paese machista come l’Argentina, non aveva vita facile. Ma Evita, pur essendo una chiavica come attrice, ha saputo scegliersi gli uomini: ognuno di loro ha aggiunto un gradino utile alla sua ascesa.

Finché ha incontrato Peròn.

Non ho visto il film con Madonna e Antonio Banderas, eppure ho il sospetto che sullo schermo i due siano stati un po’ edulcorati: non so se hanno parlato dell’antisemitismo e dei saluti fascisti, degli assalti alla folla indifesa e delle torture, del nepotismo e del controllo delle università, delle banche, dei sindacati, della corte suprema e dell’esercito, nonché delle condanne a morte senza regolare processo e dell’imbavagliamento della stampa e della radio.

Eppure, Peron ed Evita erano amati dallo strato più basso della popolazione, perché finché loro rimasero al potere, i poveri ottennero davvero un miglioramento dello stile di vita.

Evita veniva dalla povertà e non l’aveva dimenticata, anche se ora vestiva con capi firmati e gioielli dal valore incalcolabile. Quando incontrava le folle, chiedeva ai questuanti se avevano un biglietto dell’autobus per tornare a casa, o …se avevano una casa; e se la risposta era no, lei si prendeva davvero cura di loro.

Questa biografia mi è piaciuta molto: non solo per il personaggio, così multisfaccettato (vendicativo, anche), ma anche per il paese in cui ha vissuto, pieno di teste calde e senza mezze misure. Un esempio è l’odissea che il corpo mummificato di Evita ha dovuto passare prima di tornare in patria…

Una lettura ottima per l’8 marzo.

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L’ultimo ballo di Charlot (Fabio Stassi) @EdizioniSellerio

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Un romanzo sulla vita di Charlie Chaplin.

In esilio in Svizzera con la moglie e il figlio, Chaplin, ormai ultraottantenne, riceve la visita della morte: è arrivato il momento di seguirla. Lui riesce però a strapparle un accordo: se riuscirà a farla ridere, lei le concederà un altro anno di vita per veder crescere il figlio.

Quando il vecchio capisce che non riuscirà un’altra volta a gabbare la morte, inizia a scrivere una lettera al figlio e gli racconta di sé. Di come è nato in un circo da una madre con problemi mentali e da un padre alcolizzato, di come è arrivato negli Stati Uniti, delle decine e decine di lavori che ha fatto per sbarcare il lunario (anche l’imbalsamatore) e di come è approdato al cinema, l’invenzione del secolo.

Delle sue vicende giudiziarie col governo degli Stati Uniti e col Maccartismo, invece, ne parla in modo poco approfondito, ci scivola sopra, quasi fosse troppo doloroso.

Uno dei temi affrontati, è la ricerca della perfezione, che sembra fosse una delle ossessioni di Chaplin. Peccato che non abbia potuto sfruttarla per rubare qualche anno in più alla morte, ma, dopotutto, la perfezione non fa ridere.

Imparare a perdere la perfezione è troppo crudele e inseguirla per tutta la vita un gesto inutile e superbo.

Scritto con uno stile onirico ma preciso, è davvero un bel libro.

 

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Himmler (Bernard Michal) – Edizioni di Cremille

IMG_20200215_080230[1]L’aspettativa è la madre della delusione: mi aspettavo una biografia di Himmler e invece ho trovato un libro di storia del Fascismo.

Di Himmler, il “fedele Heinrich”, si parla solo di riflesso.

Le parti più personali sono la prefazione e la fine, che riporto sotto.

Dopo un tentativo di fuga, finita la guerra, Himmler si consegna agli inglesi ma durante la visita medica riesce a schiacciare la capsula di cianuro che aveva in bocca. A niente serve forare la lingua del prigioniero per tirargliela fuori impedendogli di inghiottire: troppo tardi.

Il 23 maggio il cadavere di colui che fu senza dubbio il più grande boia della Storia viene posto in una coperta dell’esercito e avvolto in una rete metallica legata con filo telefonico. Il sergente maggiore Austin, spazzino di mestiere, scava la tomba nelle vicinanze di Lunenburg. Mai, malgrado le proposte che gli vengono fatte in seguito, Edwin Austin svelerà dove giacciono i resti del fedele zio Heinrich.

Ma il resto del libro parla poco di Himmler. Di lui si conoscono le nefandezze e l’assoluta mancanza di partecipazione emotiva nei confronti degli ebrei; di lui si conosce l’assoluta fedeltà ad Hitler e la sua fede nella soluzione finale.

Ma su cosa pensava e sentiva davvero, non si sa quasi niente.

Il suo stesso diario era stringatissimo: Himmler era puntuale nel compilarlo ma si limitava ad avvenimenti di poche righe e raramente aggiungeva qualche pensiero personale.

Certo, però, che l’autore della biografia poteva sforzarsi un po’ di più… ad esempio, quando racconta del matrimonio di Himmler. Si parla per inciso della sua amante, ma niente di più.

Un saggio di ripasso sulla storia tedesca, ma troppo secco, poco appassionante.

 

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La misura del mondo – Daniel Kehlmann

Di solito non mi piacciono i libri ironici, ma stavolta mi sono divertita col romanzo sulle vite dei due scienziati Von Humboldt e Gauss.

Von Humboldt fondò la geografia moderna: di buona famiglia, viaggiò per il mondo, soprattutto nell’allora poco conosciuta America del Sud (siamo alla fine del Settecento), rischiando spesso la vita e trascinandosi dietro un assistente che lo seguì, docile, per anni tra caverne e montagne, vulcani e foreste vergini, veleni, cannibali e allucinazioni.

Humboldt aveva esaminato tutto quanto non avesse piedi e paura a sufficienza per scappare davanti a lui.

Gauss, invece, era di famiglia più modesta. Odiava spostarsi e viaggiare, adorava la madre e le donne. Era un genio: il suo cervello funzionava decisamente in modo diverso dagli altri, tanto che per lui tutti quanti erano troppo… lenti!

Lui e Von Humboldt non si conobbero da giovani, ma fin da giovani sentirono parlare l’uno dell’altro, fino a incontrarsi a Berlino nel 1828 per un congresso scientifico.

Entrambi erano ossessionati dalle proprie passioni, entrambi misuravano e misuravano tutto ciò che capitava sotto i loro occhi: dall’altezza delle colline al magnetismo, dalla larghezza dei fiumi alla lunghezza… delle rette.

Entrambi, dentro di sé, vedevano il futuro: erano capaci di immaginare qualcosa che ancora non c’era, e, se da un lato si rammaricavano di non poter far parte di quel futuro, dall’altro erano orgogliosi per il contributo che davano alla sua costruzione.

Ed entrambi, alla fine della propria vita restano perplessi dell’immensità del lavoro che ancora c’era da fare.

Le scene più umoristiche sono quelle in cui traspare, per entrambi, la totale indifferenza alle piccole magagne quotidiane che al resto dell’umanità sembrano problemi universali: una nave che fa naufragio, una moglie che partorisce, un Bonaparte che mette a ferro e fuoco l’Europa, un ricevimento a cui partecipano re e duchi, sono, per i due scienziati, elementi irrilevanti, se non, addirittura, seccature che si frappongono tra loro e i loro ragionamenti.

Voto: 3 stelle su 5.

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Balzac (Stefan Zweig)

Cento, duecento, trecento pagine: leggendo un libro, dimentichi il mondo reale ed entri in un mondo che non esiste per tre, quattro ore, e poi, con l’ultima riga, saluti con la manina e te ne vai, senza un minimo di riconoscenza.

E’ questo che facciamo di solito: sfruttiamo le capacità evocative e la potenza emotiva di un’opera per sentirci meglio, per diventare migliori (forse), e ci dimentichiamo totalmente di chi ha passato ore, giorni, mesi, anni a buttar giù riga dopo riga quell’opera, come se ci fosse tutto dovuto, come se la vita di uno scrittore fosse un accessorio della nostra.

Molti sostengono che un romanzo debba essere considerato un oggetto separato dal proprio creatore, e che le biografie degli autori non ci diano nulla di più di quello che le loro opera già ci offrono.

Io non sono d’accordo.

Quando leggo un’opera (soprattutto se è una grande opera) voglio capire chi era chi l’ha scritta e come ha fatto a diventare così bravo: cosa l’ha ispirato, impaurito, costretto.

Balzac è stato uno dei più importanti scrittori francesi; un genio letterario, secondo molti. Ma la genialità ha sempre il suo prezzo.

Balzac inizia a pagarlo appena nato: sua madre, semplicemente, non è interessata. Lo dà subito a balia, e poi lo affida a un contadino fino all’adolescenza, così, per non averlo tra i piedi. Balzac, nei suoi primi anni di vita, trascorre nella casa genitoriale sì e no qualche settimana.

Lui rimane un bambino timido e ubbidiente fino ai primi vent’anni quando, deciso a intraprendere la carriera letteraria, abbandona gli studi.

Brivido, terrore e raccapriccio: la famiglia, di solide basi borghesi, aborrisce fin da subito questa decisione balzana, ma, davanti alla testardaggine del giovanotto, accondiscende a mantenerlo (con molta parsimonia) per due anni, dandogli la possibilità, alla scadenza, di sfondare nell’empireo o di tornare con la coda tra le gambe a fare il notaio per tutta la vita.

Balzac, fino a quel momento, non ha mai scritto nulla.

E’ questo il bello: per la prima volta in vita sua si mette tutti contro perché si è incaponito a vivere di letteratura, ma non ha mai scritto poesie, né saggi né romanzi. E il primo giorno che si ritrova nel misero appartamento che sarà il suo rifugio sui tetti di Parigi, la sua prima domanda davanti a una risma di carta nuova di zecca è: e adesso che scrivo?

In un lampo di lucidità, si mette a studiare il mercato. Cosa si vende?

Così inizia a scrivere quello che vuole il mercato: romanzetti rosa, d’avventura, storici, ma anche saggi e opuscoletti, sul tipo di quello che potrebbe essere un odierno “come sposare un milionario”.

Scrive come un matto, di notte, con un ritmo che farebbe impallidire un Charlot alla catena di montaggio. Spesso fa il “negro”, scrive per altri, fa il ghost-writer. Scrive anche schifezze, sì: la priorità è guadagnare, stare sulle proprie gambe, liberarsi dall’influenza della famiglia, e poi, diventare ricco e famoso.

La massa di roba che Balzac ha scritto e pubblicato nei due anni 1830 e 1831, appena il suo nome comincia ad aver risonanza – novelle, romanzi brevi, articoli di giornali, storielle, considerazioni politiche – rimane senza esempio negli annali della letteratura.

E la sua vita sociale?

Per anni non riesce ad averne, a causa della mole di lavoro che tutto inghiotte.

Quando si mette in testa di doversi sposare (con una vedova, piacente e non stupida, non necessariamente troppo giovane ma, quel che importa, molto ricca) incarica addirittura la sorella di cercargli la donna giusta.

Avrà le sue avventure, negli anni (i figli illegittimi dovrebbero essere tre, forse più), ma finirà per sposare, poco prima di morire, la ricchissima contessa Hanska che, mentre lui è moribondo nella nuova casa coniugale, fa shopping e chiacchiera con la figlia di pizzi, merletti e gioielli.

Balzac è stato un vulcano di inventiva e un genio letterario ma… è stato felice?

Innanzitutto, sebbene ad un certo punto abbia iniziato a far molti soldi con la sua penna, è sempre stato perseguitato dai creditori: gli episodi comici nati dal bisogno di sfuggire a panettieri e sarti, non si contano. E’ arrivato al travestimento, alle porticine nascoste, ai nomi falsi sui contratti di affitto. Dire che aveva le mani bucate era un eufemismo.

E poi, riesce a infilarsi in una sfilza di guai dopo l’altra: fa fallire una stamperia, intenta un processo contro l’editore più importante della Francia (quello che oggi sarebbe un opinion-leader), fa fallire un giornale, gli prende fuoco un’officina, si fa otto giorni di prigione perché non vuol prestare servizio nella guardia nazionale, si fa infinocchiare in un affare di miniere in Sardegna, prende un granchio con la costruzione di una mega villa in campagna e fa un buco nell’acqua col teatro.

Insomma: una vita in affanno.

Una persona costantemente in corsa, in cerca di qualcosa che non riesce mai a trovare: ammirazione, supporto, simpatia, gloria, pace.

Amore.

Se la fine di un romanzo ce ne esplicita il senso, la fine di Balzac ci rivela che le velleità umane sono evanescenti come la polvere.

E, chiudendo questa biografia, un grazie lo dobbiamo anche a Stefan Zweig che, raccontandoci di Balzac, ci mette in guardia da noi stessi.

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Grey Owl – La storia di Gufo Grigio (Lovat Dickinson)

Negli anni Trenta, Gufo Grigio era un personaggio famoso in Inghilterra e nel Nordamerica. Indiano meticcio, raccoglieva migliaia di persone alle sue conferenze spiegando come aveva vissuto nelle foreste del Canada insieme alla moglie e a due cuccioli di castoro; aveva abbandonato il suo passato di cacciatore per dedicarsi alla tutela dell’ambiente e degli animali e aveva scritto in merito diversi libri e articoli

Alla diffusione del suo mito aveva partecipato anche Lovat Dickinson, l’autore della presente biografia: ne aveva pubblicato un libro, che era stato un bestseller e la migliore fonte di guadagno per la sua casa editrice, e ne aveva organizzato diverse conferenze.

Peccato che nel 1938, alla morte di Gufo Grigio, il palco rovinò fragorosamente: venne a galla la vera identità di Gugo Grigio, che in realtà era inglese di nascita, aveva ricevuto un’educazione classica (con tanto di lezioni di piano) e aveva vissuto fino ai 17 anni presso le due anziane zie.

Lovat Dickinson all’inizio rimase scioccato dalla notizia: si diede da fare per ripristinare quella che lui credeva fosse la verità, ma dopo attente ricerche, dovette soccombere e ammettere di aver preso un granchio.

Gufo Grigio era in realtà Archie Belaney, nato ad Hastings in Inghilterra nel 1888. A diciassette anni era approdato in Canada in cerca di libertà ed aveva imparato le tecniche di sopravvivenza e di caccia direttamente dai locali.

Come suo padre, soffriva di “claustrofobia domestica”: ebbe alcune mogli, alcune contemporaneamente, e non si può certo vantare il suo spirito genitoriale, visto che seminò figli in giro senza darsi molto pensiero del suo sostentamento. Amava le donne e gli piacevano i bambini, ma dopo un po’, sentiva il richiamo della libertà e se ne andava.

Ciò non toglie che era un personaggio singolare. Dedicatosi alla caccia al fine di vendere pellicce di animali, una volta sposatosi con Anahareo, di stirpe indiana, e dopo l’adozione di due cuccioli di castoro si accorge dello scempio compiuto dall’uomo sulla natura e abbandona il suo mestiere dedicandosi alla scrittura e alla tutela dell’ambiente e abbracciando l’idea di ripopolamento faunistico di zone naturali.

Era un tipaccio: era capace di esprimersi in un inglese stentato, solo per rinforzare l’immagine indiana che dava di sé, e non lesinava il ricorso al coltello e alle zuffe, tanto che ebbe diversi guai con la legge.

Però incantava le platee e i suoi libri venivano venduti e… letti. Forse per via del personaggio che aveva creato, forse per via del difficile tempo in cui vivevano (anni Trenta: la gente era stanca di destreggiarsi tra dittatori e insicurezza, aveva voglia di un’Arcadia, un’utopia che la distraesse dai problemi del momento).

Un uomo con poche luci e molte ombre, ma chi lo ha incontrato non l’ha più dimenticato.

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L’arcitaliano – Vita di Curzio Malaparte (Giordano Bruno Guerri)

Gli autori italiani sono troppo accademici e troppo bisognosi di mettere in mostra le loro approfondite ricerche (che denotano un lavorone, si intenda, ma spesso il metterle in mostra va a detrimento della leggibilità e della passione).

Se la storia di Malaparte fosse stata scritta da un autore anglosassone, la biografia sarebbe diventata un bestseller, perché i contenuti, nella vita di questo scrittore, non mancano.

Malaparte era figlio di un tedesco stabilitosi a Prato per lavoro alla fine dell’Ottocento. Il suo cognome era infatti Suckert, e lo cambiò nel 1925, desideroso di dichiararsi italiano a tutto tondo, anche anagraficamente.

Guerri, nell’introduzione, ringrazia tutti quelli che gli hanno permesso di ricostruire la vita di Malaparte ma non si dimentica che due personaggi molto noti hanno rifiutato di cooperare: Oriana Fallaci e Alberto Moravia; entrambi lo avevano conosciuto e frequentato.

Dei motivi della Fallaci non posso dir nulla, ma di Moravia ho letto recentemente un romanzo-intervista. Ecco cosa diceva di Malaparte:

(…) era talmente vanitoso…

Preferiva la gente di potere.

Non posso essere amico di uno scrittore che non è un buon scrittore.

Insomma, Moravia non lo stimava molto, diceva di lui che era un buon giornalista, non uno scrittore, come invece Malaparte amava definirsi.

Nonostante il Suckert fosse prodigo di elementi autobiografici nella sua opera e nelle interviste che rilasciava, in realtà ricostruire la sua vita è stato difficile perché ogni dettaglio che usciva dalla sua bocca era travisato e ricostruito a bella posta.

Malaparte ci teneva ad apparire: era malato di protagonismo, e non disdegnava né duelli (ne fece almeno 16, spesso per futili motivi) né avventure, sentimentali e di altro tipo, e fu spesso vittima di bastonature e incarcerazioni.

Quel poco che ho letto me lo fa vedere come un opportunista che si compiace di frequentare le fasce alte del potere, lasciandoci a volte confusi sulle sue trasmigrazioni politiche: inizia come repubblicano per poi diventare fascista e poi, sembra, comunista, ma le sue teorizzazioni sono sempre state un magma di motivazioni confuse.

Nei rapporti con Mussolini, ad esempio, Guerri dice:

Malaparte non perse mai di vista le debolezze dell’uomo bollandone spesso i difetti umani e i limiti intellettuali e politici (…).

Malaparte era troppo ironico, raffinato, beffardo e innamorato di se stesso per cadere ai piedi di quel demiurgo rozzo e ignorantello del quale vedeva bene, anzitutto, l’animo femminile. Un animo che Mussolini rivelava nel modo di cedere ai forti, a chi gli si presentasse a viso duro, nella sua innata timidezza a trattare a tu per tu con un altro uomo nel quale avvertisse un qualsiasi segno di superiorità. Capirlo del resto era fin troppo facile per Malaparte, che aveva identica natura.

Che sia questa personalità ambigua ed individualista a non farmi piacere il libro?

Sospesa la lettura a pag. 83 (su 310).

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