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Il mistero di Anna (Simona Lo Iacono)

Il romanzo ha due linee narrative.

Nella prima, ambientata nel 1968, la piccola Anna Cannavò, grazie a un componimento scolastico, vince una settimana con la scrittrice Anna Maria Ortese. La bambina vive molto poveramente in Sicilia: sebbene destinata a lasciare la scuola e ad andare a servizio per aiutare la famiglia, è innamorata delle parole, ma non di parole qualunque, bensì delle parole poetiche, quelle che le fanno sentire qualcosa nel cuore, che la aprono a nuove verità.

Quando arriva a Milano nell’appartamento della Ortese, scopre che la scrittrice vive con la sorella e che le due donne non sono per niente ricche. Questa povertà in fieri fa sentire Anna Cannavò più vicina alle nuove amiche e insieme scopriranno nuove “parole poetiche”.

Nella seconda linea narrativa, che si svolta tra il 1952 e il 1968, leggiamo un carteggio tra Anna Maria Ortese e una misteriosa R.

E’ una buon sistema per introdurci nella biografia della Ortese, dalla sua infanzia poverissima, alle sue prime prove letterarie, dal viaggio in Russia, ai premi letterari. Fino a giungere al 1968, dove si insinuerà un legame tra le due linee narrative.

Questa scrittrice ha lottato per tutta la vita contro le difficoltà finanziarie, le malattie e i lutti familiari. Ha dovuto abbandonare la scuola e cambiare abitazione decine e decine di volte. Si è data all’impegno politico nella sinistra per molti anni, ma poi lo ha abbandonato.

La sorella Maria l’ha aiutata finché ha vissuto ed è stata in salute, ha vissuto con lei, ha condiviso le spese (anzi, spesso le ha sostenute e basta), senza mai abbandonarla per sposarsi.

E certo, la scrittrice, donna non sposata e povera, ha faticato non poco a tirar avanti.

Non credo sia un caso che nei suoi libri abbia preso le parti dei poveri, dei “periferici”, fossero bambini, animali o abitanti della città e della campagna.

La parte del libro che ho apprezzato di più è stato il carteggio tra le due donne adulte, la Ortese e la misteriosa R. Il linguaggio è maturo, belle le metafore e la ricostruzione della biografia.

La parte incentrata sulla piccola Anna Cannavò l’ho trovata un po’ stucchevole: certo, il linguaggio sgrammaticato era necessario, considerato il background della bambina, ma il personaggio è un angioletto di carta, sempre pronto ad aiutare, vittima del mondo degli adulti, ingenua all’inverosimile.

Non ho mai conosciuto bambine siciliane degli anni Sessanta, però la si è dipinta in modo troppo perfetto, senza sfumature: è necessario che lei si meravigli di tutto, ma che allo stesso tempo faccia aprire gli occhi su molti aspetti che prima venivano ignorati, è solo bontà al limite del diabete.

Sì, la sua figura era necessaria nel contesto, ma mi sembra che manchi di libertà: la libertà di fare un capriccio, di pensare male di qualcuno che le sta attorno… di essere una bambina vera, insomma.

Ma forse sono io smaliziata.

Ad ogni modo, lo ho letto in due giorni, dunque non mi è dispiaciuto!

Non solo. Il libro mi ha così incuriosito, che ho già iniziato un romanzo della Ortese…

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E’ l’11/09: ma l’esercito statunitense sa farsi odiare

Senza nulla togliere alle colpe di chi ha attaccato le Torri gemelle… ma per pura coincidenza ho finito oggi di leggere “Il racconto del disertore” di Joshua Key, e il ruolo da vittima dell’11/09, sul quale gli americani puntano tanto, va molto ridimensionato (anche se poi a rimetterci sono sempre i civili).

L’invasione dell’Iraq ha sfruttato l’ondata emotiva dell’11/09 per motivi strategici e di potere che hanno poco a che fare con le Torri Gemelle e le loro vittime, questo lo sanno tutti, ma leggere il racconto di Key ce lo ricorda con molta vividezza.

Innanzitutto, guardiamo come lo hanno reclutato.

Joshua Key viveva in Oklahoma in una roulotte insieme alla famiglia. La madre passava da un compagno all’altro, da una scarica di botte a una settimana di depressione che non la faceva alzare dal letto. Lui, fin da piccolo, impara a maneggiare armi e fucili anche di grosso calibro: passa il tempo libero a scorrazzare per le strade e a distruggere con la mazza da baseball le cassette della posta dei vicini.

In paese regna sovrano il razzismo: neri, asiatici, arabi sono diversi, inferiori, pericolosi.

Libri e giornali in casa non se ne vedono, l’alcool è un compagno quotidiano e quando non c’è da mangiare, i bambini devono andare dal nonno per rimediare un boccone.

In questa situazione, i reclutatori dell’esercito si presentano alla porta e offrono uno stipendio fisso, l’assistenza sanitaria (oh, l’assistenza sanitaria!!) e 20.000$ di copertura spese universitarie.

Attenzione: i reclutatori non si presentano alle porte dei medici, degli ingegneri, dei politici. Vanno dai morti di fame, tanto che il loro lavoro negli States viene denominato “Caccia al povero“.

Ma doppia attenzione: quando Joshua Key si trova sul lastrico con una moglie, due figli piccoli e un terzo in arrivo, e decide di arruolarsi per tirar su qualche soldo, perché non ha neanche i mezzi per farsi togliere i calcoli renali, va dai marines.

E col cavolo che i marines lo prendono: famiglia troppo numerosa e, soprattutto, troppi debiti col fisco e con la carta di credito. Non vogliono mica le cacchette, i marines.

Al ragazzo non resta che provare con l’esercito. E là l’accoglienza è completamente diversa. Il reclutatore lo tratta gentilmente, gli offre sempre dolci e caffé (che per Joshua all’epoca erano quasi dei lussi), lo invita ad andare a fare jogging insieme. Un amico, quasi.

Quasi.

Perché Joshua non sta cercando di andare in guerra. Il suo scopo è far sopravvivere la sua famiglia: chiede più e più volte se sarà obbligato ad uscire dal suo paese, se sarà obbligato a partecipare ad azioni militari, e ogni volta lo rassicurano dicendogli che dovrà solo far saltare e costruire ponti nel suo paese.

Per legge, con una famiglia numerosa come la sua, lui non potrebbe arruolarsi, ma il reclutatore gli dice di non far menzione del terzo figlio in arrivo e di non far girare la moglie nei pressi della base militare.

Quando poi gli fanno firmare l’ultima documento, non gli fanno neanche leggere tutto il contratto, gli fanno saltare le clausole scritte in piccolo, e lui si fida. Non è abituato a leggere, e poi là sono tutti gentili, perché dovrebbero cercare di fregare uno del loro paese?

Durante l’addestramento gli insegnano ad odiare i musulmani. Non si parla mai di civili: gli iracheni sono sempre pericolosi, terroristi, assassini. I civili non vengono neanche nominati, come se non ce ne fossero.

Arrivato in Iraq, fin da subito è chiaro che tutte le promesse fattegli dal reclutatore erano aria fritta.

Joshua deve partecipare ai raid nelle case dei civili: lo scopo è trovare armi (magari di distruzione di massa) e arrestare tutti i maschi sopra il metro e cinquanta di altezza, indipendentemente dall’età.

In più di 200 raid, in sei mesi e mezzo di attività in Iraq, Joshua non troverà mai nessuna arma. Se ce ne sono, sporadiche, sono quelle che quasi ogni americano medio tiene in casa per difesa personale. Nelle case ci sono di solito donne e bambini, e gli uomini/ragazzi che vengono portati via (non si sa dove) non mostrano nessun tipo di aggressività. Terroristi: zero.

Non è che la sua squadra non venga mai attaccata: si trovano spesso sotto una pioggia di granate, ma non sono mai riusciti a vedere un iracheno armato.

La frustrazione è alta, dormono in media due ore per notte, il rancio fa schifo, cadono bombe, la temperatura si attesta sui 40-45°C, non ci sono né acqua corrente né servizi igienici (la merda deve venir bruciata in un calderone ogni due giorni): stiamo parlando di ragazzi che non sono abituati a controllare i propri impulsi, che negli USA vivono in case o roulotte fatiscenti.

Non ci vuole tanto prima che inizino a sfogarsi sui civili.

Distruggono le case in cui entrano: fanno uscire donne e bambini e iniziano a spaccare mobili, pavimenti, pareti, frigoriferi, tutto. Armi non ne trovano, ma appena un civile apre bocca, lo prendono a calci e pugni. I soldati arraffano tutto quello che vogliono: soldi, gioielli, tappeti.

Anche Joshua si comporta così nei primi tempi: gli iracheni non gli appaiono come esseri umani, non hanno diritto di proprietà. E poi l’esercito americano gode di impunità, possono fare quello che vogliono, nessuno li ferma.

Poi qualcosa scatta.

Vede dei soldati giocare a palla con le teste di alcuni civili. Vede scoppiare la faccia di una bambina di sette anni che era andata a chiedergli da mangiare. Vede i commilitoni picchiare gente innocente senza motivo. E nessuno dice niente. Lui stesso non può dire niente: chi ci prova si vede lo stipendio dimezzato, come minimo.

Joshua, prima di partire per l’Iraq, credeva nel suo paese e nel suo presidente, come ogni americano medio. Guai a parlargli male degli Stati Uniti, che per lui erano incaricati di mantenere la pace nel mondo e di portare la democrazia ai paesi che non la conoscevano. Sembrano parole ridicole per noi, ma per loro siamo quasi a livelli di fede.

Il suo sogno era vivere per sempre nel suo paesino e fare il saldatore per mantenere la famiglia: al momento presente si trova in esilio in Canada, dove spera che gli concedano l’asilo politico.

I Joshua sono tanti. L’esercito americano è grande, ed è sparso per il mondo. Anche in Italia. Sono soldati addestrati per uccidere che sono convinti della superiorità morale del loro paese, bevono questa convinzione col latte della colazione fin da piccoli.

Key si è accorto che il sistema era tutto sbagliato, ma quanti come lui riusciranno ad abbandonare una vita di credenze così radicate?

Mi chiedo quale potrebbe essere un buon antidoto a questo offuscamento di massa. Il fatto che non avessero libri in casa e che la lettura non rientrasse nel loro schema mentale mi sembra un sintomo del problema. Ma i libri si lasciano scrivere sia a favore che contro determinate campagne.

No, l’antidoto non sono i libri in sé, ma l’autoconsapevolezza. Il ragionamento. L’educazione.

Ci vuole tempo. Qualche generazione, forse.

Di certo, qualcosa bisogna fare, altrimenti, come specie umana, non ci evolveremo mai.

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Memoirs of a Muse – Lara Vapnyar

imageTanja’s dream is to become a muse, like Polina for Dostoevskij. When she goes in the United States she thinks that she has found his artist in Mark Schneider, a writer with beard and luxury flat.
But, strangely, Mark doesn’t write all the time. He doesn’t talk a lot about books and – very odd! – he doesn’t read a lot either. But Tanja is patient, because she knows that artists cannot be forced to create.

She needs several years before noticing that her Mark isn’t Dostoevskij, and that his artistic aspiration are bigger than his talent. Not only he reads Writerscom’ biographies to check what he has in common with famous Writers, but he is also very envious of other Writers whom he knows.

At the end of the novel, Tanja has almost forgotten her first dreams, she has married (not the writer) and got a child, when, suddently, she finds out that she has been the muse of someone…

Nice novel, because I – too – would have loved to become the muse of a writer, but gave up when I saw that there was no Canetti nor Veronesi nearby
But very deep are also the parts where Tanja conceals to herself that Mark is just an egoistic looser. Just another point of view on women who love men not because of their personalities, but because of dreams.

Dreams are important, but if you want to live, you must be awake.

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