Bastarda (Christine Grän)

I primi due capitoli non mi hanno preso molto. Poi si entra nel mood e nelle vicende dei protagonisti, che non sono molti, ma sono ben delineati.

Marie è una giornalista senza scrupoli che non esita a usare il proprio corpo per far carriera. Cinica, si giustifica con la propria storia: è infatti figlia di una prostituta specializzata in sadomaso che teneva un bordello a Monaco. Marie ha vissuto in questa casa, e, per quanto la madre cercasse di proteggerla, ce l’ha ancora col mondo. Se ne è andata solo quando il bordello ha preso fuoco.

Ora sua madre è in un ospizio, non riesce neanche a parlare, da come è ridotta a causa dell’alcool.

Anne è un’attrice quarantenne che ha visto tempi migliori: non riesce a trovare ingaggi di valore perché ha, per così dire, perso il treno. Si è infatti dedicata anima e corpo alla famiglia: al bellissimo marito Leon, pilota di aerei che lavora per il fratello Max, e il piccolo David.

Leon accompagna sempre il fratello Max, dirigente di un’importante multinazionale, nei suoi viaggi d’affari, e sa tenere la bocca chiusa sugli aspetti illegali di Max, nonché sulle sue numerose relazioni extraconiugali.

Max è sposato con la sorella di Anne, Beate, che si gode la vita da milionaria. In pratica, sono due fratelli sposati con due sorelle.

Anne crede ciecamente nel suo matrimonio, ma Marie finisce sulla sua strada.

La giornalista prima crede di essersi innamorata di Max, poi perde la testa per Leon che, come in altri casi, cede al piacevole diversivo, pur dichiarandosi sempre innamorato della moglie Anne.

La bastarda del titolo è ovviamente Marie, che ricorre ad ogni mezzo per raggiungere i suoi risultati: vi avviso, è una narratrice inaffidabile. E’ però un anti-eroe ben costruito, che sa giustificare le sue azioni, anche se è indifendibile.

Il tutto è condito da un sacco di riflessioni sull’amore e sulla gente, che ti viene voglia di appuntarti per rifletterci sopra in un secondo momento.

Le finestre del ricordo sono sempre irragionevoli.

La verità offende gli altri. La menzogna, me stessa.

Chi vive di applausi perde la propria identità se non ne riceve.

Insomma, mi è piaciuto. E per quanto Marie sia una disgraziata, è quella che ci fa ragionare di più su noi stessi e sui nostri lati bui.

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Inside out, l’autobiografia di Demi Moore

Quando li vediamo sul Red Carpet o sulle riviste patinate, ci viene naturale invidiarli: bellissimi, ricchi, ammirati. Per guarire dall’invida, aiuta leggerne le biografie.

Questa inizia con Demi Moore sfatta di droga, che non riesce a reggersi in piedi: ha cinquant’anni, si sente inadeguata per il suo aspetto fisico, ha divorziato per la seconda volta, le figli non le parlano più. E si chiede: come ho fatto ad arrivare fin qui?

Così rievoca la sua infanzia: la madre, sposatasi adolescente per la seconda volta; il padre, affascinante ma dedito al gioco e invischiato con la malavita che periodicamente lo perseguita; un fratello più giovane, che, come lei, cerca di sopravvivere in questa famiglia disfunzionale, dove dopo ogni tradimento del marito, la madre costringe tutti a traslocare.

Demi Moore ha perso il conto dei traslochi: c’erano anni in cui rimanevano in un posto pochi mesi. Da qui, nessuna amicizia, nessun legame forte. Solo a 14 anni, scopre che quello che credeva suo padre, il marito della madre, in realtà non lo è. Sempre da adolescente, sua madre le passa una sigaretta e da là Demi inizia a fumare.

La madre, alcolizzata, tenterà il suicidio varie volte, il padre lo tenterà una volta sola e ci riuscirà a 36 anni.

Demi Moore si è sempre ritrovata a dover far da madre a sua madre e a sentirsi al posto sbagliato al momento sbagliato. Giovanissima viene violentata, forse con il tacito assenso della madre, forse addirittura in cambio di una somma di denaro.

Inutile dire che da una famiglia così bisogna allontanarsi, e lo fa quando inizia a lavorare come modella prima e come attrice poi. Ma a 23 anni, già divorziata, si ritrova in una clinica per disintossicarsi dalla cocaina e dall’alcool, e non si libera da un rapporto morboso col cibo.

L’aspetto aiuta molto, ma anche certi incontri fortunati.

Sposa Bruce Willis, si allontana dalla madre che continua a importunarla con la sua autocommiserazione, il suo alcolismo e i suoi numerosi mariti.

Diventa l’attrice più pagata di Hollywood (Ghost, Uomini D’Onore, Proposta Indecente, Soldato Jane, solo per dirne alcuni), ma sempre meno di suo marito, ovviamente.

Quando viene a sapere che sua madre è allo stadio terminale, riesce a starle vicino e ad apprezzare la sua presenza, ma quando muore, qualcosa si rompe. Divorzia da Bruce Willis e si dedica per cinque anni alle figlie, che sono l’unico aspetto della sua vita che non le procura disagio.

Poi si mette con Ashton Krutcher e lo sposa: lui ha 25 anni, lei 40. E il gossip va a mille. Niente da dire invece su Bruce Willis e la nuova moglie, 23 anni di differenza. Come al solito.

Lei vuole un altro figlio, ma la natura non aiuta. Prova con la seminazione in vitro, ma Ashton non la supporta più: alla fine, la differenza di età e di esperienze pesa sul matrimonio e Demi si ritrova cornificata, scoprendolo dai tabloid.

Insomma, per tutta la vita è stata tormentata dal desiderio di piacere e di essere accettata. Ha sempre cercato di adattarsi agli altri, fino al punto da perdere di vista quello che era lei, quello che voleva e di cui aveva bisogno. Verso la fine, si risolleva, ma ho l’impressione che sia solo una speranza posticcia, per chiudere il libro.

Il memoir è del 2019.

Non fa accenno ai vari interventi di chirurgia plastica a cui si è sottoposta, ma è ovvio che con un carattere così accomodante si sia sentita in obbligo di far fronte ai cedimenti dell’età: Hollywood non è un bel posto, non perdona rughe e capelli bianchi (alle donne).

Anche i ricchi piangono, insomma.

Ma con tutta questa infelicità in giro per il mondo, che neanche i soldi possono placare, ha davvero senso far nascere figli se non si è in grado di voler loro bene? Se non si è sicuri di farli crescere, per quanto possibile, equilibrati e amati?

Non c’entra nulla con la biografia di Demi Moore, ma davvero mi chiedo se tutta questa propaganda antiabortista si faccia le domande essenziali, perché certe esperienze in giovane età rischiano davvero di segnarti per tutta la vita.

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“Confusione” e “Allontanarsi” Elizabeth Jane Howard

Resto stupefatta davanti all’immaginifica e perfetta costruzione della famiglia Cazalet. E’ una serie di lunghi ma ben congegnati romanzi, dove ogni personaggio ha la sua posizione nel parentado e nella storia a cavallo della seconda guerra mondiale.

In “Confusione”, il terzo volume della saga, nel 1942 iniziamo a seguire più da vicino le giovani cugine.

La bellissima Louise abbandona le sue velleità di attrice e sposa il ricco Michael, che sembra amarla e idolatrarla, ma che è succube della madre e che sembra vivere in un mondo tutto suo, felice di essersi portato a casa una mogliettina che non sfigura in società e che potrà dare dei nipotini alla nonna.

Polly e Clary vanno finalmente a vivere da sole a Londra, come avevano sempre desiderato, ma Polly si accorge di essersi innamorata di Archie, il quasi quarantenne amico di famiglia che fa da consigliere e sfogatoio a tutti quanti, giovani e vecchi.

Rupert, il padre di Clary, non è ancora tornato, è disperso da anni in Francia e la giovane moglie Zoe si innamora di un giornalista americano.

Edward continua la sua relazione con Diana, dalla quale ha avuto almeno una figlia, e è continuamente pungolato dall’amante per prendere una decisione: o con lei o con la moglie Villy.

Hugh, il fratello più vecchio, continua a sentire pesantissimamente la mancanza della moglie morta di tumore e non riesce a consolarsi.

Tutti aspettano con trepidazione la fine della guerra, dei razionamenti e delle incursioni aeree. L’atmosfera mi ha tanto ricordato il nostro lock-down da Covid, pieno di speranza per un futuro migliore, o quanto meno, diverso.

Poi la guerra finisce, ma la situazione non migliora dal giorno alla notte. Rupert ancora non torna, e la relazione di Zoe con il giornalista americano subisce una brusca svolta, che non vi dico per non rovinarvi la lettura.

Polly finalmente si toglie dalla testa Archie e trova, quasi per caso, l’amore della sua vita. Clary invece finisce nei guai, e Archie, che era in Francia per una breve vacanza lontano dal lavoro che odia, corre in suo soccorso.

Louise non sa darsi pace: si è accorta di non amare Michael, che ha più confidenza con la madre, ma si sente in colpa perché non prova nessun sentimento materno nei confronti del figlioletto. Eppure, non può non diventare consapevole di questo disamoramento, e prenderà una decisione che l’ha fatta salire nella mia personale scala del rispetto.

Tutti i rapporti sono molto inglesi: tanto tè, tanti “caro” e “cara”, pochi sfoghi. Eppure i sentimenti forti non mancano, come possono essere forti, nel bene e nel male, i sentimenti tra parenti.

Mentre in “Confusione” erano ancora tutti vicini-vicini, in “Allontanarsi”, a guerra finita, nasce il bisogno per ognuno di prendere la propria strada e di fare delle scelte, alcune molto dolorose, ma necessarie.

E’ una saga molto umana.

I bisogni che mette in campo sono quelli che proviamo tutti, le difficoltà dei rapporti le conosciamo bene, e si va avanti a leggere per cercare di carpire qualche trucchetto per affrontare queste vite, che sembrano andare avanti scollegate da ogni significato.

Mi manca solo l’ultimo volume: spero che si sistemino tutti bene! (O quasi tutti… anche qui, come in tutti i romanzi che si rispettino, ci sono personaggi che trovo meno simpatici, ma è qui l’arte della Howard: non sono mai macchiettistici!)

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L’età verde (Yukio Mishima)

Avevo voglia di andare in Giappone, perciò ho preso in mano Mishima, ma questo romanzo, del Paese del Sol Levante e del periodo bellico e post-bellico ha preso solo gli aspetti più in ombra.

Il giovane Makoto è intelligentissimo e bravo a scuola, ma vive un’ipocrisia di fondo: non vuol provare sentimenti, se non disprezzo per la maggior parte dei suoi concittadini e familiari. Si sforza di essere esteriormente impeccabile, ma è insensibile in modo patologico fin da piccolo, quando assiste alla cruenta morte della pazza del villaggio.

Attraversa sei anni di guerra che non sono quasi menzionati e poi, insieme ad un vecchio compagno di università, apre un’agenzia che mette in piedi una scandalosa operazione ai danni dei piccoli risparmiatori (e ispirata a una storia realmente accaduta).

Il romanzo è pieno di dialoghi astratti, un po’ surreali, e di frasi generalizzanti, che ci fanno pensare a un autore (o un popolo) alla ricerca di leggi generali da estrapolare da eventi singoli, tipo questa:

Anche se il risultato non muta, i giovani preferiscono pensare di agire di propria volontà piuttosto che ammettere di essere costretti a farlo da una causa esterna.

Ma dove lo porta l’insensibilità?

Si era ormai liberato dalla tentazione, che lo aveva amareggiato nell’infanzia, di tormentarsi per la sua freddezza: una spavalderia da adulto lo induceva a ritenere di essere ormai in grado di utilizzare liberamente la propria insensibilità.

Non si salva nessuno, moralmente. Neanche la madre, che è una persona che prova sentimenti sinceri ma non riesce a sfruttarli per influenzare il figlio che si è messo su una strada deprecabile.

Insomma, il Giappone post-bellico a Mishima non piaceva. Non avevo dubbi.

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Mare di papaveri (Amitav Ghosh)

Romanzo corale ambientato nel 1838 in India.👳🧕

Deeti vive in una capanna col marito e la figlia. Il marito lavora in una fabbrica di trasformazione dell’oppio, il principale prodotto di quelle zone, e lui stesso ne è schiavo. Quando muore, lei deve immolarsi nella pira funeraria con lui, ma viene salvata all’ultimo minuti da Kalua, un enorme ex lottatore, e per questo devono scappare, ricercati dalla famiglia di lei.

Paulette è la giovane figlia di un botanico 🌱🌿 francese. Quando il padre muore, si mette in testa di andare fino alle Mauritius da sola come ha fatto una sua bisavola semi-famosa.

Reid è un mulatto figlio di una schiava liberata e del suo ex padrone: grazie alle sue capacità marinaresche e alla sua intelligenza, riesce a risalire la gerarchia della Ibis, la goletta a due alberi che Deeti ha visto in sogno.

Neel è un raja decaduto e finito in prigione: gli hanno tatuato in faccia la parola “truffatore” e deve adattarsi a vivere nella sporcizia, nel vomito, tra le pulci, diventando amico di un cinese in crisi di astinenza da oppio.

Questi ed altri personaggi sembrano slegati l’uno dall’altro, ma si troveranno tutti uniti sulla Ibis⛵, chi in incognito, chi con il suo ruolo definito.

Al di là dell’enorme lavoro di ricerca (davvero enorme, credetemi), la storia è molto evocativa, ogni personaggio ha il suo passato e il suo carattere, e io, che di solito non amo i romanzi corali, sono riuscita ad affezionarmi a Reid e Neel (le scimmie attorno alla fabbrica di oppio che ciondolano semiaddormentate sono uno dei tanti colpi da maestro 🙈🙉🙊).

Tutte le vicende sono intrecciate con l’oppio e il traffico di coolies, con l’Inghilterra che spadroneggia in Oriente e il razzismo che non risparmia quasi nessuno.

Ah, prima che lo leggiate, vi avviso che non è un romanzo a sè… c’è un seguito, è parte di una trilogia.

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Sol levante (Michael Crichton)

Non sapevo che l’omonimo film con Sean Connery fosse una trasposizione di un libro di Crichton: devo vederlo. Qui però vi parlo del libro, una specie di thriller a tema.

Ma eccovi la trama…

La serata di inaugurazione del grattacielo Nakamoto a Los Angeles è in pieno svolgimento: ci sono personalità dello spettacolo e della politica, giornalisti e guardi del corpo ovunque. Ma al piano di sopra, sul tavolo di una sala riunioni, è riverso il cadavere di una bellissima ragazza.

Ad indagare vengono chiamati l’ufficiale di collegamento per le relazioni internazionali detective Smith, e il più attempato ma scaltro detective in pensione Connor.

Le indagini si rivelano subito difficili a causa dello scontro tra due culture, l’americana e la giapponese, che non potrebbero essere più diverse, senza contare il fatto che la Nakamoto ha le mani in pasta in ogni settore dell’economia, dell’editoria e della politica.

Ed è qui che si intreccia il tema che Crichton si è dato tanto da fare per inculcarlo nella testa degli americani: i giapponesi si stanno mangiando gli Stati Uniti. Comprano tutto. E gli americani glielo lasciano fare, anche se vendono ai nipponici segreti industriali che poi gli stranieri usano contro gli americani stessi.

Gli uomini d’affari giapponesi sono descritti come uomini senza scrupoli, seppure questo sia parzialmente giustificato dalla loro cultura.

E se il monito non era tanto chiaro, Crichton ce lo ripropone nella postfazione, spiattellandocelo in faccia chiaro e tondo.

Il problema dei romanzi a tema è che la storia e i personaggi ne risentono sempre.

La storia si trascina: si capisce che gli eventi sono messi uno dietro l’altro solo per proporre esempi di settori in cui i giapponesi stanno mangiando i risi in testa agli americani.

La voce narrante, l’ispettore Smith, è piuttosto stupidotto e si fa guidare passo per passo da Connor, che nel film è impersonato da Sean Connery, un personaggio che tace le proprie intenzioni rivelandocele solo alla fine per creare il colpo di scena.

Un libro che trabocca di compassione per i poveri americani che si fanno prendere in giro dai furbi stranieri.

Qualcuno lo ha letto e ha avuto la stessa impressione?

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Artemisia (Alexandra Lapierre)

Della pittrice Artemisia, prima di leggere questo libro, sapevo che era stata violentata a diciassette anni e che ciononostante aveva trovato la forza di diventare una delle migliori artiste del suo tempo.

La Lapierre però ci racconta la storia molto più in dettaglio, dopo aver letto e studiato una montagna di documentazione in più lingue.

Nella mia ingenuità, pensavo che dopo esser stata violentata, la ragazzina avesse iniziato a odiare Agostino Tassi con tutto il suo cuore e la sua anima, ma la storia è molto più complicata. Era una donna e siamo nel Seicento. A quel tempo, una donna doveva sposarsi. E Agostino Tassi, dopo il fattaccio, le aveva promesso di renderla una donna “onesta”, e per un po’ vissero insieme come marito e moglie, pur non essendo sposati.

Tassi era comunque un uomo interessante. Ed era un amico del padre. Insomma, era tutto ambiguo e complicato.

Eppure Artemisia ha trovato il coraggio di portarlo in tribunale. Ma la sapete una cosa? I giudici, per essere sicuri che lei non stesse mentendo, le hanno rotto i pollici. A lei, non a Tassi.

Questo è un libro che ci fa capire bene come un artista sia solo un essere umano.

Prendiamo Agostino Tassi, che ha violentato la figlia diciassettenne dell’amico. Era sposato, ma ha fatto uccidere la moglie. Poi ha messo incinta la cognata quattordicenne e poi l’ha fatta sposare con un suo apprendista.

La strada degli artisti in cui abitavano Artemisia e la sua famiglia era famigerata e pericolosissima: gli accoltellamenti per quelli che noi oggi dichiareremmo “futili motivi” erano all’ordine del giorno, anche se allora, il riconoscimento della propria arte era essenziale per guadagnarsi da vivere e passava attraverso simboli, spillette, precedenze varie.

Artemisia, a differenza dei fratelli, aveva dimostrato subito al padre di poterlo eguagliare nella pittura. E, diciamolo, cosa le restava da fare, dopo aver perso la dote, che il padre aveva speso per il funerale della moglie trentenne?

Intanto lei affina le sua capacità e diventa un’artista affermata, fino ad arrivare alla corte dei Medici. A 25 anni di sposa, perde tre figli, viene ammessa all’Accademia (una donna!), molla il marito, si trova diversi amanti, fa altre due figlie che cerca di tenere lontano dall’ambiente artistico, si destreggia tra un partito e l’altro, tra un duca e un Papa, tra Napoli, Roma e l’Inghilterra… insomma, ha una vita che possiamo definire “piena”.

Ma tutti i nodi devono tornare al pettine.

Nel suo caso, il nodo è suo padre. Quel padre che, da piccola, la portava sulle spalle, che le ha insegnato a dipingere e che lei, poi, non vede per venticinque anni, finché lui non la chiama in Inghilterra. Perché? Per rivederla? Per aiutarlo a ritrovare la sua vena artistica ormai troppo secca per decorare la cappella della regina?

Un libro pieno di sfumature psicologiche ben ricostruite. L’autrice è riuscita a farmi vivere più di quattrocento anni fa in un ambiente che oggi idealizziamo un po’ troppo.

Spesso pensiamo agli artisti come a delle persone che vivono in un mondo diverso dal nostro, che segue regole speciali, e siamo portati a giustificarli più del dovuto: “Sono artisti”, diciamo.

No.

Sono esseri umani con delle capacità che la società apprezza e paga. Ci aiutano a capire meglio altri esseri umani, o un certo periodo storico, ma loro, con le loro braccia e le loro gambe, sono felici? E quando sono felici? L’arte gli basta? La sensibilità che usano per creare, li rende persone migliori?

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La ballata delle anime inutili (Tommaso Avati)

Gargano, 1938.

Sofia ha tredici anni. La chiamano Vermitura, che in dialetto significa chiocciolina, perché è lenta, soprattutto in matematica, non capisce i numeri (oggi si direbbe che soffre di discalculia). Ha però un rapporto tutto suo con le parole, le vede davanti a sé, riconosce il loro valore e la loro potenza, tanto da non pronunciarne alcune perché le rispetta troppo.

Ma siamo in pieno periodo fascista e questa sensibilità non viene apprezzata, anzi.

Sofia vive in una masseria col padre e quattro fratelli. Il padre si è vantato di fare solo figli maschi, finché non è nata lei.

Quando si sposa il figlio più giovane, Angelino, si porta in casa la moglie, Caterina, e assume il diritto di dormire con la donna nella camera dove si fanno i figli. Solo che i figli non arrivano: e questo è un grave stigma per la famiglia, tanto da portare a conseguenze estreme.

La storia di Sofia si intreccia con quella – vera – di una comunità di San Nicandro, un paese poco lontano, dove un reduce della prima guerra Mondiale, Donato Manduzio, dopo aver imparato a leggere sulla Bibbia, ha convertito i compaesani all’ebraismo.

Nel 1938. Quando vengono emanata le leggi contro gli ebrei…

Di questo libro si apprezza lo stile, ricco di metafore e similitudini; il fascino ambiguo che hanno le superstizioni sugli esseri umani; ma anche la personalità di Sofia, che vive sottomessa alla cultura patriarcale, fino al momento in cui avrà la possibilità di affrancarsene, anche se lo farà a modo suo.

Un modo che io non capisco, ma io mi trovo nel 2024, nella Pianura Padana, e ho difficoltà a capire tante cose (forse ho una leggera forma di Asperger, pensa te, a cinquant’anni dovevo scoprirlo…).

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La tirannia del merito (Michael J. Sandel)

Sandel è un filosofo e un professore universitario. La sua è una riflessione sugli effetti perversi dell’importanza spropositata che ha assunto il merito nella società contemporanea.

Attenzione: non ci sta dicendo che non è importante. Non ci sta dicendo di affidarci a un dentista o a un idraulico meno capaci. Ci sta dicendo che la concorrenza spietata che oggigiorno fa perno sul merito individuale non fa bene alla società.

Il primo effetto negativo è che chi è all’apice, chi ha una laurea e un buon lavoro, tende a pensare di essere arrivato nella sua posizione grazie ai suoi meriti e a dimenticare altri fattori, come la fortuna e l’aiuto ricevuto. Con una mentalità del genere, è ovvio che poi non riesca a immedesimarsi in chi non ha raggiunto posizioni simili alle sue, è ovvio che finisca col darne la colpa a chi è rimasto indietro, giudicandolo pigro. Di conseguenza, gli risulta difficile ragionare in termini di solidarietà.

D’altra parte, chi è rimasto indietro, si sente “in colpa”: è come se gli facessero continuamente notare che se non ha una Bugatti e una villa con piscina è per via della sua incapacità. Questo genera risentimento. E questo risentimento può sfociare in atteggiamenti di rivolta, anche politica: i sostenitori di Trump e della Brexit appartenevano in grandissima parte a questa categoria di elettori insoddisfatti che si sentivano sbeffeggiati.

Ma il merito è davvero la panacea di tutti i mali? Se le persone hanno la sfortuna di nascere in un contesto sociale degradato o di esser dotati di capacità inferiori alla media, è davvero colpa loro?

La retorica dell’ascesa grazie al merito è un aspetto che accomuna sia la destra che la sinistra, sia i liberal che i conservatori: nessuno la mette in dubbio. Tutti considerano lo studio come lo strumento essenziale per l’ascesa sociale, eppure…

Eppure Sandel ci dimostra che se i salari non aumentano, NON è il risultato di un fallimento educativo. Le cause sono altrove, e questo l’università non lo ha recepito.

Al giorno d’oggi, la maggior parte dei rappresentanti politici ha una laurea: così ci ritroviamo una classe che legifera su una società in cui i laureati sono solo una minoranza. Come si può pretendere che ci sia comprensione? E cosa fanno quelli che non si sentono capiti e rappresentati?

Ricorrono ai voti di protesta (vedi Trump, Brexit, e tutti quelli che promettono di far cambiare le cose in tempi stretti).

La meritocrazia estrema è diventata una nuova forma di disuguaglianza. La la soluzione non è diventare più meritori: è combattere la disuguaglianza.

Lo sforzo, il merito, non bastano: in una società che idolatra il merito serve – ad esempio – che venga apprezzato (e pagato) il talento che ti sei ritrovato. E questa è una forma di fortuna. Se sei bravo a giocare a freccette, sei meno fortunato di uno che è bravo a giocare a basket, perchè la società non ti paga se centri il cerchietto rosso. Dipende solo dal tuo sforzo?

E poi, nel mondo moderno il lavoro in sè ha perso dignità se non ti permette di guadagnare bene.

La tirannia del merito negli Stati Uniti inizia già alle superiori quando i genitori facoltosi investono decine e centinaia di migliaia di dollari per corsi e couch che permettano ai rampolli di entrare nelle università più prestigiose. Si arriva al punto di truffare il sistema, pur di farli entrare spendendo cifre pazzesche. Lo scopo non è di dar loro una preparazione per guadagnare di più (se investivano quei soldi in un fondo, ottenevano comunque lo scopo).

L’obiettivo di questi genitori è di ammantare i propri figli di un alone di merito che giustificherà tutto quello che faranno.

E’ un libro complesso e ben argomentato.

Avevo iniziato a leggerlo con qualche perplessità, perché a me piace la gente che si dà da fare, ma Sandel ti fa ragionare e ti fa mettere in dubbio quella coorte di motivatori e life-coach che adesso inondano il web.

Da leggere con calma.

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L’olocausto e i giovani

Ieri sera stavamo guardando “Il pianista”, il film diretto da Polansky con Adrien Brody.

Arrivati alla prima scena in cui i nazisti scelgono degli ebrei a caso e li fucilano in mezzo alla strada, mio figlio è saltato su: “Ma dai, adesso stanno esagerando, non è possibile che facessero così!”

Boato di indignazione da parte mia e di mio marito!!

“Ma come puoi dire una cosa del genere? Non azzardarti a diventare un negazionista! Non le studiate queste cose a scuola??”

E lui, un po’ sorpreso dalla nostra reazione: “Mamma, parliamo della Shoah ogni anno prima, durante e dopo il giorno della memoria, ma non ci hanno mai detto che sparavano in testa alle persone così, per strada, a caso. Se fosse successo, i prof ce l’avrebbero detto!”

Quindici anni, liceo.

Colpa nostra, che non glielo abbiamo mai detto, e degli insegnanti, che lo hanno sempre dato per scontato.

Ieri sera, davanti a me, ho avuto la prova che dell’olocausto se ne deve parlare ancora. Forse in modo diverso.

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