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Die Totdenkerin (Fran Dorf)

Uno psicothriller non ancora tradotto in italiano.

Laura Wade è una bellissima donna che proviene da una famiglia molto ricca. Nessuno può immaginare che possa commettere un omicidio, eppure, questa signora un giorno si presenta al commissariato autodenunciandosi per l’omicidio di un’amica di famiglia.

Il dettaglio che la rende sospetta è che lei conosce il numero di coltellate con cui la vittima è stata sfigurata al volto: dieci. Nessun altro lo sapeva.

Ciononostante, una testimone oculare dell’omicidio, continua a dire che l’assassino era un uomo: indossava una maschera, ma era sicuramente un uomo. E allora? Forse Laura Wade ha incaricato un killer di uccidere una presunta rivale?

La cosa strana è che Laura Wade insiste nel dire di aver ucciso la donna a… distanza. Col pensiero.

Dice che il suo pensiero si tramuta sempre in realtà, anche se lei a volte non lo desidera.

Ovviamente, il detective Culligan, incaricato delle indagini, la manda subito da uno psicologo per capire se la signora sta dando di matto o se c’è del vero in quello che dice.

La verità, che come ogni thriller anglosassone che si rispetti, viene rivelata solo negli ultimi due capitoli, è molto diversa.

La personalità di Laura Wade resta poco credibile: piange spesso, è lagnosa all’inverosimile, sottomessa a tutti come un cane al padrone. In più punti nel libro si ripete quando sia brava come madre, eppure i figli li nomina pochissimo e, nel corso della vicenda, sono quasi inesistenti.

E’ uno psycothriller: pochissima azione, solo una scena all’inizio e una alla fine. Tutto il libro consiste in pensieri e dialoghi dallo psicanalista (non credo sia un caso che Fran Dorf, l’autrice, abbia studiato psicologia all’università di New York).

L’ho finito solo perché il tedesco – essendo tradotto dall’inglese e trattandosi di un romanzo non molto complesso – era alla mia portata. Se fosse stato in italiano, non avrebbe avuto molte attrattive

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Mentre muori (Tammy Cohen)

Continua la mia lettura di libri in tedesco per tenere in forma il lessico, visto che nel mio lavoro i vocaboli vertono tutti su mobili e pezzi di ricambio.

“Mentre muori” non mi risulta sia ancora stato tradotto in Italia.

E’ ambientato in Inghilterra, paese di origine dell’autrice.

La prima parte è il resoconto di Jessica Gold, scritto mentre sta morendo di avvelenamento da tallio in un appartamento dove è stata rinchiusa dodici giorni con il sociopatico Dominic Lacey.

Ci racconta che lui l’ha abbordata in un centro commerciale, dove lei stava facendo gli ultimi acquisti per Natale. L’ha costretta a mangiare carne (lei vegetariana) e quantità abnormi di cibo; l’ha costretta a dormire in una cuccia per cani; l’ha legata con delle manette; l’ha costretta a scartare un regalo al giorno, e ogni pacchetto conteneva una testimonianza del passato di Dominic.

Jessica scopre così che Dominic è stato sposato due volte: la prima, con una donna ricchissima e sottomessa che gli ha dato un figlio, e la seconda volta con Natalie, una stilista molto sicura di sé.

Il primo matrimonio è finito perché la moglie si è impiccata dopo aver ucciso il figlio di diciotto mesi, e il secondo è in uno stadio incerto, visto che Natalie è scomparsa, probabilmente uccisa da lui (visto che nell’appartamento troveranno pennelli fatti coi suoi capelli e candele fatte col suo grasso).

Ma Dominic non conosce Jessica: non sa che lei sente le voci dei morti. (Qui c’è un difetto del libro, a mio parere: queste voci in realtà non raccontano niente, sono brevi pianti o invocazioni, ma non spiegano nulla se prese a sole.)

Jessica riesce a rendere Dominic inoffensivo, ma la dose di tallio che ha in corpo l’ha resa così debole che non è sicura di riuscire a sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi, e dunque inizia a scrivere il resoconto della vicenda per spiegare cosa è successo.

La seconda parte del libro inizia in ospedale, dove Jessica è ricoverata, e qui si ribalta tutto.

Solo leggendo la seconda parte del romanzo ho capito certi aspetti della prima parte che mi sembravano doppioni di altri thriller già letti.

Jessica, da come la racconta lei, nell’appartamento di Dominic si è sempre comportata in modo molto remissivo, non ha mai tentato di aggredirlo o di scappare sul serio, non ha mai cercato di convincerlo a non farle del male; e lui è sempre stato il classico cattivo che fa battute sarcastiche e che ha sbalzi improvvisi di umore. Ma è Jessica che racconta…

L’altra protagonista del libro è la detective Kim, che sta vivendo una crisi famigliare perché il marito vuole lasciarla a causa del suo lavoro alla centrale, che le fagocita ogni momento libero e che le fa trascurare i due figli. Anche qui, all’inizio non capivo l’insistenza sulla vita famigliare di questa detective: in realtà alla fine si capirà che è necessaria per giustificare una decisione importante.

Non diventerà un classico della letteratura, ma è una buona lettura per l’estate.

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Il valzer dell’impiccato (Jeffery Deaver)

Lo avete visto “Il Collezionista di Ossa” (o avete letto il libro)? Quello dove Denzel Washington è un criminologo disabile bloccato a letto e deve indagare su un serial killer insieme alla poliziotta Angelina Jolie?

Ecco, “Il Valzer dell’impiccato” continua quella storia: i due stanno per sposarsi e stanno pensando ai preparativi, quando entra in scena un altro serial killer, il Compositore, che lascia sul luogo del rapimento della sua vittima un cappio fatto con corde di strumenti musicali.

Di diverso, c’è l’ambientazione: stavolta l’assassino scappa a Napoli ed entrano in scena diversi personaggi delle forze dell’ordine italiane.

Jeffery Deaver ci avvisa fin dall’inizio che non andrà per il sottile in merito alle procedure e sedi delle nostre forze di polizia, ma, sebbene fossi stata avvisata, non pensavo mi desse così fastidio incappare in certe semplificazioni.

Soprattutto mi hanno dato fastidio alcuni luoghi comuni, seppur velati, sui carabinieri e sul carattere italiano in generale. Credo che Jeffery Deaver fosse animato dalle migliori intenzioni: conosce il nostro paese, non voleva offendere nessuno. E’ però prima di tutto uno scrittore/imprenditore, che non poteva non fare l’occhiolino al suo bacino di utenza statunitense, che certe aspettative le vuol vedere realizzate e che è molto più ampio dello sparuto gruppo di lettori italiani.

Se da un lato non mi piace che si parli delle forze armate italiane come un coacervo di rami intricati e in lotta tra loro, dall’altro mi è piaciuta l’entrata in campo della guardia forestale Benelli che all’inizio sembra sulle tracce di un pericoloso criminale e alla fine si scopre che sta cercando un semplice contraffattore di tartufi.

Questo però non è bastato a convincermi a continuare la lettura.

Sospendo a pag. 92 (su 503)

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Un diario per raccogliere indizi su un assassinio

Sto leggendo “Tutto ciò che resta” di T. R. Richmond (uno pseudonimo che nasconde un giornalista inglese di cui ignoro il vero nome).

Alice Salmon, giovane giornalista allegra e benvoluta da tutti, muore in una gelida sera di febbraio cadendo in un fiume.

Sembra un suicidio.

Un suo ex professore decide di raccogliere ogni tipo di testimonianza su di lei: articoli di giornale, cartoline, blog, email…

La storia, dunque, viene raccontata da fonti diversissime tra loro, ma più di tutto attraverso delle lettere che il professore scrive a un suo amico, attraverso mail tra lui e la madre di Alice, e attraverso spezzoni del diario della ragazza.

Riporto qua alcuni passaggi in cui Alice spiega come ha iniziato a scrivere il diario, dopo un tentativo di suicidio di cui si è subito pentita:

Questa è sta la prima pagina del mio diario, e ben presto scrivere si è trasformato in una dipendenza. Scrivevo nei momenti liberi, in treno, in autobus, davanti a Pop Idol e quando non riuscivo a dormire.

(…) Scrivevo ovunque e custodivo con estrema religiosità i miei sfoghi: i cartacei dentro scatole e i digitali nelle chiavette USB.

Sapevo bene che nessuno avrebbe provato interesse per il mio diario e che chiunque l’avesse letto avrebbe concluso che ero una folle delirante, ma non me ne importava. Riuscivo a respirare.

Mi colpiscono le sincronicità dei libri: oggi pomeriggio, infatti, prima di leggere questo passaggio, dopo anni che non li prendevo in mano, ho perso un’ora a leggere i miei vecchi diari. Quinta superiore, primi anni dell’università… E un’ora è volata via senza che me ne accorgessi.

Mi sono ritrovata a rivivere le sensazioni di venticinque anni fa e a ricordare eventi e frasi che avevo dimenticato (alcuni avrei voluto continuare a dimenticarli, ma vabbé).

Io ancora oggi, a 46 anni, tengo un diario. Non ho mai smesso da quando, a sei anni, ho trovato una vecchia agenda e mi sono presentata. Poi ho presentato la mia famiglia, poi i miei amici, poi le ho raccontato quello che succedeva: succedeva molto poco, ma dalla passione che ci mettevo, capisco ora quanto sia importante vedere le cose in prospettiva.

Perché i diari sono utili.

Non solo per lo sfogo che ti permettono di buttare sulla pagina senza rovinare rapporti personali (devo tenere a freno la mia emotività o faccio danni), ma soprattutto perché ti permettono di vedere la differenza tra quello che sei ora e quello che eri una volta.

Avevo dei sogni che non ho realizzato (mi sarebbe piaciuto vivere viaggiando), ma avevo anche delle paure che ora non ho più: e mi sono passate senza fare granché, semplicemente maturando con gli anni.

Faccio un esempio.

A sedici anni il sacerdote della parrocchia mi aveva convinto ad andare a fare l’animatrice a un camposcuola e a tenere un gruppo di ragazzini più piccoli di me.

Sappiate che io non ho nessuno slancio educativo: per me, o ti educhi da solo o muori. Ma Don Pietro è sempre stato gentile e gli serviva qualcuno che rappresentasse la nostra parrocchia nel camposcuola diocesano.

Inutile dire che, nonostante le riunioni di preparazione, per me fu un’esperienza pesante. I ragazzini non mi prendevano sul serio, non obbedivano, non ascoltavano, si annoiavano platealmente (mi sarei annoiata anche io al posto loro, con un’animatrice che non animava nulla).

Ma quello che mi ha fatto soffrire di più allora, e risulta ben chiaramente dal mio diario, è che nella riunione post-camposcuola fatta con i colleghi animatori, una delle animatrici anziane si è alzata per denunciare apertamente i sacerdoti che mandavano animatori incapaci.

Stava parlando di me (e della mia amica, anche lei senza esperienza e anche lei fattasi convincere dal nostro Don).

Nel diario scrissi “Ecco un’animatrice che si fa passare per ultra-cattolica, che va sempre a messa ad ogni festa comandata e che quando vede qualcuno in difficoltà che non appartiene alla sua parrocchia attacca come farebbe un animale con un animale proveniente da un altro branco”.

Ci ero rimasta proprio male. Soprattutto perché nei miei anni di gioventù ero molto attiva nelle associazioni parrocchiali e, come tutti gli appartenenti a una setta, ero convinta che i cattolici praticanti fossero, in ultima istanza, più buoni dei non cattolici.

Dunque questa animatrice che attaccava me (e che durante il campo-scuola non mi aveva mai preso in disparte per chiedermi come andava o se avevo bisogno di qualcosa, un consiglio o chessoio) era l’immagine simbolo del cattolico impegnato in parrocchia e, secondo la Serena di allora, doveva essere, per definizione, buona.

In gioventù si è manicheisti: sono tutti o buoni o cattivi, non ci sono vie di mezzo. Ma allora non lo sapevo.

Lo so adesso, che le persone sono molto complicate e piene di sfumature.

Questo non vuol dire che abbia perdonato quella stronza… ma se mi capitasse oggi, la prenderei in disparte e le chiederei, con un borioso atteggiamento taxidriveriano: ce l’hai con me? Eh? Ce l’hai con me?

Allora non l’ho fatto, perché pensavo che avesse ragione e basta. Ma adesso so che aver ragione non è sufficiente, se per esternarlo devi ferire le persone.

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La fenice rossa (Tess Gerritsen) @LibriLonganesi

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Un thriller, ogni tanto, ci vuole, per rilassarsi.

Questo l’ho scelto, in particolare, per la copertina dai richiami cinesi (eh, sono fissata, lo so). Infatti la vicenda è ambientata nella Chinatown di Boston.

La protagonista è Jane Rizzoli, detective, e indaga sull’omicidio di una sconosciuta a cui è stata mozzata di netto una mano con una lama molto affilata. Il fatto è accaduto sul tetto di uno stabile nel quale, diciannove anni prima, è avvenuta una strage: il cuoco è uscito dalla cucina, ha sparato a tutti i presenti, e poi si è sparato in testa.

Nel corso della vicenda, le indagini si incasinano quando viene coinvolto un boss della malavita irlandese, quando si trovano dei strani peli animali di cui non si capisce l’origine e quando e si scopre una sfilza di ragazzina scomparse nell’arco di venticinque anni; ma non dico oltre.

La trama è ben orchestrata, con i tasselli che vanno al posto giusto pian piano, ma facendo anche venire a galla anche nuove domande ad ogni nuova scoperta.

Tra gli altri personaggi, ci sono una misteriosa insegnante di Wushu, che era sposata al cameriere del ristorante cinese; un’anatomopatologa professionalmente inflessibile ma sentimentalmente incasinata; il marito di Jane Rizzoli, agente speciale; e tutta una serie di poliziotti in servizio o in pensione.

Il finale?

Ogni volta che credi di essere arrivata a una soluzione, ti accorgi che mancano ancora troppe pagine alla fine, e dunque te la metti via, perché sta per arrivare un altro colpo di scena.

A me è piaciuto: 4 stelline su 5.


 

L’autrice è di origini cinesi. Ha scritto il romanzo sfruttando alcune delle storie che le raccontava sua madre, tutte ambientate nel paese della Grande Muraglia. Ha lavorato un periodo come medico alle Hawaii, col marito, poi si sono trasferiti nel Maine dove ora lei vive di scrittura.

 

 

 

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Due film: “Distruggete Los Angeles” e “The Village”

Partiamo dalla ciofeca: “Distruggete Los Angeles”. Non basta la bella faccina di Mark Dacascos a risollevare le sorti di un film scarsissimo.

A causa di alcuni esperimenti nucleari (danno la colpa alla Cina, ovvio), la terra sta per soffrire un incredibile aumento termico che ucciderà ogni essere umano. L’unico modo per fermare la catastrofe è far brillare una bomba nucleare sotto Los Angeles, in modo che la faglia oceanica smetta di allargarsi.

Già gli effetti speciali della prima scena del fuoco nell’Antartico fanno pietà.

Nella seconda scena, il colonnello belloccio deve salvare la studiosa da una casa in fiamme minacciata dalla lava, e si ferma a far battute allusive e a guardarle il sedere.

Personaggi buoni e cattivi: scontati come un paio di scarpe nel periodo dei saldi.

Un esempio? La figlia del colonnello-eroe non riesce ad allontanarsi da Los Angeles (perché l’America è grande, ma mai abbastanza, e i protagonisti finiscono sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato). Viene fatta prigioniera da un pazzo estremista religioso dalla faccia sfigurata che vuole darle fuoco, come ha già fatto con altre vittime; ma non lo fa subito: prepara tutto, butta la benzina, mostra la fiamma dell’accendino e poi va a guardare la TV… Due volte!

E quando uno cade in un pozzo di 400 metri, credetemi, muore: non alza la testa a guardare il timer della bomba nucleare.

Mamma mia, che disastro. Cosa è passato per la testa a Rutger Hauer di recitare in un film così scadente??

“The Village” è tutta un’altra storia (il regista Shyamalan è un genio, anche se questo film non è all’altezza di “Il Sesto Senso”, “Glass” e “Split”).

Comunità isolata tra le colline, fine Ottocento. La gente trascorre le giornate tra lavoro e preghiera, ma il villaggio è circondato da torrette di avvistamento che confinano con il bosco, dove vivono le… creature innominabili!

Il film inizia con il funerale di un bambino, morto perché nel villaggio mancavano le medicine. Il giovane Lucius (Joaquin Phoenix) chiede il permesso al consiglio degli anziani di poter andare nella città vicina a comprare medicinali per evitare ulteriori morti di innocenti. Permesso negato.

Ad un certo punto, incominciano a trovare animali morti e spellati in giro. Gli anziani pensano che le creature innominabili siano entrate in azione perché qualcuno le ha provocate. Però non sono così convinti…

Non vado oltre, sennò vi tolgo il piacere di guardarlo.

Ma il messaggio di fondo è questo: la paura è pericolosa, anche quando non ci sono motivi per avere paura.

E’ un messaggio potente, che ci riguarda sia a livello personale che sociale.

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Perché alcuni romanzi ci piacciono… e altri no.

(English version: below)

E’ una questione a cui non sono ancora riuscita a dare una risposta univoca.

Il marketing letterario o i consigli degli amici possono influire solo in parte sulle nostre predilezioni: possono spingerci a comprare un romanzo, ma non ad amarlo, se non è nelle nostre corde.

Mi son posta la domanda perché ho iniziato a leggere due libri: “Il cardellino” di Donna Tartt e “Gioco per la vita” di Patricia Highsmith. Il primo ho iniziato a leggerlo perché sono in ferie, e posso permettermi 900 pagine di relax. Il secondo, perché la storia è ambientata in Messico, che è il paese su cui mi sto concentrando in queste settimane.

Stranamente, pura coincidenza, entrambi i protagonisti si chiamano Theo.

Subito, fin dalle prime pagine, mi sono accorta del mio diverso atteggiamento verso i due romanzi.

Il libro della Highsmith è un thriller, o così si definisce: inizia subito con un delitto. Lelia, una pittrice amata da due uomini, viene trovata morta col volto sfigurato e le indagini appurano che prima della morte c’è stata violenza sessuale.

Il libro della Tartt inizia con un ragazzo che si nasconde ad Amsterdam, non esce di casa, ha fatto qualcosa per cui non deve farsi trovare. Nelle lunghe ore di ozio, inizia a scrivere la sua storia, partendo dal giorno in cui sua madre è morta in un attentato in un museo.

Entrambi i romanzi iniziano dunque con fatti inquietanti, emotivamente coinvolgenti, eppure… eppure il thriller della Highsmith non decolla. Per me. Non mi fa sentire alcuna compassione per la donna, né per i due uomini rimasti orbati del loro amore. Né mi incuriosisco per l’ambientazione che, al di là di alcuni cliché, non mi fa entrare nella Weltanschauung messicana.

Con il libro della Tartt, invece, è tutta un’altra cosa. Parla (anche) di arte: non mi intendo di arte, eppure mentre leggo spero che le descrizioni della madre di Theo sui quadri che stanno guardando non finiscano mai. E quando la bomba scoppia, sono nella testa del ragazzino, che ancora non ha realizzato cosa è successo; sento la sua ansia, sento che sta per succedere ancora qualcosa, che sta per arrivare una presa di coscienza tremenda.

Perché questa differenza?

La ragione non sta nei fatti raccontati.

Ha a che fare col modo in cui sono narrati. Perché lo stile dell’autore è un estratto della sua visione della vita. E questa visione della vita, coincide, spesso, con la mia.

Non mi riferisco, volgarmente, a predilezioni e antipatie: non mi importa se l’autore parla bene dei quadri fiamminghi o male dei funerali in Messico. Piuttosto, mi riferisco al modo in cui giunge a certe conclusioni, in cui guarda gli altri personaggi, in cui mette in tavola i suoi dubbi e confessa le sue debolezze.

Pensate all’autobiografia di Elias Canetti: succede poco, molto poco. Ma il modo in cui parla della miriade di persone che incontra, ti fa pensare che lui, anche se non lo scrive, sta maneggiando Verità. Verità con la V maiuscola.

Non che ce l’abbia in mano. Piuttosto, ce l’ha in punta di penna: ancora non è uscita dall’inchiostro, ma l’autore ci sta provando, a tirarla fuori; quello è il suo scopo, ed è così vicino a raggiungerlo che… continui a leggere.

Patricia Highsmith nel suo libro cerca di giungere alla verità dell’omicidio. E’ una verità con la V minuscola. Non ci fa toccare con mano il suo coinvolgimento, e, dunque, non coinvolge neanche noi.

Donna Tartt, invece, è il suo libro. Leggendolo, stiamo viaggiando nei suoi organi interni. Sì, lo so, brutta immagine, ma credo di aver reso l’idea di un Qualcosa che c’è, che è importante (se non ci fosse, non saremmo vivi) e che ciononostante nessuno vede in azione.

Essendo io in ferie, darò ancora una possibilità alla Highsmith, magari il libro mi appassionerà nelle prossime pagine.

La Tartt mi ha già conquistata.


WHY WE LOVE SOME BOOKS AND… DISLIKE OTHER ONES.

I have not found an answer to this question, yet. Literary marketing or friend’s tips can push us to buy some books, but not to love them.

The question has become stronger in these days, when, being on holidays, I started reading two novels at the same time: “A game for the living” (Patricia Highsmith) and “The Goldfinch” (Donna Tartt).

I started the first one because the story takes place in Mexico, which is the country in which I am interested in these weeks; and I started the second one because… I am on Holiday and can afford 900 pages of relax.

Strange enough, but both protagonists are named Theo…

Immediately, from the beginning, I noticed my different attitude towards the two novels.

The Highsmith’s book begins with a dramatic scene in which there is a dead woman, Lelia, a beautiful woman and nice painter. She has been first sexually violeted and then her face has been completely ruined with a knife.

The Goldfinch begins with a young man, Theo, who is hiding in Amsterdam (but we do not know why, yet) and who starts telling his story during the idle hours in the hotel chamber. This is how we find out that he lost her mother during a terroristic attac in a museum, when he was thirtheen.

While reading the Highsmith’s book, I do not feel involved in the love of the two mens for Lelia, nor in their desperation when they discover that she is dead. Moreover, I do not feel any curiosity in the Mexican way of living, as if the author only described clichés.

While reading Tartt’s novel, I feel engaged in the description that Theo’s mother makes of pictures (and I am not particularly fond of pictures, in general); I would go on and on reading on these painters; and, when the bomb bursts out, I am in Theo’s mind, wondering what has happened, feeling his terror, his puzzling thoughts, his fears.

Why this difference?

Differences do not lie in story: both novels start with shocking facts.

Difference lies in author’s vision of life, but does not lie in authors tastes: it doesn’t matter if I agree with an author who loves paintry or hates mexican funerals, who puzzles about Amsterdam streets or mexican way of living. My preferences and the author’s can be different.

I believe that the important pivot is the way in which the author tells his/her stories. His trials to find out the Truth, with capital T. When you read, you feel that the author is looking for the Truth: he/she has not got it, but he/she is striving for that.

Truth is not in the author’s hand, but it is in his/her pen, it is there, and wants to go out. So you go on and on reading hoping that he will find what he search for, hoping that you will be with him/her when he will find it out.

Take, for instance, Canetti’s biography. There, very few facts happen. Despite this, you feel that the author is looking for the Truth in other people, in facts, in cities, in history.

Patricia Highsmith, in her novel, is looking for a little truth: who is the killer. But she doesn’t manage to invove the reader (me: I do not know if she manages to involve other Readers) in all the details she unrolls in front of us.

While reading Donna Tartt’s book, I am in her internal organs.

I do know that this image is not very nice, but it gives the idea of something important, something hidden, without which we couldn’t live. Something that is there, but that nobody can see while it is working.

Well, I am on holidays, so I can afford to lose some time on Highsmith’s novel – not to much, just a little bit, to see if she manages to involve me.

Donna Tartt is already the owner of a piece of my hearth.

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Dentro l’acqua – Paula Hawkins @edizpiemme

Dopo il successo di “La ragazza del treno”, sono stata felicissima quando mi hanno regalato “Dentro l’acqua”. Devo ammettere tuttavia che questo romanzo non mi ha entusiasmato moltissimo.

In breve: Jules deve prendersi cura della nipote Lena perché sua sorella Nel è morta in seguito a una caduta da una scogliera. Si scopre che Nel stava indagando sulla scogliera stessa, facendo domande a destra e a sinistra per scrivere un libro sui suicidi là avvenuti.

A ciò si collega la morte di Katie, amica del cuore di Lena: anche Katie è caduta (o si è suicidata?) dalla scogliera.

Ma bisogna risalire nel tempo per capire le vere ragioni degli ultimi avvenimenti: in ciò, ci aiuta Nickie Sage, una vecchia medium mezza matta che (ovviamente… e qui ecco un altro stereotipo) nessuno ascolta.

La storia e il legame tra gli omicidi è decente, e mi piace l’idea di un luogo in cui vanno a morire donne problematiche (mi piace l’idea delle donne problematiche!), ma secondo me la costruzione generale lascia un po’ a desiderare.

Innanzitutto, il romanzo è diviso in quattro parti: le prime due sono dedicate all’approfondimento psicologico dei vari personaggi. Praticamente: metà libro. Per metà libro non si scoprono intrallazzi né si delineano chiari moventi. Si intuiscono, sì, ma i personaggi sono reticenti, tanto, tanto reticenti. Parlano a metà, non dicono: capisco che sia funzionale al thriller, ma la gente, la gente vera, non fa così. La verosimiglianza deve sempre tenere, anche se non si può rivelare tutto: è questo il difficile dei thriller.

Altro difetto: alcuni personaggi parlano in prima persona, altri vengono descritti in terza. E guarda caso, uno di quelli in terza persona è un omicida. La scelta della persona in questo caso ha dato un indizio indiretto…

Infine: Lena, la figlia di Nel Abbott (una delle donne “cadute” dalla scogliera) è di un’antipatia unica. Lo stereotipo dell’adolescente problematica è noioso, noioso, noioso. E antipatico.

I segreti ti possono tenere la testa sotto il livello dell’acqua?

Mah.

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La verità sul caso Harry Quebert – Joel Dicker

imageAttenzione, non leggete questo post, perché potrebbero scapparmi fatti importanti per la rivelazione del mistero. Fatti che magari a qualcuno piace scoprire da solo…

Premetto che l’ho letto in sei giorni (770 pagine, nonostante 4 ore di lavoro al giorno, un bambino da seguire, un marito da sopportare, una casa da pulire – poco -, gli amici con cui uscire), dunque sì, se cercate un libro che vi tenga incollati e curiosi fino alla fine, questo va bene.

Tuttavia, non posso sorvolare sui difettucci.

Intanto, un paio di volte ho notato delle cadute sull’alternarsi del punto di vista: piccole confusioni, sguardi che passavano da un personaggio all’altro in modo troppo veloce..

Poi: dai, il solito scrittore con il blocco da pagina bianca… che noia. Non solo: uno scrittore che risolve un caso dove nessun poliziotto è riuscito a vederci chiaro. Questi poliziotti americani (sì, perché nonostante lo scrittore sia svizzero, il libro è ambientato negli States) sono proprio degli inetti!

Poi: la gente non si comporta così. La gente parla. La gente non sa mantenere i segreti come questi qua. Tutti i Non Detti della storia sono davvero poco plausibili. Un accusato che non racconta tutta la storia al suo avvocato… un paese intero che non dice allo scrittore che la madre di Nola prima della figlia…  e tutti reticenti perché tutti hanno altarini da nascondere… tutti. Non c’è uno normale in questi libri, non c’è uno che abbia una vita monotona come la mia. Caspita, mi devo trasferire negli USA per divertirmi un poco.

Altra inverosimiglianza: uno che lascia sempre la casa aperta. Sempre. E lascia i foglietti in giro dove scrive a una minorenne quanto la ama… Mah.

Incredibile poi come in trent’anni di circolazione del libro (quello scritto da Harry Quebert, che lo ha reso famoso e riverito nel mondo accademico), nessuno si sia interrogato sul titolo. “Le origini del male”: un titolo alquanto strano per un romanzo d’amore, eppure si sorvola sul suo significato finché il protagonista si pone il problema perché gli serve per scoprire cosa è successo. Insomma: se un titolo non è chiaro, la prima domanda che ti fanno alle presentazioni, è: “Cosa voleva dire con questo titolo?”

Poi, ultima mia incredulità: Nola.

Ragazzi: che lagna!!! E mi prendo cura di te, e ti amo tanto, e portami via, e che belli i gabbiani, e ti faccio un sandwich, e ti lavo i piedi… no, decisamente, non si può reggere. Una quindicenne con il quoziente intellettivo di una castagna cruda. Ogni volta che leggevo quello che diceva, mi venivano i brividi e mi mettevo il cappottino. Insopportabile.

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Il libro delle anime – Glenn Cooper

imageMaledetti siano gli scrittori americani di bestsellers. Pieni di clichés, prevedibili, maschilisti; non si distinguono l’uno dall’altro, stessi ritmi, stili, lessico. Ma quando inizi a leggerli, devi arrivare alla fine!

Questo Cooper, poi, ci porta anche tanta di quella sfiga, che Dio ce la manda, visto che fa finire il mondo il 9 febbraio 2027.

La tesi di fondo, però, è intrigante: e cioè, che le nostre date di nascita e di morte siano già state scritte secoli fa in una biblioteca a cura di centinaia e centinaia di monaci autistici dai capelli rossicci. Tutto predestinato, dunque. Naturalmente, c’è di mezzo una congiura dei servizi segreti statunitensi che vogliono sfruttare questa conoscenza a fini politici. Naturalmente, c’è Will, il figo e intelligente ex agente dell’FBI, che svelerà al mondo tutto l’intrigo.

Ma scusate. ‘sti bellocci muscolosi dagli occhi azzurri, tutti negli Stati Uniti stanno? E tutte le strabellocce e intelligenti esperte di storia medioevale che cadono sempre ai piedi dei bellocci? Bisognerebbe vietarli libri del genere.

Soprattutto quando tre quarti dei protagonisti (americani) ammettono di non aver mai sentito parlare di Calvino!

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