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Gli anni della leggerezza (Elizabeth Jane Howard) @FaziEditore

Sussex, 1937. La famiglia Cazalet, come ogni anno, si riunisce nella casa di campagna dei capistipite, il generale e la duchessa.

Ci sono quattro figli: Hugh, il più vecchio, tornato dalla prima guerra mondiale senza la mano sinistra e con dei ricorrenti mal di testa; è sposato con Sybil, che è incinta, e hanno due figli.

Il secondo figlio è Edward: bello e affascinante, è sposato con Villy, ma ha una serie di amichette segrete, mentre la moglie si chiede in continuazione se ha fatto bene ad abbandonare la sua carriera da ballerina per dedicarsi al marito e ai figli.

Poi c’è Rachel, nubile, che vive con i genitori, ma che ama la sua amica Sid, un rapporto che è necessariamente tenuto nascosto a tutti.

Infine c’è Rupert, il più giovane e giocoso, vedovo e risposato con la giovanissima Zoe, che fatica a inserirsi nella famiglia e che è totalmente dedita alla propria bellezza.

Il generale, senza star tanto a parlarne, inizia a costruire e preparare alloggi per orfani e feriti di guerra, e tutta la famiglia è coinvolta nei lavori, sebbene i più giovani si dedichino anche ai loro svaghi estivi.

Le donne del romanzo sono come ci si aspetta siano le donne dell’epoca vittoriana: lavorano a maglia, organizzano la servitù, si preoccupano dell’entrata in società delle figlie e delle scuole dei figli. Non ci si aspetta da loro che provino desideri di carriera o che si interessino di politica.

Eppure desideri e curiosità inespresse covano sempre sotto l’aspetto esteriore.

Viene dato molto spazio ai più piccoli, alle loro litigate, alle loro domande e ai loro crucci: da Polly, la figlia di Hugh, che ha paura della guerra e non vuol sentirne parlare, a Louise che, un po’ più grande, si trova al centro di un’attenzione malsana da parte del padre, Edward.

Molti sentimenti e sensazioni, però, ci sono descritti dalla Howard senza che i protagonisti li esternino: non va bene piangere in pubblico, né parlar male di qualcuno, tanto meno nominare bisogni fisiologici; il sesso, poi, è un tabù che genera più curiosità che rassegnazione.

Un bel romanzo che ci presenta tante psicologie diverse.

E mi chiedo: la situazione della donna media è davvero tanto diversa oggi?

Quanta fatica fa ad affermarsi l’idea che il cognome della madre abbia la stessa dignità di quello del padre, ad esempio?

La necessità del cognome unico (paterno) viene giustificata ricorrendo alla praticità, alla tradizione, alla semplicità… e non ci si rende conto che la parità dei diritti passa anche attraverso la parola (anzi, spesso sono le donne a non rendersene conto).

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Figli della furia (Chris Kraus)

1973. In ospedale, l’ex agente segreto Koja racconta la sua vita a un giovane idealista con dei bulloni di titanio che gli tengono chiuso il cranio.

La storia inizia nella prima metà del Novecento a Riga, dove Koja e il fratello maggiore Hub vivevano col padre ritrattista e la madre baronessa russa. Adottano, per intercessione di una domestica, la piccola Ev di oscure origini.

Ev sposa Erhard, che inizia i fratelli al nazismo, che sembra essere l’unico sbocco per entrambi, quasi un’ancora di salvezza, soprattutto per Koja, che, diventato architetto, non riesce a mantenersi col suo lavoro. La passione di Hub per la causa, però, si scontra con la tiepida adesione del fratello e di Ev, che divorzia dal marito.

Ev sposa Hub, ma Koja scopre che lei è ebrea. Non glielo dice subito, aspetterà anni prima di farlo: e nel frattempo, di nascosto dal fratello, genererà con lei una figlia, Anna, fingendo che sia sua nipote.

Finita la guerra, Koja diventa una spia russa: lo fa per salvare Maja, una sua ex amante che lui aveva addestrato per uccidere Stalin e che è stata catturata dai rossi.

Quando Ev scopre di essere ebrea (nel frattempo la figlia è morta, non-vi-dico-come), vuole assolutamente trasferirsi in Israele e Koja la segue di malavoglia sotto falso nome. Ev incomincia a raccogliere materiale per incriminare nazisti (suo marito è uno di questi), senza preoccuparsi troppo che queste ricerche potrebbero portare alla morte anche Koja, che nel frattempo vive con lei come un marito vero e proprio.

Insomma…

E’ un libro pieno di avventura, di avvenimenti, doppi e tripli tradimenti, viaggi, omicidi, avvelenamenti, bugie, suicidi, braccia che saltano, pallottole incastrate nei cervelli…

Fin troppo.

Chris Kraus è famoso in Germania come regista e questo libro gli è costato dieci anni di vita. Tutto è iniziato quando ha scoperto che il nonno, a cui era molto legato, era stato un criminale di guerra: uno di quelli brutti, colpevole di migliaia di uccisioni. Ma in famiglia non se ne parlava, era un segreto ben custodito.

La necessità di far coincidere questa brutale immagine con il ricordo che il bambino viziato aveva del nonno, lo ha portato a scrivere questa storia, che si basa su fatti realmente avvenuti e che cita anche molti personaggi realmente esistiti.

E’ un libro che va al di là del significato personale e che in Germania ha suscitato scalpore, perché è andato a toccare argomenti sensibili, come la partecipazione di tanti, tantissimi ex nazisti al processo di ricostruzione postbellico.

E’ un romanzo da leggere sotto l’ombrellone se siete amanti del genere.

Ma che genere, poi?

Spionistico di sicuro, ma anche drammatico e storico.

Io ho qualche difficoltà con gli agenti segreti, non mi piace neanche 007. Non mi piacciono le mezze verità, le mezze frasi, i non detti, la gente che passa da una parte all’altra giustificandosi in tutti i modi possibili. Ma è un gusto personale.

Mi è piaciuta molto la parte in cui i due fratelli aderiscono al nazismo: è credibile.

Non mi è piaciuta Ev: è un personaggio che sembra volersi rendere troppo interessante, passa da un marito a un fratello all’altro fratello a uno psichiatra, senza farsi problemi, con una falsa ingenuità che dopo un po’ perde di verosimiglianza.

E’ un medico che lavora nei campi di concentramento ma non si parla di quello che ha visto là dentro, né si dice se ha fatto qualcosa di concreto là dentro, né si approfondisce cosa ha provato, là dentro. Quel periodo lo veniamo a conoscere solo per sentito dire, e invece sarebbe stato interessante, anche se, leggendo tutto attraverso gli occhi di Koja, è giusto che la nostra conoscenza resti parziale.

Uscito nel 2017 in Germania e nel 2021 in Italia (Sem).

Da leggere.

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Voglia di scappare? (“Scomparso a Venezia”, di Mario Bonfantini)

Sebbene il libro sia stato pubblicato nel 1972, l’ho trovato di un’attualità eccezionale.

La storia è ambientata nel 1938.

Il ragionier Liguori si trova a Venezia per una conferenza generale nel campo assicurativo, dato che lavora per una grossa compagnia del settore.

Il suo intervento attira l’attenzione e il plauso del “direttore supermega capo” che lo elogia e, quasi di striscio, gli suggerisce, prima di tornare a Milano, di andare a bere un bicchiere in una osteria tipica di Venezia.

Liguori ci va e… ci resta due mesi. Non solo all’osteria: conosce una donna, e si trasferisce a casa sua, pur non capendo bene come abbia fatto lei, vivendo sola, a tirare avanti senza entrate fisse. Il ragioniere, distinto signore, entra a far parte del mondo di Venezia: passeggia, fa l’amore con la Lina, passa pomeriggi e serate a parlare con i perdigiorno della città.

E gli piace.

Gli piace tanto. Non pensa più al lavoro che gli ha garantito prestigio e un non indifferente stile di vita, né alla moglie e alle figlie, a cui non si era mai davvero affezionato.

Lui, che era sempre stato uno studente e un impiegato modello e che aveva sempre soffocato ogni passione che non fosse in linea con le aspettative del suo ambiente, si affeziona agli amici di Venezia, poveri e ignoranti, ma sinceri e passionali.

Ma la pacchia non può durare in eterno, e per una pura coincidenza, viene scoperto e riportato a Milano, e qui c’è la delusione: non si ritrova più. Non percepisce più il senso del suo lavoro o della sua famiglia. Si accorge di essere la rotellina di un ingranaggio di cui non capisce l’utilità e ciononostante continua a svolgere il suo dovere, perché è quello che tutti si aspettano da lui.

Finché non scoppia la guerra, e con la trama mi fermo qui perché non voglio rovinarvi il finale.

Non mi aspettavo un romanzo così contemporaneo, che mi facesse percepire così bene il senso di inutilità che ti prende quando ti metti addosso un ruolo che è stato disegnato per te da altri.

La SNAG, le alte mansioni che egli era stato chiamato a ricoprirvi, quella sua attività di Ispettore Generale così universalmente apprezzata e lodata, citata abitualmente a modello, tutte cose che gli avevano offerto più d’una soddisfazione – se ne ricordava benissimo; ma meritavano veramente di assorbire del tutto la mente di un uomo e il suo animo, di figurare lo scopo d’una vita?

E’ un libro sul conformismo e sulla presa di coscienza di ciò che davvero ha valore nella vita.

Attualissimo.

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Diario di Hiroshima (Michihiko Hachiya)

Continuo la lettura di libri drammatici, basati su fatti realmente accaduti, e ambientati in Oriente durante la seconda guerra mondiale (per far dispetto a mio marito😹😂…).

Stavolta ho letto il diario del dottor Hachiya, direttore di un piccolo ospedale di Hiroshima. Inizia a scriverlo subito dopo l’attacco con la bomba atomica.

Quando la bomba cade, lui si trovava a casa sua in un momento di relax: ha visto una luce intensissima e poi tutto buio, e poi è cominciato il fuoco, ma lui e sua moglie sono riusciti a cavarsela nonostante le ferite. Appena ha potuto si è recato al suo ospedale, dove le condizioni erano disperate: molti dottori e infermiere erano morti o moriranno poco dopo l’attacco, e le medicine si sono subito rivelate insufficienti di fronte alla domanda.

Il dottore, dopo essersi rimesso, cerca di capire cosa è successo. Non si sa ancora nulla della bomba atomica e delle radiazioni, le informazioni sono vaghe e si cerca di curare i malati dai sintomi: bruciature, vomito, diarrea, inappetenza, emorragie interne ed esterne, perdita dei capelli…

Nella disgrazia generale, quando l’imperatore comunica via radio la resa senza condizioni, tutti, dopo la sorpresa iniziale (“Abbiamo perso? Non è possibile!“) si lasciano andare alla disperazione. E quando vengono a sapere che dei militari stanno per andare a visitare l’ospedale, il loro primo pensiero è di prendere la foto dell’imperatore e di portarla al castello per metterla al sicuro, perché se dovessero sfregiarla sarebbe la fine di tutto.

A ingarbugliare la situazione già difficile ci si mettono i burocrati: in alcuni ospedali di Hiroshima non si sa più dove mettere i cadaveri. Non si possono cremare perché manca il documento ufficiale e non ci sono gli ufficiali che possono emetterlo. Alcuni medici rischiano pene severe per aver effettuato autopsie (ma senza autopsia come facevano a capire cosa succedeva?).

Altri rischiano ripercussioni solo perché fotografano Hiroshima distrutta.

E poi ci sono le credenze dell’epoca.

Il tabacco, ad esempio: i medici fanno festa quando uno di loro riesce a procurare una scorta praticamente illimitata di sigarette. Fumano come ossessi, ad ogni ora.

E il cibo: sono dell’idea che chi mangia molto non muore, e allora cercano di imbottire di cibo chi inizia a perdere i capelli o a mostrare petecchie su tutto il corpo, nonostante la loro inappetenza.

Le storie di morte e sofferenza riportate nel diario si ripetono un po’ tutte, ma il dottore ci avvisa che ne ha raccontate solo alcune, di tante ascoltate.

Il resoconto finisce con una nota di speranza. 🐈

Gli ultimi occidentali che sono andati all’ospedale si sono dimostrati gentili e utili: i giapponesi questo non se lo aspettavano; “Ma guarda un po’, sono brava gente…” e questo ci fa capire a che lavaggio del cervello fossero stati sottoposti per far loro credere che il nemico fosse un mostro a sette teste.

Quando penso alla bontà di quei soldati, sono indotto a ritenere che i propositi di rivincita si possono dimenticare.

Ma quando un militare dice al dottore che i giapponesi devono prendersela col proprio Paese per aver causato tutto il disastro che li circonda, il dottore davvero non capisce: come si può odiare il proprio Paese? (Chiedilo a un italiano…)

Un’ultima cosa che mi ha colpito è la quantità di amici del dottor Hachiya: continua a ricevere visite di amici e lettere, tuti preoccupati della sua salute e di quella di sua moglie. Il tessuto sociale era davvero molto importante.

Lo stile di scrittura, nonostante il resoconto drammatico, è molto lineare, senza sbalzi passionali, come si conviene a un orientale.

Oltre al valore documentaristico, anche la prosa ci aiuta a ridimensionare i fatti. Il dottor Hachiya era buddista, dunque gli era stato insegnato fin da piccolo ad accettare la sofferenza come parte della vita quotidiana.

E anche questo libro, come il precedente, ci ricorda di guardare tutto in prospettiva: quello che è qui oggi, non sarà qui domani, e quello che c’era qui ieri, non è più qui oggi.

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L’impero del sole (J. G. Ballard)

In queste vacanze atipiche, dove non possiamo muoverci perché il ragazzino non è ancora in regola col green pass, avevo voglia di luoghi esotici, così ho optato per un libro ambientato in Cina, durante la seconda guerra mondiale.

Come dice mio marito, quando c’è da scegliere un film o un libro, non riesco a sceglierne uno comico. No davvero. Preferisco le storie drammatiche che hanno un fondo di verità, e questo ne ha uno bello corposo perché l’autore ha scritto un romanzo di fantasia ma basandosi su esperienze vissute in prima persona.

Jim è un undicenne che vive nella zona internazionale di Shanghai. E’ una vita fatta di feste, party, ricevimenti. Gli europei di Shanghai si muovono su lussuose auto con autista, hanno la piscina in casa, grandi saloni per ricevere gli ospiti, cuochi e altro personale di servizio, baby sitter e tutto quello che il glamour può richiamare alla mente.

E questa vita sfarzosa va avanti anche dopo il 1937, quando i giapponesi invadono la Cina e instaurano il loro governo fantoccio: questi ricchi stranieri continuano a fare la loro vita di feste e risate all’interno della zona internazionale, anche se la popolazione cinese sta morendo di fame e il fiume Yangtze è pieno di bare che galleggiano.

Quando però i giapponesi attaccano Pearl Harbour e, automaticamente, gli europei diventano loro nemici, tutto cambia.

Jim si ritrova solo. I genitori, e tutti gli europei che conosceva, sono spariti. Il ragazzino, nei giorni che seguono, gironzola un po’ per le case dei vicini e degli amici, ma è difficile trovare vero cibo: abbondano solo i salatini e il seltz. Decide così di consegnarsi ai giapponesi, dei quali ha un’altissima opinione (molto più alta di quella che nutre nei confronti dei suoi connazionali inglesi).

Non è facile per lui farsi rinchiudere in un campo di concentramento, ma alla fine ci riesce: finisce nel campo di Lunghua, dove trova altri europei ed americani. Degli inglesi continua ad avere una cattiva opinione: li trova lamentosi, pigri, nazionalisti.

Jim riesce a entrare nelle logiche del campo e, facendosi amici una serie di adulti tra guardie e prigionieri, riesce a non morire di fame, anche se le condizioni sono davvero tragiche. Sono così denutriti e malati che non hanno neanche la forza di scavare buche profonde per i morti, e nel cimitero quando piove affiorano pezzi di cadavere.

Ma nonostante tutto, Jim prova verso i giapponesi e il campo di prigionia una sorta di timore reverenziale. Solo nel campo si sente al sicuro, e a scappare non ci pensa proprio.

Col passare del tempo (trascorrerà tre anni a Lunghua), il campo diventa addirittura meta per molti contadini cinesi che muoiono di fame: una orda di visi smunti si accalca alle porte nella speranza che dentro alle recinzioni ci sia qualcosa da mangiare. Sia i prigionieri che le guardie hanno il loro daffare nel tenere alla larga questi poveracci che restano davanti alle reti finché non se li porta via la morte.

Vediamo scene raccapriccianti attraverso gli occhi di Jim che le filtra a modo suo: il campo è una protezione, i giapponesi sono valorosi, il dottore che lo aiuta è infido, i suoi genitori, semplicemente, non ci sono più.

Quando la guerra finisce, queste lenti distorte continuano ad agire e Jim si troverà più volte ad uscire dal campo e a rientrarvi perché, là fuori, non è sicuro.

Ecco: lungi da deprimerci, racconti del genere dovrebbero farci il dono della prospettiva.

Siamo qui, con i nostri lavoretti, le nostre casette, i nostri piatti pieni, e ci lamentiamo che non si può andare in vacanza a Tenerife, che Netflix non offre una buona scelta di film, che senza green pass non si può mangiare all’interno del ristorante e non si può andare al cinema; che gli impiegati delle poste sono maleducati, che fa troppo caldo, che il vicino di casa fa troppe domande… ecc…

Almeno per la durata della lettura di libri così, è meglio mettere i nostri piccoli crucci nel cassetto.

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Sbucciando la cipolla (Günter Grass) @EinaudiEditore

Ammetto subito che lo ho sospeso due volte prima di finirlo: Grass usa una prosa molto ipotattica, piena di metafore elaborate che si ripetono e vengono approfondite nel corso del libro. Non una prosa semplice, insomma, e tutto il mio rispetto va al traduttore Claudio Gross, morto l’anno scorso, per il lavoro che ha compiuto su questo testo (se è difficile da leggere in italiano, non oso pensare cosa sia in tedesco).

Grass ha preso il premio Nobel per la letteratura nel 1999. Questo lo sapevo. Quello che non sapevo è che Grass faceva parte delle SS.

Certo, non ci è rimasto a lungo, e, va detto, aveva 16 anni quando ci è entrato: va anche detto che il suo primo battesimo del fuoco gli ha inflitto una tale dose di paura che si è fatto la pipì addosso e ha avuto gli incubi per anni, dopo la guerra.

E’ comunque interessante leggere come Grass dopo quasi sessant’anni cerchi di capire le ragioni di quell’appartenenza (soprattutto alla luce della sua successiva militanza nella sinistra tedesca) ma senza cercare giustificazioni postume. Va sottolineato però, che nel tentativo di prendere le distanze dal suo “io” di allora, quando parla del se stesso di quel periodo spesso lo fa in terza persona.

Salvatosi un paio di volte per puro caso, quando la guerra finisce Grass si ritrova senza arte né parte: non ha finito la scuola, non sa che fine abbia fatto la sua famiglia, non sa dove andare.

E così, il futuro premio Nobel, comincia una vita vagabonda, rimanendo per anni ospite della Caritas.

Nonostante la sua aspirazione a diventare un artista, prima di iscriversi ad una vera e propria accademia fa un po’ di tutto, dal lavoro in miniera allo scalpellino. In questi anni, tre sono i tipi di fame che lo affliggono: la fame vera e propria, la fame di donne e la fame d’arte.

Il libro termina quando, dopo vari tentativi di darsi alla scultura, Grass inizia a guadagnare i primi soldi con l’attività letteraria.

Da questa autobiografia si capisce come la sua vita sia spesso stata travasata nei suoi romanzi: spesso i personaggi dei suoi libri, tratti dalla realtà, si sovrappongono ai ricordi, distorcendoli.

Non è una lettura semplice, dicevo, ma se arrivate alla fine ne varrà comunque la pena.

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Una morte irregolare – Béatrix Beck

 

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Barny, una giovane intellettuale, ha sposato Chaim, apolide di origini russe, ebreo e militante comunista che viene arruolato nell’esercito francese. Hanno una figlia di pochi anni, France. Lei e la figlia vivono dei lavoretti sporadici che Barny riesce a trovare nel paesetto alpino dove aspettano il marito e padre.

Ma un giorno arriva la fatidica lettera con cui si comunica a Barny che Chaim è morto.

Come?

Non si sa. Ma di sicuro è morto senza che la Francia gli riconoscesse i suoi onori, tanto che Barny e sua figlia devono affrontare diversi problemi burocratici.

Il libretto è breve, appena 119 pagine. In queste poche pagine ruota tutto attorno alle difficoltà economiche di Barny, a pochi personaggi che la aiutano o la criticano, e al mistero della morte del marito.

Verrà svelato, alla fine, questo mistero, ma ci resterà sempre il dubbio: un ebreo apolide e comunista che non è riuscito ad integrarsi, nonostante i suoi sforzi, è davvero morto in quel modo?

Non è un libro avventuroso, e neanche dal punto di vista psicologico l’ho trovato molto avvincente.

Forse non l’ho capito io, che ho dovuto spesso ricorrere al dizionario per tradurre dal francese. Se sono arrivata alla fine è solo perché mi ero imposta di finire un libro in lingua per fare esercizio!!

Il libro è parzialmente autobiografico: anche la Beck ha sposato un uomo che è stato ucciso in guerra; con la vedovanza, ha conosciuto dei giorni piuttosto difficili, rassegnandosi ad accettare i lavori che le venivano offerti nel dopoguerra (operaia, modella in una scuola di disegno, operaia a domicilio, impiegata in una scuola per corrispondenza, cameriera…).

Questo breve romanzo è stato pubblicato dalla Gallimard nel 1950.

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Exodus (Leon Uris) – 1° volume

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Per raccogliere il materiale necessario a questo libro ho percorso circa ottantamila chilometri. I metri di nastro inciso, il numero di interviste, le tonnellate di libri consultati, la quantità di pellicola impressionata e di dollari spesi raggiungono cifre non meno impressionanti.

Ecco cosa dichiara Leon Uris nella prefazione del libro, uscito nel 1958.

Exodus è il nome di una vecchia nave che – una volta finita la seconda guerra mondiale – porta 300 bambini in Palestina. La nave del romanzo, che si ispira a una vicenda realmente accaduta, parte da Cipro, dove gli ebrei scampati allo sterminio hitleriano erano rinchiusi in campi inglesi!

Bisogna ricordare che gli inglesi avevano il Mandato sulla Palestina ed erano contrari all’immigrazione ebraica, perché questo li avrebbe messi in difficoltà con le popolazioni arabe di cui erano, storicamente, alleati.

Pensate: centinaia e centinaia di persone sfuggite dalle camere a gas europee che credono di essere in salvo e invece si ritrovano di nuovo rinchiuse in campi recintati!

I personaggi del romanzo sono un’invenzione letteraria, ma necessariamente entrano in gioco molti nomi di vere personalità storiche (Ben Gurion, Churchill, gli zar russi, i muftì…).

I protagonisti principali sono pochi: uno è Arì Ben Canaan, ebreo palestinese ed ex soldato inglese, con un passato di lotte e dolore.

Poi c’è Kitty, una giovane vedova infermiera che si dedica ai bambini ebrei e che decide di andare in Palestina per seguire una ragazza che le ricorda la figlia morta a pochi anni di età.

Altri personaggi sono meno delineati dal punto di vista psicologico, ma sono necessari perché, attraverso la loro storia e la storia dei loro genitori, nonni, avi, viene narrata la storia ebraica nel mondo, dalla distruzione del Tempio fino ai giorni della vicenda.

Sono digressioni lunghe molte pagine, a volte sembra di leggere un libro di storia, e, considerando le origini ebraiche dell’autore, ci si chiede quanto obiettive siano (ma… esistono libri di storia obiettivi?).

Il romanzo, appena uscito, è diventato subito un bestseller tradotto in decine di lingue, eppure il gotha letterario lo ha molto criticato.

Stando ai critici, il romanzo soffre di difetti sia letterari che contenutistici.

Non sono un’esperta, ma neanche io credo di aver tenuto nelle mani una grande opera d’arte. Il registro cambia spesso e in modo repentino, ci sono troppi punti esclamativi, è troppo simile a una sceneggiatura cinematografica (Uris era anche sceneggiatore, e infatti questo romanzo è diventato un film diretto da Otto Preminger, starring Paul Newman).

Per quanto riguarda i contenuti, molti hanno accusato Uris di propaganda antipalestinese. 

Dal mio punto di vista, sì, è vero che i musulmani sono spesso identificati come ladri, ignoranti e violenti, ma stiamo parlando di tribù seminomadi che attaccavano i neo-insediati ebrei: in un romanzo di poche pretese psicologiche è “normale” che si prendano le parti dei protagonisti che devono affrontare le difficoltà per arrivare al loro scopo (una nazione ebraica).

Tanto più che certi musulmani diventano amici di Ben Arì e di suo padre, dunque la caratterizzazione negativa non mi sembra così generalizzata.

Nel romanzo si parla molto peggio degli inglesi! Quelli sì che erano i veri traditori!

Il primo volume finisce con l’Exodus che, dopo aver gabbato gli inglesi facendo leva sull’opinione pubblica mondiale, arriva sulle coste della Palestina.

Per ora mi fermo al primo volume. Seppure interessante dal punto di vista storico, secondo me è un po’ debole sulle caratterizzazioni psicologiche.

Prendiamo Kitty, ad esempio: resta vedova dell’uomo tanto amato e poi le muore la figlioletta. Pochi anni dopo, incontra una adolescente nel campo di internamento inglese a Cipro e scatta il colpo di fulmine, e addirittura pensa di adottarla… il passaggio è troppo rapido e poco verosimile.

Uris è più efficace quando allarga lo sguardo, quando, attraverso i lunghi flash back, ti fa capire come è stato trattato il popolo ebraico nei secoli, e soprattutto come i governanti dei vari stati, per motivi di volta in volta diversi, siano riusciti a trasformare gli ebrei in capri espiatori.

Una cosa ho notato: è più facile instillare l’odio verso certe minoranze sfruttando il senso di inferiorità delle popolazioni. Chi si sente escluso, chi si sente impotente, chi crede (o è) vittima di ingiustizie… tutta questa gente ha bisogno di qualcuno su cui sfogarsi.

Una volta erano gli ebrei.

E oggi?

Gente frustrata ce n’è a iosa, guardate i social!

Basta raccontare una storia in modo leggermente diverso e il capro espiatorio… è qui!

 

 

 

 

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Mediterraneo: non sono femminista, ma…

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Non apprezzo molto il cinema italiano: gesticolano troppo e le intonazione nei dialoghi sono sfasate rispetto ai contenuti (vuoi mettere la maestria dei doppiatori italiani??). Ma essendo in quarantena, non possiamo uscire a prendere DVD nuovi, e allora ho ripiegato su un film visto molti anni fa e che avevo dimenticato.

Breve riassunto: un gruppo raffazzonato di militari italiani viene mandato in un’isoletta greca nel 1941. Per una serie di eventi, per tre anni rimangono isolati dal mondo e perdono completamente la cognizione di cosa sta succedendo oltre il mare.

Il tema è la fuga, un gesto spesso criticato, bollato come codardia: ma come, di là del mare succede di tutto, c’è fermento, c’è la possibilità di cambiare il mondo, e tu stai qui a crogiolarti al sole e a ballare come un greco?

Tra i vari personaggi, due fratelli vengono lasciati in cima a un monte per scopi di osservazione. Trovano una pastorella e scoprono il sesso a tre. Tutto molto allegro e senza sensi di colpa.

Ci sta.

Quello che non ci sta, è la scena finale.

Quando gli italiani se ne vanno.

La pastorella, dal molo, li saluta allegra, ricambiata, reggendosi la pancia.

Cioè: questi due (non si sa chi l’abbia messa incinta) se ne vanno, salutano, mandano baci, “ti amo” ecc. ecc… e lei fa lo stesso.

Quanta allegria, quanti sorrisi, qualche lacrimuccia.

Solo che la tipa è rimasta con un figlio, in una società patriarcale degli anni quaranta, e senza marito.

Salvatores: è credibile tutta questa allegria? O non è invece più verosimile che la pastorella sia stigmatizzata e bollata come poco di buono da tutta la comunità? Che idea si fa la gente dopo aver visto una scena del genere? Che è bello essere ragazza madre? Che gli uomini fanno quello che devono fare e poi chi s’è visto s’è visto?

Oscar come miglior film straniero 1992?

Ma vaffanc…

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Di acqua e di vento (Ang Chin Geok)

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Adoro leggere, in tempi burrascosi, delle disgrazie altrui. Mi fa sentire fortunata.

In questo romanzo, di disgrazie ce ne sono per tutti i… gusti. Dalle angherie della suocera insoddisfatta della propria situazione, alla guerra, alla fame, agli aborti, agli stupri, alle morti per annegamento.

La storia è raccontata da tre donne di altrettante generazioni, e si svolge tra Singapore e l’Australia.

Attraverso di loro vediamo la storia di Singapore, certo, ma soprattutto ci concentriamo sulla vita privata femminile.

“Privata” per modo di dire: le donne orientali vivono nella comunità, non ci sono “stanze tutte per sé”, ma nei decenni nei quali si svolge la vicenda delle tre protagoniste, le regole sociali a cui sono sottoposte sono cambiate nel tempo e nello spazio.

(…) la sottomissione delle donne era al centro della vita cinese, della sua struttura e continuità.

In tutte e tre le generazioni, tuttavia, insieme all’evoluzione dei diritti femminili, coesiste una insoddisfazione di base, o, meglio, un elemento disturbante: l’Hong Shui, il destino, una concatenazione di eventi a cui non ci si può sottrarre.

A detta della famiglia delle tre donne, l’Hong Shui negativo è dovuto alla scelta di un avo di mettersi con una donna di un paese diverso: tutte le disgrazie che accadranno saranno dovute a questa scelta infausta; ciononostante, nessuna delle tre si arrenderà docilmente davanti ai colpi del destino.

La misura di quanto ci siamo resi utili sulla terra, durante le nostre brevi vite, forse sta nel vuoto che lasciamo morendo.

Il destino, in questo romanzo, si affronta con determinazione e… con la superstizione. Sono innumerevoli, nel romanzo, le occasioni in cui si ricorre alla magia, agli spiriti, alle preghiere: ogni gesto quotidiano deve essere svolto in una certa maniera per non attirare gli spiriti malvagi.

A me è piaciuto molto: per il tempo che è durata la lettura, sono stata dall’altra parte del mondo.

4 stelle su 5.

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