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Cercando Alaska (John Green)

Il romanzo è diviso in due parti ben distinte e per spiegarvele devo fare un po’ di spoiler.

Nella prima, Miles, detto Ciccio, inizia a frequentare il liceo di Culver Creek, Alabama. Qua fa la conoscenza del Colonnello, il suo compagno di stanza, del suo amico Takumi, e soprattutto di Alaska, di cui si innamora su due piedi, nonostante lei abbia un ragazzo fisso di cui si dice innamoratissima.

Tutta la prima parte parla di sigarette, scherzi goliardici, bevute, vomito, dialoghi senza capo né coda e le giornate sono scandite da un conto alla rovescia che è l’unico fattore che mi ha fatto continuare la lettura: volevo sapere cosa sarebbe successo il giorno zero.

Perché questa prima parte, nonostante ci siano accenni di interesse in Ciccio (che si impara a memoria tutte le ultime parole dei personaggi famosi) e Alaska (grande lettrice), la trama è scarsa. Devo ammettere che, a differenza di molti altri che hanno letto il libro, Alaska non mi stava molto simpatica: passava dalle domande filosofiche al vomito da bevute con una velocità da bipolare. E questo è l’effetto che ha voluto darne l’autore, ma lo si capisce solo dopo il giorno zero, e nel frattempo mi sono annoiata a leggere di questi che non avevano niente di meglio da fare nella vita che pensare a come comprarsi le sigarette e a dove nascondere le bottiglie di alcool.

Nel giorno zero, Alaska muore in un incidente stradale. Era ubriaca fradicia e dopo l’ennesima sbronza, gli amici l’avevano coperta mentre se ne andava dal campus di notte in auto per una destinazione ignota.

Qui i discorsi iniziano a farsi letterariamente interessanti (eh sì, Alaska doveva morire). Tutti i suoi amici più cari iniziano a soffrire di sensi di colpa per averla lasciata andar via in quelle condizioni. Sbigottiti, cercano una ragione.

Era talmente ubriaca da non vedere l’auto della polizia su cui si è sfracellata? O è stato un suicidio? Dove stava andando? Quali sono state le sue ultime parole?

Il fatto è che una ragione non la trovano. Non solo non c’è una ragione per la morte, ma non c’è neanche modo di capire davvero cosa frullasse per la testa di Alaska Young.

Young: giovane.

E’ un modo che l’autore adotta per dirci che i giovani non li possiamo capire, hanno troppa energia che si irradia in mille direzioni. E’ un modo per dirci che anche tra i giovani c’è l’incomprensione, la distanza. Non è un caso se Miles nota in più di un’occasione quanti strati di vestiti lo separano da un amico o dall’altro, e non è un caso se ammette di essere in cerca del suo grande Forse, un Forse che rimane tale anche alla fine del libro.

E’ un modo per ricordarci che anche da giovani si percepisce il labirinto in cui viviamo, che è una metafora per la sofferenza, e che anche da giovani, sebbene si sembri così spensierati, ci si chiede come si sfugge ad esso.

Non ci sono risposte a domande così antiche.

Forse una possibilità è lasciar andare: lasciarsi andare. Lasciar andare le persone che sono morte per rendersi conto, ancora una volta, di essere vivi.

Un’ultima nota.

Questo romanzo, come tanti altri che si rivolgono agli adolescenti, sembra dividere il mondo in giovani e vecchi.

In realtà, sono millenni che abitiamo questa terra, e i giovani, se non muoiono, si trasformano in vecchi. Voglio dire: sono le stesse persone, e da quando esistiamo c’è una sorta di vetro che divide gli uni dagli altri, come se fossero esseri di due pianeti diversi. Ognuna delle due categorie soffre di senso di superiorità, per un motivo o per l’altro, ma è inevitabile che un giovane, per quanta energia e intelligenza mostri nell’età d’oro, poi finisca col telecomando a guardarsi le serie di Netflix e a bersi le pubblicità di Gucci.

Il mondo va a catafascio, eppure in tutte le epoche ci sono state coorti di giovani pronti a cambiarlo.

E siamo ancora qui, con gli stessi problemi che vanno avanti da millenni.

Se i giovani fossero davvero la speranza dell’umanità, perché in tutti questi secoli non siamo mai riusciti a venirne fuori?

Le persone mature dovrebbero cercare di ricordarsi com’erano da giovani, e i giovani dovrebbero fare uno sforzo e ricordarsi che invecchieranno. Un po’ di rispetto da entrambe le parti non guasterebbe.

Chissà, magari un giorno potremmo perfino parlare di una possibile collaborazione…

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La morte del padre (Karl Ove Knausgard)

Un’autobiografia senza abbellimenti.

Karl Ove Knausgard, nato in Norvegia nel 1968, ci racconta della morte del padre. Il libro è diviso in due parti.

La prima si incentra sulla sua giovinezza, fino all’adolescenza. Non c’è niente di straordinario rispetto all’adolescenza di altri ragazzi della sua età.

Il padre è insegnante, ed è una figura presente ma sempre distante, di cui Karl ha paura. Da bambino cerca sempre di intuire com’è l’umore di quest’uomo, che spesso è sprezzante e sarcastico anche con i figli.

Il Karl adolescente ha una grande passione per la musica, anche se si accorge presto che non è questa l’arte che gli permetterà di diventare “speciale”. Vivrà un periodo di ribellione adolescenziale, come tanti ragazzi tra i tredici e i 16 anni, ma senza incidenti importanti.

La seconda parte del libro inizia proprio con la morte del padre e scopriamo che l’uomo ad un certo punto si era lasciato andare, era tornato dalla madre e aveva iniziato ad imbruttirsi bevendo.

Karl e il fratello vengono a sapere della sua morte quando ormai non lo frequentano più da anni. E’ morto sulla poltrona, forse per colpa del cuore, ed è stato sua madre (la nonna di Karl) a trovarlo.

I due ragazzi ormai sono due uomini: mollano tutto e vanno a casa della nonna. La trovano in condizioni indescrivibili: escrementi in salotto, mucchi di vestiti ammuffiti in lavanderia, odore di urina, una borsa piena di contanti sotto il letto.

Quello che ci colpisce è come reagisce Karl: odiava il padre, eppure non fa altro che piangere.

Riassumere così 505 pagine di biografia è quasi una bestemmia. La storia è povera di avvenimenti, e quelli che ci sono, sono abbastanza banali, non si discostano dalle esperienze che ognuno di noi può aver vissuto nella propria esperienza.

La seconda parte del libro, ad esempio, ruota attorno ai due fratelli che puliscono la casa della nonna e che cercano di passare del tempo con lei, nonostante il suo “rimbambimento” (parola della nonna).

Sono frequenti i flash back e le descrizioni sono molto minuziose.

Il libro è permeato da mood nordico, non sono per il freddo che Knausgard soffre durante molti degli episodi descritti (io, leggendo, ho “sofferto” il freddo anche nelle loro estati), ma anche perché i sentimenti non sono messi in piazza come potremmo fare noi, da Roma in giù (non sto facendo valutazioni moralistiche: è un dato di fatto).

Knausgard non descrive i propri sentimenti: racconta quello che fa.

Da questo punto di vista, l’ho sentito un po’ distante, pur ammirandone lo stile.

Una nota: sia lui che il fratello, se ne sono andati di casa giovanissimi, rispettivamente a 16 e a 17 anni. E la cosa è stata presa dai genitori come normalissima. Knausgard si trasferisce a vivere nella casa libera dei nonni per motivi pratici: non ne approfondisce neanche le ragioni, è una scelta normalissima, là.

Mi viene da pensare al confronto con noi, qui in Italia.

Se lasciassi che mio figlio si trasferisse nel paese qui accanto, a 20 km di distanza, solo per questioni pratiche (non servirebbe prendere l’autobus per andare a scuola), come verrei considerata dalle mamme?

Credo che mi manderebbero un prete per esorcizzarmi…

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Sulle madri lavoratrici: “La ragazza dell’altra riva” (Mitsuyo Kakuta)

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(Mi trovo nella fase delle letture orientali…)

Romanzo ambientato ai giorni nostri: i problemi incontrati dalle due protagoniste sono anche molto occidentali; ad essere diverso, però, è il modo in cui entrambe reagiscono a tali problemi, che è prettamente orientale.

Sayako, trentacinquenne, decide di rientrare nel mondo del lavoro, dopo esserne uscita a causa della nascita della figlia. Trova un posto in una ditta di pulizie: è un’attività estenuante e la sovrintendente è scorbutica, ma Sayako si accorge che uscire di casa le fa bene, parla di più con le persone, è più aperta ed ha più fiducia in se stessa.

Instaura inoltre un bel rapporto con la titolare, Aoi, sua coetanea, ma dal carattere molto più aperto e positivo del suo.

Ho trovato molto verosimile la descrizione delle difficoltà incontrate da Sayoko, una donna con famiglia a carico che decide di lavorare.

I familiari non la appoggiano: il marito, contrario al fatto che la moglie lavorasse fuori casa, fa commenti sprezzanti, senza mai alzare una mano per aiutare. La suocera critica in continuazione. Sayoko stessa prova molti sensi di colpa nei confronti della figlia.

Altri problemi incontrati da Sayoko sono simili ai nostri: le liste d’attesa agli asili, i rapporti con la suocera, i pettegolezzi sul posto di lavoro, i mariti che non aiutano, l’attenzione all’economia domestica, i gruppetti delle mamme, la preoccupazione che i figli non si integrino coi compagni…

Poi ci sono le difficoltà specificatamente giapponesi, ad esempio, il fenomeno del bullismo scolastico, che è spesso collegato a quello dei suicidi adolescenziali.

Molto “giapponese” è anche la reticenza a esprimere i propri sentimenti.

Aoi, ad esempio, ha alle spalle una storia pesante: da giovane si era molto legata a un’amichetta; assieme a lei aveva anche tentato il suicidio lanciandosi da un palazzo, ma dopo essere scampate entrambe alla morte, si sono perse di vista. Ebbene, Aoi non riesce ad esprimere la sofferenza che ha provato dopo la sparizione dell’amica. Se è costretta a scambiare due parole sull’argomento con Sayoko, lo fa scherzandoci su. Non si apre, è sulla difensiva, ha paura di soffrire ancora.

Anche in questo libro, come in quello di Yu Miri (v. post precedente), i protagonisti cercano di mostrarsi sempre allegri e di non far trapelare tristezza o rabbia. Tale ritrosia ostacola la costruzione di un vero rapporto tra due persone e, ovviamente, genera solitudine: è uno dei motivi per cui i suicidi giovanili sono così diffusi.

294 pagine, ma lette in tre giorni: non perché ci siano avventure all’Indiana Jones (non ci sono neanche gran colpi di scena), ma proprio per questo senso di “mal comune mezzo gaudio” che ho provato davanti alle esperienze di una mamma lavoratrice, di questa donna altamente insicura di sé che accetta il rischio di rimettersi in gioco, nonostante le difficoltà.

Dà speranza.

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La vita accanto – Mariapia Veladiano

Oggi nascono movimenti per i diritti degli immigrati, dei gay, delle donne, dei malati, degli animali abbandonati, degli alcolisti, dei tossicodipendenti; delle vittime della strada, della violenza domestica, dei vaccini, delle multinazionali… e via di seguito.

Ma nessuno ha mai pensato a dare il via a un movimento per i diritti dei brutti.

C’è un festival, il No-Bel, ma è più un’occasione conviviale, per ridere di se stessi e sdrammatizzare la propria situazione; situazione che, al di fuori delle luci clownesche, non fa ridere per niente ed è più diffusa di quello che si pensa.

Il brutto, nella nostra società, è sottoposto ad ostracismo, e non se ne parla. Non ne parla neanche chi ostracizza, perché costui si giustifica in mille modi: nessuno ammette di non aver assunto un tizio perché era brutto, di aver scelto una donna la posto di un’altra perché era più bella, di provare simpatie lasciandosi guidare dal solo criterio estetico.

Ma fidatevi: è così.

Ecco perché il libro della Veladiano è meritorio: perché ha per protagonista Rebecca una bambina brutta. Irrimediabilmente ed oggettivamente (sì, oggettivamente) brutta.

La bruttezza assume caratteristiche crudeli nell’età adolescenziale: quando sei al di sotto del livello accettabile, se ti va bene, ti ignorano. Se ti va male, ti usano come bersaglio di battute e aeroplanini.

La Veladiano ha una scrittura poetica, ma troppo paratattica, che a volte stanca. Si va avanti con la lettura solo perché si vuol scoprire cosa tiene nascosto la bellissima zia di Rebecca (qualcosa che non è così “tremendo” come annuncia la copertina) e se la bambina riuscirà, in qualche modo, a sfangarla nel mondo.

Ce la fa, in qualche modo. Ma è un ripiego. Un modo di vivere in sordina, dedicandosi a una passione, il piano, che su una persona bella avrebbe potuto aprire innumerevoli porte e portoni.

Ho trovato poco realista la reazione dei genitori dei compagni di classe di Rebecca: è verosimile che un gruppo di adulti si scagli in questo modo contro una bambina perché è brutta? La mia è una domanda reale, non retorica: soprattutto perché la scrittrice ammette, alla fine del libro, che “Rebecca” abita da qualche parte, in una via della provincia di Vicenza.

I brutti sono una categoria disagiata.

Festa delle donne? E perché non una festa dei brutti, allora? (tanto, come inutilità, saremmo sullo stesso piano)

VOTO: 4/5

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Eppure cadiamo felici, @Enricogaliano @garzantilibri

E poi dicono che la macchina del tempo non esiste…

Sì, che esiste, basta leggere un libro ben scritto che ti fa rimettere nei panni che indossavi a 15, 16, 17 anni. E’ quello che ha fatto Galiano, e se è stato inserito nella lista dei migliori insegnanti nel 2015, un motivo c’è: sa capire il casino che regna nella testa degli adolescenti. Ve lo ricordate? Io pensavo di essermelo dimenticato, e invece è ancora tutto là nella mia testa, mi è bastato leggere questo romanzo per rievocarlo.

C’erano passaggi in cui mi sembrava che stesse raccontando la mia storia. Non tanto negli eventi vissuti dalla protagonista, ma nelle sensazioni descritte.

La confusione.

L’incapacità di dare un nome a certi stati d’animo.

La paura dell’esclusione.

Il bisogno di mettere tutto in dubbio.

Se c’è una cosa in cui ho trovato poco verosimile il libro, è che Gioia, la protagonista, fino ai diciassette anni non si è ancora interessata ai maschi, non ci ha ancora pensato. Prendersi una cotta a 17 anni è un po’ tardino, per gli adolescenti contemporanei, anche se Gioia è un po’… alternativa.

E’ comunque un libro molto bello: ad un certo punto sfiora il genere thriller, ti fa venire mille dubbi su quello che credi di aver intuito, perché non capisci più se tra Gioia e Lo è stato vero amore o se Lo ha dei problemi grossi…

E poi… Alzi la mano chi non si è sentito così:

Il brutto della faccenda è che è praticamente scritto che oggi, quando sarà a casa, quando ormai sarà troppo tardi, le verrà fuori preciso e perfetto il discorso che avrebbe dovuto fare alla Batta e alle sue amiche per spegnerle definitivamente.

Oppure, ditemi se non concordate in pieno con questa frase:

Il migliore dei mondi possibili è quello dove nessuno ha bisogno di tradurre sé stesso, per farsi capire dagli altri.

Ecco cos’è questo libro: una DeLorean.

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Il senso di una fine, Julian Barnes @CasaLettori

Perché nessuno mi ha mai parlato di Julian Barnes?

Questo scrittore è bravissimo!

“Il senso di una fine” unisce il racconto di una bella storia a tutta una serie di piccole e grandi riflessioni su una marea di argomenti: il rapporto tra gioventù e vecchiaia, la memoria, la storia singolare e la Grande Storia, il tempo che può tornare indietro quando si aggancia ai ricordi, l’inconoscibilità del passato e delle persone…

La prima parte del libro racconta la gioventù di Tony Webster e della sua amicizia con Adrian, ragazzo intelligentissimo e, sotto certi aspetti, misterioso, con un senso della vita tutto suo, improntato alla filosofia e alla storia.

Eppure… eppure Adrian, che nel frattempo si era fidanzato insieme a Veronica, l’ex fidanzata di Tony, si suicida.

Fioccano le teorie sulle ragioni del gesto. Secondo alcuni, era troppo intelligente per vivere; secondo altri, ha portato all’estremo limite la sua teoria filosofica sulla vita.

La seconda parte del libro inizia con una lettera che comunica a Tony di esser stato nominato erede di 500 Sterline e di un documento. E da chi arriva questa eredità?

Il finale è spiazzante (anche se devo dire che qualche sospetto sulla madre di Veronica mi era venuto).

Al di là dell’antipatia che mi ha ispirato Veronica, la giovane fidanzata del protagonista (va bene fare la misteriosa, ma ad un certo punto bisogna anche spiegarsi!), i personaggi sono intriganti e hanno così tante sfaccettature che non puoi non immedesimarsi in una di queste.

E ora… alla ricerca di altri libri di Julian Barnes!

Più impari, meno temi. “Imparare” non in termini di studio accademico, ma di comprensione effettiva della vita.

Dobbiamo conoscere la storia di chi scrive la storia, se vogliamo comprendere la versione degli eventi che ci viene proposta.

 

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Ciò che inferno non è – Alessandro D’avenia

imageChe questo romanzo narra, pur con le dovute licenze poetiche, la storia di Padre Pino Puglisi ormai lo sanno tutti.

Che io mi innervosisco a leggere libri di mafia, no, non lo sanno tutti.

E non è colpa di D’Avenia: Sciascia mi faceva lo stesso effetto. Tutti sanno e nessuno parla. Ma come è possibile? Non funzionava la regola della maggioranza? Che l’unione fa la forza? Non è vero che se tutti si mettono insieme riescono a far fuori quei pochi mafiosi che terrorizzano e ammazzano? Sicuramente sono ingenua e non vivo in Sicilia, dunque non posso capire. Ma mi è bastato andare sull’isola l’estate scorsa e vedere l’immondezzaio che c’era in spiaggia: sono stati i mafiosi a buttare sulla sabbia gommoni, bambole rotte, bicchieri di carta, palloni sgonfi, pezzi di melone, calzini bucati ecc….??

Sto divagando, vado un pochino fuori di testa quando vedo l’ambiente rovinato per mancanza di senso civico. Torniamo al libro: il protagonista è il diciassettenne Federico, un liceale innamorato delle materie letterarie che si legge Petrarca nel tempo libero, e che per aiutare Padre Puglisi nel quartiere di Brancaccio finisce col procurarsi delle contusioni ed un occhio nero.

L’elemento di fantascienza è che Federico, che si è innamorato di una ragazza buona e bella del posto, rinuncia a una vacanza studio in Inghilterra. Questo l’ho trovato proprio fuori dal mondo. Non che si innamori di una buona e bella: che rinunci a una vacanza studio nel Regno Unito!

Però glielo perdono, all’autore, perché mi è piaciuto questa sua idea di scrivere un libro per dedicarlo a una vittima della mafia (gli perdono un po’ meno l’aver lavorato di fantasia con le regole per la donazione del sangue su “Bianca come il latte, rossa come il sangue”).

Certi passi lirici, a mio modesto parere, sono un po’ pesantini da leggere, ma è questo lo stile del momento, e molto spesso piace anche a me.

Molto spesso.

Non sempre.

 

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