Dove sei? (Marc Levy)

Ho preso un libro di Marc Levy perché me lo aveva consigliato Robin MacPherson nella sua lista di libri per lettura estensiva in francese. Diceva che mentre leggeva Levy si ritrovava a ridere e a piangere, a seconda degli argomenti.

Penso però di aver preso in mano, tra tutte le opere di questo prolifico autore francese, il libro meno letto e recensito.

La storia riguarda Susan e Philip. Sono innamorati fin da bambini, ma lei è inquieta: a vent’anni va in Honduras e si dedica anima e corpo alle popolazioni costantemente al limite della sopravvivenza tra inondazioni e guerre.

Susan e Philip si incontrano una volta ogni uno o due anni all’aeroporto, ad un tavolo che ormai è diventato loro, davanti a un gelato spruzzato di noccioline e cioccolata. Hanno poche ore per raccontarsi quello che non si sono detti per lettera, ma spesso finiscono per litigare, perché nessuno dei due capisce la scelta dell’altro.

Philip, pur pensando costantemente a Susan, non riesce ad abbandonare New York e il suo lavoro di pubblicitario, e Susan non riesce ad abbandonare i suoi poveri, nonostante i rischi a cui anche lei è sottoposta.

Per metà libro la storia va avanti così…

Poi succede qualcosa, ma a questo punto Philip è già sposato con Mary e ha un figlio di cinque anni.

Devo ammettere che questo libro non mi ha dato grandi emozioni, l’ho trovato piatto e monotono, perfino nella parte in cui Susan rischia di essere ingoiata da un mare di fango. Susan, poi, non mi è simpatica: che senso ha tenere Philip al laccio per tutto quel tempo sapendo che non vivrete mai insieme?

Ora capisco perché non si trovano tante recensioni in giro…

Le storie a distanza non funzionano e Levy ha voluto scrivere un romanzo proprio su questo mancato funzionamento, nonostante l’amore di un passato comune. Le lettere che si scambiano hanno velleità di essere romantiche, ma non riescono nello scopo.

Insomma, ho finito di leggerlo solo perché dovevo far esercizio col tedesco.

Qualcuno lo conosce? Vi è piaciuto?

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Tommaso Avati ha presentato il suo ultimo libro a S. Stino di Livenza (VE)

Ho davvero dovuto vincere la mia pigrizia ieri sera, per andare in Municipio ad assistere alla presentazione di “La ballata delle anime inutili”, ma non potevo perdermela. Il libro, edito da Neri Pozza, è uscito l’anno scorso e, a giudicare dalle classifiche di vendita, piace.👏

Il romanzo è ambientato nel Gargano nel 1938. La protagonista è la tredicenne Sofia, unica figlia di un padre padrone: la chiamano Vermitura, che in dialetto significa “chiocciolina”, perché è lenta, non riesce a farsi entrare i numeri in testa. Con le parole, però, è un’altra storia…

La vicenda di Sofia si intreccia con gli avvenimenti realmente accaduti a un personaggio storico, Donato Manduzio, un contadino che, nel bel mezzo dell’ondata antisemitica e delle leggi razziali, riesce a convertire il suo paese, San Nicandro, all’ebraismo… con le conseguenze che possono derivarne.

Quando Tommaso Avati è entrato, la mia primissima impressione è stata di trovarmi davanti a una persona cupa, controllata, pensosa. La barba toglie sempre un po’ di allegria alle facce e anche questa volta mi ha indotto in errore.

Nel corso della serata si è rivelato come un uomo aperto allo scambio di idee, forse un po’ timido, ma con una dose di coraggio che gli ha permesso di parlare anche di problemi personali che gli hanno reso la vita difficile per molto tempo. Insomma, è piaciuto anche a mio marito, che ho trascinato alla presentazione minacciandolo di non cucinargli più le mie famose ricette.

O forse lo ho minacciato di cucinargliele più spesso? Boh, non ricordo.😈

Interessante l’evoluzione della carriera di Avati. Inizia come sceneggiatore accanto al padre Pupi, ma ben presto si accorge che il mondo del cinema non gli offre la libertà di cui sente il bisogno: le sceneggiature sono fortemente influenzate dal ragionamento economico, e poi quasi mai si scrivono da soli, bisogna tener conto dei desideri del produttore o mediare le proprie idee con quelle degli altri sceneggiatori.

Quando ha iniziato a scrivere romanzi, invece, si è subito accorto della libertà che offrivano.

“E’ questo che voglio fare!” ha detto.

Il romanzo affronta diversi temi, lui ce ne ha presentati un paio.

La questione femminile: la scelta è legata in qualche modo al libro precedente, che parlava di tre donne con problemi di sordità. Una volta posata la penna, si è accorto che non aveva sviscerato abbastanza il tema delle donne nel Novecento e così ha iniziato a prendere forma il personaggio di Sofia.

Ma è ancora più curioso il modo in cui Sofia si è sviluppata sulla carta. Questa ragazzina ha delle caratteristiche strane. Innanzitutto, attribuisce una grandissima importanza alle parole: per lei una parola non ha mai un solo significato, il suo contenuto può cambiare, e alcune parole sono così enormi da non poterle pronunciare mai. Inoltre, quando entra in casa, bacia la porta.

Ebbene, solo dopo aver sviluppato questi piccoli tic, l’autore ha scoperto che entrambi i comportamenti sono tipici della cultura ebraica. Ed è qui che è scattato il collegamento con una storia che aveva sentito decenni prima: la storia di Donato Manduzio (la questione ebraica, il secondo tema di cui ci ha parlato).

I giri che fa la creatività sono proprio affascinanti…

Alle presentazioni dei libri si impara sempre qualcosa di nuovo.

Per esempio…

Avati ha fatto naturalmente le sue ricerche per affrontare gli argomenti del romanzo e ha scoperto che quando in Italia esisteva il vero patriarcato, nel secolo scorso, di femminicidi quasi non ce n’erano, i numeri non erano neanche paragonabili a quelli di oggi. Non vuole essere una difesa del patriarcato, ma fa pensare: quando la donna rompe un ordine precostituito, per quanto pesante e opprimente, il numero dei femminicidi aumenta.

Insomma, sono contenta di aver sconfitto la mia pigrizia serale essere uscita di casa.

L’autore non ha avuto timore di ammettere certi dubbi e idiosincrasie personali, e di parlare dei suoi problemi di sordità con la sofferenza che ne è derivata.

O forse ce l’ha avuta, un po’ di paura.

Ma solo se c’è paura ci può essere coraggio.

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Equalizer 3: gli stereotipi sugli italiani

Guardo sempre volentieri un film d’azione, anche se poi ci sono certi aspetti che fanno pensare.🤔

Innanzitutto, nel film, un medico italiano parla di mafia, ‘ndrangheta e camorra come se fossero sinonimi: non lo sono. Ma adesso gli americani lo penseranno (vabbè, poco male, a volte neanche noi italiani sappiamo distinguerle).

Poi ci sono alcune scene che sono davvero inverosimili.🤣

Come il carabiniere che viene picchiato a casa dai mafiosi perché ha osato informarsi su un numero di targa di alcuni incendiari. O, ancora peggio, la scena in cui il capo-mafioso picchia lo stesso carabiniere nello spiazzo di un condominio, minaccia un’esecuzione e chiama tutti gli abitanti per guardare cosa sta facendo: adesso gli americani penseranno che siamo in balia di questa gente, che non chiamiamo le forze dell’ordine, o, forse, che tutte le nostre forze dell’ordine sono corrotte.

L’idea degli “italiani brava gente” è dura a morire. Gente un po’ stupidotta, ma tanto gentile, che ti regala il pesce perché sei amico di un amico (ma dove???), o che ti corre dietro in strada per venderti un cappello.

Ah, poi, sentite questa: la bellina di turno invita Denzel Washington a mangiare il vero cibo del paesello. Lo porta a una sagra e le danno un piatto di… Kebab!!! Ma santo cielo, il Kebab è siciliano?? Ma chi gliel’ha scritta la sceneggiatura a questi? (Richard Wenk)

Senza parlare del fatto che nessuno paga i due piatti!

E ovviamente non poteva mancare la scena finale dove tutti si mettono a ballare dopo aver vinto una partita di pallone (o un torneo, non so).

Per favore, abbiate pietà di noi italiani…

Infine, una richiesta di aiuto ai doppiatori: per favore, doppiate gli attori italiani, altrimenti non si capisce niente 😓di quello che dicono. Non solo perché parlano dialetti regionali (come se tutti gli italiani capissero il siciliano o il napoletano), ma anche perché si mangiano letteralmente le parole. Quando nel film parlavano gli attori italiani, ho capito la metà di quello che dicevano. Anche io parlo veneto con amici e parenti, ma se devo farmi capire da gente che non conosco, parlo italiano!


STEREOTYPES ABOUT ITALIANS

I always like to watch an action movie, although sometimes there are certain aspects that make one think.🤔

First, in the movie, an Italian doctor talks about mafia, ‘ndrangheta and camorra as if they were synonyms: they are not. But now Americans will think so (whatever, no big deal, sometimes even we Italians can’t tell them apart).

Then there are some scenes that are really far-fetched. 😓Like the carabiniere who is beaten at home by the mobsters because he dared to inquire about a license plate number of some arsonists. Or, even worse, the scene in which the Mafia boss beats up the same carabiniere in the forecourt of an apartment building, threatens an execution, and calls all the residents to watch what he is doing: now Americans will think we are at the mercy of these people (we aren’t), that we don’t call the police (we do), or perhaps that all our law enforcement is corrupt (they aren’t).

Ah, then, get this: the cute girl invites Denzel Washington to eat real village food. She takes him to some kind of festival and they give her a plate of…. Kebab!!! But my goodness, Kebab is Sicilian?😤 But who wrote the script for these guys? (Richard Wenk)

And of course, the final scene where everyone starts dancing after winning a ball game (or a tournament, I don’t know) could not be missed.

Please have mercy on us Italians….

Finally, a plea for help to the voice actors: please dub the Italian actors, otherwise we (italians) cannot understand anything they are saying. Not only because they speak regional dialects (as if all Italians understand Sicilian or Neapolitan), but also because they literally eat their words. When the Italian actors spoke, I understood half of what they were saying. I also speak Veneto with friends and relatives, but if I have to make myself understood by people I don’t know, I speak Italian!

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La stanza dei libri (Rosemarie Marschner)

E’ una mia impressione o gli autori austriaci sono poco presenti sugli scaffali delle librerie italiane?

Nel caso di questo libro, è un peccato che non sia stato ancora tradotto, e invito qualche casa editrice italiana a occuparsene, perché potrebbe vendere bene.

Bella la storia: nel primo dopoguerra, Maria è figlia di una ragazza madre della campagna austriaca. Suo padre era un ricco nobile che non ha avuto il coraggio di seguire il suo cuore e che ha dovuto obbedire ai dettami della sua famiglia, abbandonando la donna di cui era innamorato.

A sedici anni, Marie viene mandata a servizio presso una ricca famiglia di Linz. Qui si farà notare per la sua buona volontà e, soprattutto, verrà “presa in prestito” dal vecchio signore, che tutti sopportano a malapena, che non ci vede più bene e che ha bisogno di qualcuno che gli legga i giornali.

E’ così che Marie viene a conoscenza dei fatti del mondo: il nazismo si sta facendo strada. Il vecchio notaio se ne è accorto e attira la sua attenzione su piccoli dettagli e accadimenti che restano ignorati dalla maggioranza.

Marie si innamora, senza speranza, di un amico della figlia della padrona: sa però che la differenza di classe non perdona e non si fa illusioni.

Dopo la morte della madre, quando si ritrova sola e senza un lavoro, accetta la proposta di matrimonio del figlio del panettiere della città: crede di amarlo, ma quello che l’ha spinta a questa decisione è pura solitudine, e se ne accorgerà poco a poco, quando la suocera inizierà a metterla alle strette per la sua nascita “peccaminosa”.

Gli eventi precipitano con l’annessione dell’Austria alla Germania e l’arrivo dei tedeschi, che incominciano subito a far da padroni e a espropriare case e immobili per costruire industrie.

Non vi racconto come va a finire, ma è un bel romanzo.

I personaggi sono ben delineati: Marie è una contadina, ma non è stupida, e non è neanche una vittima lamentosa. Anche i personaggi secondari sono ben descritti: la signora che si mette la crema al radio sul viso (non finirà bene), il vecchio notaio che sogna una ex servetta formosa, la suocera che è animata da desideri di rivalsa, il marito che è infatuato della mogliettina ma che non sa ribellarsi alla madre, lo zio che vuole bene a Marie ma che è intriso di cultura contadina, ecc…

Tanti i temi toccati, faccio solo alcuni esempi: il tema della nascita vergognosa e del senso di estraneità, le distinzioni di classe, il nazismo e il dissenso, la libertà e le regole sociali.

Se qualche editore mi sta leggendo: dovete tradurlo. Non escludo una versione cinematografica.

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Spillover (David Quammen)

Questo libro è stato scritto nel 2012 e ha praticamente previsto come sarebbe nata la pandemia di Covid19.

Racconta come sono nate tante “piccole” epidemie virali, da Hendra in Australia, la SARS, Ebola, Nipah, l’AIDS…

Ci spiega per esempio l’evoluzione della febbre Q (questa, causata da un batterio), che si è sviluppata nei Paesi bassi negli allevamenti intensivi (e che ha causato un cambiamento nel tipo di animali allevati).

Ci parla della malattie di Lyme, causata dalle zecche, un batterio antibiotico-resistente (e sì, io farò vaccinare mio figlio).

Ci racconta come gli scienziati vanno nei luoghi dimenticati da Dio (ma non dall’uomo…) per raccogliere indizi che permettano loro di capire come un virus si trasmette.

Ci dice quando probabilmente il primo virus dell’AIDS è passato all’uomo (nel 1908!) e come mai non è diventato un’epidemia fino agli anni Settanta e Ottanta (ha molto a che fare con le campagne di vaccinazione in Africa, quando ancora non usavano le siringhe usa e getta, ma non solo).

Ci spiega che in un piccolo boschetto è più probabile che certi ceppi virali o batterici imperversino, rispetto a una grande foresta.

Ma soprattutto ci fa capire che i virus sono sempre esistiti, e che se negli ultimi decenni le epidemie si sono fatte più frequenti e pericolose, non è un caso.

L’uomo occupa ogni angolo della terra. Siamo il mammifero che più si è sviluppato negli ultimi secoli, ad un ritmo che non è naturale. Raggiungeremo un punto di crescita oltre il quale non si potrà andare, e poi la curva di crescita comincerà a scendere.

La causa potrebbe essere proprio un virus, e probabilmente un virus a RNA (come il Covid19), perché più instabile, e dunque più soggetto alle mutazioni (più mutazioni ci sono, più è probabile che insorgano mutazioni favorevoli alla sua diffusione nell’uomo).

E se il prossimo virus verrà dai pipistrelli, che saranno il suo serbatoio naturale, non meravigliamoci: un mammifero su quattro è un pipistrello. Questi animaletti sono serbatoio naturale di molti virus perché sono antichi, vivono in colonie di migliaia di individui che stanno sempre vicini vicini (tipo; tremila individui per metro quadrato!) e possono spostarsi di decine di chilometri ogni stagione.

Se loro rimangono nel loro ambiente e noi nel nostro, non succede niente. I problemi incominciano quando noi andiamo a distruggere le loro foreste per andarci ad abitare o per piantarci allevamenti, industrie e agricoltura.

Insomma, io sono rimasta incollata al libro come se fosse stato un thriller.

Dovete leggerlo! Se noi comuni mortali siamo rimasti sorpresi dalla pandemia di Covid (e purtroppo anche i politici che ci governano), gli scienziati lo sono rimasti un po’ meno. Si è semplicemente evidenziato un meccanismo che è in atto da sempre.

Se continuiamo così, saremo gli artefici dell’inversione della curva della nostra crescita.

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Ninfa dormiente (Ilaria Tuti)

Primo libro che leggo di Ilaria Tuti: promossa!! Soprattutto grazie allo stile curato, mai banale, e alle belle metafore e similitudini.

Teresa è un commissario di quasi sessanta anni, e già qui mi piace la scelta di una protagonista che non è giovane e bellissima: la sua mente la sta abbandonando e i casi di amnesia sono sempre più frequenti, ma cerca ancora di tenerlo nascosto per poter lavorare con la sua squadra, ovviando ai vuoti di memoria grazie a un piccolo diario su cui scrive di tutto, in continuazione, e che non mostra a nessuno.

Il caso che le capita, e che forse è l’ultimo che riuscirà a seguire, riguarda un ritratto che è stato dipinto col sangue durante la seconda guerra mondiale da un pittore che è ancora vivo, ma che da decenni non apre più bocca né esce dalla sua camera.

Insieme a lei lavora Marini, un giovane poliziotto con un passato che lo tormenta e che non riesce a mettere in ordine la sua vita privata, soprattutto dopo aver scoperto che la sua compagna è incinta.

Le indagini portano Teresa e Marini in Val Resia, dove vive una popolazione dalle origini lontane e che è riuscita fino ad ora a vivere senza abdicare alle proprie tradizioni. Lì conoscono Francesco, il nipote della ragazza ritratta nel dipinto, e iniziano a scavare nel suo passato.

Il romanzo ha una scrittura che mi ha catturato subito, nonostante certi piccoli difetti.

Ad esempio: parlano tutti come libri stampati, ed è poco probabile, quando ci si ritrova tra montanari che non si sono spostati dalla loro vallata (ma, ripeto, a me questa scrittura piace, dunque è un difetto che non mi è pesato per nulla: magari nella vita parlassero tutti così!).

Un altro esempio: è poco verosimile che Teresa, con le sue amnesie, sia ancora in grado di portare avanti l’indagine. Sembra che i vuoti di memoria siano davvero selettivi, e non le impediscono di scoprire il colpevole. E’ un po’ sforzato…

Inoltre, l’assassino che ha ucciso il vecchietto (non dico altro) sembra essere a conoscenza delle tecniche investigative odierne: alla fine, quando si scopre chi è, mi sono chiesta come faceva… ma non posso spiegare altro, quando lo leggerete, mi direte.

Infine, ma questa è una fisima mia… si parla molto di maternità, genitorialità e gravidanza. A mio parere, la gravidanza è troppo poeticizzata. Siamo otto miliardi sulla terra, oggigiorno: la gravidanza è un momento unico per ogni donna, ma tutte questa magia mi sembra un po’ esagerata.

Ho descritto quali sono i punti deboli, a mio parere, ciò non toglie che il voto sfiora le 5 stelline, e vedrò di leggere altri libri di Ilaria Tuti. Brava!

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I love shopping a New York (Sophie Kinsella)

Quando leggo un romanzo ho bisogno di trovare qualche aspetto del protagonista in cui riconoscermi. Anche negli antagonisti.

Con questo romanzo della Kinsella, ho fatto fatica.

Non c’è niente più lontano dalla mia persona dell’idea di indebitarmi; e niente è più lontano dalla mia mentalità di indebitarmi per… acquistare vestiti e accessori!

Ma dovevo esercitarmi nella lettura estensiva in tedesco e ho tenuto duro.

Ho però faticato a trovare il piacere della lettura, seguendo le disavventure di questa ventiseienne malata di shopping che si autogiustifica ad ogni pie’ sospinto, che racconta bugie come una bimbetta di sei anni, che si affida all’oroscopo, che nutre sogni campati in aria, che di una persona guarda prima cosa indossa e poi la faccia, e che si fa chiamare esperta di finanza senza mai dimostrarlo.

Per più di metà libro, combatte con la banca per farsi alzare il fido, poi va a New York col fidanzato, dove spende e spande, ma dove tutti i suoi sogni sono infranti.

E qui incomincia a piacermi un po’: il dramma. Il disastro. E tutto per colpa del suo vizietto: ben ti sta, ho pensato. Svegliati! Insomma: compassione zero!

Ho trovato superficiale il suo rapporto con l’amica Suse, che si fa prendere per il naso, e stereotipato il fidanzato Luke (soprattutto alla fine). Banale la nemica, e standardizzata la famiglia.

Però mi sono ritrovata nella sua voglia di cambiar vita. Quando tutto è a rotoli, finalmente trova il modo di sistemare le sue finanze e decide di ricominciare da capo. Ecco: i nuovi inizi mi piacciono.

Peccato però che per farmi piacere il libro, sia dovuta arrivare a tre quarti…

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Libro illeggibile (per me…)

Vicino al cuore selvaggio (Clarice Lispector)

Diciamolo: l’Ulisse di Joyce doveva essere scritto per mostrarci che si poteva scrivere in modo diverso. Ma vorrei sapere quanta gente lo ha letto davvero. Alla fine, non è questo che conta?

Ecco, “Vicino al cuore selvaggio”, è un libro che, come l’Ulisse di Joyce, si abbandona al flusso di coscienza. La scelta delle parole non è monotona, non è sciatta, anzi.

Solo che non si capisce davvero cosa stia dicendo.

Vuole farci capire che le parole non possono esprimere un cuore selvaggio, ci si può andare solo vicino, ma è come avvicinarsi a una stella: muori bruciato senza davvero sapere cosa è una stella!

Insomma, non sono riuscita ad andare oltre le prime 22 pagine, scusatemi… Qualcuno lo ha letto e riesce a convincermi ad andare oltre?

“Forse era solo mancanza di vita: stava vivendo meno di quello che poteva (…)”.

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Una vita da lettore (Nick Hornby)

Hornby non rientra nella lista dei miei scrittori preferiti, ma questo libro parlava di libri, non potevo non leggerlo! Si tratta di una raccolta di articoli che l’autore ha pubblicato su un periodico letterario, il Believer (che in Italia non esce). Già qui, mi sa di trovata economica: raccogliamo materiale già pubblicato in un’altra forma per vendere un po’ (più o meno quello che fanno con la Fallaci e tanti altri)

Lo stile è invariabilmente Hornby: tanto umorismo. Tanto. Spesso, scagliato contro la direzione editoriale della rivista, il cui credo dice “mai stroncare un libro”.

Il messaggio che però dobbiamo portare a casa è questo: leggi quello che ti piace.

Non leggere un’opera perché devi far colpo, o perché i giornali o gli amici o i critici dicono che devi leggerla.

“Leggere per diletto è una cosa che dovremmo fare tutti. (…) Se non leggete i classici o il romanzo che ha vinto l’ultimo Booker Prize, non vi succederà niente di male e, soprattutto, se li leggete non vi succederà niente di straordinario”.

“La vostra incapacità di godervi un romanzo reputatissimo non significa che siate ottusi”.

“Se si desidera che la lettura sopravviva come attività di svago, (…) allora dobbiamo fare pubblicità alle gioie che ci regala, più che ai suoi (dubbi) benefici”.

Se la prende con critici, scrittori, riviste, giornali e intellettuali che vogliono farci sentire stupidi perché leggiamo “Il codice Da Vinci”, e non gli do torto.

Lui veleggia tra letture di piacere e letture un po’ meno di piacere, perché deve scriverne sulla rivista. Molte biografie e autobiografie, come si conviene a un autore anglosassone, ma non disdegna una partita di calcio o un concerto.

Come me, compra un sacco di libri (di cui moltissimi usati), pur sapendo che non riuscirà mai a leggerli tutti, ma tanti gli arrivano da colleghi o editori. E non teme di ammettere che un libro può non piacergli! E allora che si fa? Non riesce a scriverne una recensione “de-acidificata” per il Believer… ma qualche punzecchiatura non la risparmia (al massimo, non fa nome e titolo dell’opera).

Mi piacciono i libri che parlano di libri. Il problema di questo, non è l’ironia di Hornby, che ogni tanto mi dà l’impressione di avere come bieco scopo il riempimento di qualche colonna della rivista.

Il vero problema è che il 90% degli autori che nomina… non li ho mai sentiti!!!

Certo, ci sono la Marylinne Robinson, Melville, Ian McEwan, Thomas Harrys (che è suo cognato), Dickens, Coe, Moehringer… ma la maggioranza sono scrittori che qui in Italia non sono neanche stati tradotti. Dopo un po’, ci si stanca di leggere di trame che non si conoscono, e i commenti di Hornby saranno pure culturali, ma non conoscendo i libri, appena giro la pagina ho già dimenticato cosa ha detto.

Peccato.

Ci vorrebbe un libro del genere ma scritto da un autore italiano, per il mercato italiano. Magari esiste già?

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La donna in bianco (Wilkie Collins)

Wilkie Collins, nominato da alcuni “padre del poliziesco moderno” e nato nel 1825, fu uno dei più prolifici autori vittoriani.

Servendosi dei suoi studi di legge (era avvocato, anche se non esercitò la professione), ha scritto alcuni romanzi a tema poliziesco.

In questo, essendo un romanzo vittoriano, il crimine è diluito, mai volgare, e se muore qualcuno, non c’è quasi sangue.

Walter Hartright è un insegnante di disegno dalla vita regolare, ai limiti della noia. Una sera incontra una donna completamente vestita di bianco che parla in modo strano e rapido, preda di una forte emozione. Non riesce a capire da dove arrivi, né dove sia esattamente diretta, ma quando i due si dividono, il maestro di disegno vede una carrozza a bordo della quale ci sono due uomini che la stanno cercando: vengono dal manicomio.

Poco tempo dopo, il maestro viene assunto da un miliardario, col compito di recarsi nella sua magione a insegnare il disegno alle due nipoti. Hartright si innamora di Laura, la sorella più bella (per quanto insipida, a mio parere).

Lo zio che lo ha assunto è un ipocondriaco che non esce mai dalla stanza, che non sopporta la luce né il fruscio delle vesti. Insopportabile: ti viene voglia di tirargli uno dei quadri che il maestro deve catalogare o di strozzarlo col fazzolettino che si mette davanti al naso per non sentire gli odori.

Il dramma ha inizio quando Hartright scopre che la sciacquetta di cui si è innamorato deve sposare un baronetto per dare seguito alle disposizioni del defunto padre. E guarda caso, la donna in bianco che aveva incontrato mesi prima, gli aveva proprio detto di stare alla larga dai baronetti…

Smaliziati come siamo, troviamo scontati gli scambi di persona, le coincidenze spinte e le fragili donnine da proteggere, ma la lettura di questo romanzo è piacevole.

Certo, ai vittoriani piaceva pensare che le giovani fossero deboli e bisognose di un uomo a cui affidarsi. Le donne stesse si giudicavano incapaci, poco intelligenti, “traviate”, dice l’intelligente sorellastra di Laura. E non è facile (per me) accettare questa figurina tremante, a cui non si può neanche nominare certi eventi, perché altrimenti sviene…

Ma la vacuità di questa tizia (che non è neppure capace di disegnare bene, nonostante lo zio le abbia pagato un insegnante privato) è compensata dalla trama, dove i misteri si infittiscono, e da altri personaggi con più spessore.

Cattivo o no, a me piace il conte Fosco: Laura e la sorella lo odiano fin dal primo momento, ma lui è un esteta, uno che si diletta di chimica, che si intende di arte. Furbo e pericoloso, grasso e brutto, ma affascinante e intelligente.

La storia viene raccontata – diversi anni dopo i fatti – da vari personaggi che parlano in prima persona della vicenda di cui hanno fatto esperienza diretta. E’ un bel modo per dare movimento alla trama e ai punti di vista.

Esco dal seminato se parlo della situazione della donna nell’Ottocento? Laura e la sorella Marian appartengono all’alta società, e loro per prime si considerano esseri secondari alle dipendenze degli uomini. Ma anche la moglie del conte Fosco non ha personalità, se non in funzione del marito, che idolatra. Senza gli uomini, cosa sarebbero? Così pensano le donne del romanzo.

Eppure proprio pensando così venivano accettate dai lettori di questi romanzi (pubblicati a puntate sulle riviste). Così si tramandava l’immagine del sesso debole come “debole”.

Delle donne forti si sottolinea sempre qualche lato negativo. Ad esempio, la madre della donna in bianco, per anni ha dovuto lottare contro le malelingue.

Marian, la sorella sveglia di Laura, è coraggiosa, e per quanto si ammali e rischi la morte per un raffreddore, non ha paura di parlare apertamente con Hartright della macchinazioni del conte Fosco e delle intenzioni del baronetto che sposa Laura solo per i suoi soldi. Ma Marian è brutta. La sua bruttezza è quello che Hartright vede appena lei si gira per dargli il benvenuto nella loro casa. Brutta come poche. E passerà la sua vita a fare compagnia alla sorella e la baby sitter ai suoi figli, senza mai sposarsi.

Non si poteva accettare la figura di una donna contemporaneamente bella e intelligente, non sarebbe stata un’appendice giusta per un uomo.

Hartright non ci parla mica con Laura: la contempla. Ammira il colore del suo incarnato, le mani affusolate, perfino i suoi disegni ingenui. Insomma, non ha scelto una persona, ma un soprammobile di porcellana.

Ma se riuscite a sopportare questi anacronismi (!), il libro è piacevole, sul serio.

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