Ho letto il primo capitolo de Lo Hobbit di Tolkien…

Molti lo considerano l’antefatto de Il Signore Degli Anelli, ma in realtà è un romanzo a sè.

Il protagonista è Bilbo Baggins, lo zio di Frodo, lo vedete all’inizio del film sulla trilogia e si limita a consegnare l’anello accennando alla sua avventura di gioventù.

Bilbo Baggins all’inizio di questo romanzo è un Hobbit molto tranquillo che ama le sue abitudini e la tranquillità della sua casa. Sebbene il ramo materno della sua famiglia fosse diverso, Bilbo odia le avventure e cerca di vivere lontano dai pericoli.

Per questo, quando Gandalf si presenta davanti a casa sua con la promessa di un’avventura mai vista, sulle prime Bilbo lo snobba e cerca di liberarsene al più presto. Ma Gandalf è uno stregone che legge nel profondo dei cuori e ha capito che, in fondo, Bilbo non è come sembra, che se adeguatamente stimolato può dar fondo a risorse che nemmeno lui sa di avere.

Tant’è, l’indomani alla porta di Bilbo cominciano ad arrivare i nani. Lui li accoglie per educazione, ma questi continuano ad arrivare finché se ne ritrova tredici in casa. Quando arriva anche Gandalf, finalmente gli spiegano cosa hanno in mente.

Devono andare a recuperare il tesoro dei nani che è stato loro rubato dal drago Smog, e hanno bisogno di uno Scassinatore.

Bilbo non è uno scassinatore, ma Gandalf è sicuro che al momento opportuno saprà rendersi utile e dimostrare il suo coraggio.

Questo è il riassunto del primo capitolo.

E vi dico subito che, avendo visto il film della trilogia degli anelli, il mood è completamente diverso: è allegro!

Certo, anche l’inizio del signore degli anelli lo è, finché è ambientato nella Contea, ma ho sbirciato qualche pagina più avanti e ho visto che l’atmosfera, nonostante i mostri e le creature magiche, continua a essere leggera.

Poco da meravigliarsi, in fondo si tratta di un racconto per bambini!

La paura ci deve essere, ma deve restare controllata, tant’è che l’autore continua a rivolgersi ai lettori con qualche commento qua e là, così da ricordare che si tratta di un racconto. Un paio di esempi: i nani hanno le barbe di colori diversi e un grosso corpo viene chiamato “corpaccio”.

Ecco, nel mio asset mercolediano, non è un libro per me, non mi si prospettano drammi e sofferenze indicibili e non credo ci siano molti spargimenti di sangue, dunque passerò ad altro, però vi anticipo che i personaggi non sono all’acqua di rose come nelle versioni edulcorate delle fiabe che siamo soliti leggere ai bambini di oggi. Sì, forse hanno delle caratteristiche spinte all’osso, per renderli ben identificabili, ma i dialoghi sono credibili e le motivazioni sono forti.

Insomma… non c’è una morale da principessa sul pisello (che non ho mai capito…)

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Cercando Alaska (John Green)

Il romanzo è diviso in due parti ben distinte e per spiegarvele devo fare un po’ di spoiler.

Nella prima, Miles, detto Ciccio, inizia a frequentare il liceo di Culver Creek, Alabama. Qua fa la conoscenza del Colonnello, il suo compagno di stanza, del suo amico Takumi, e soprattutto di Alaska, di cui si innamora su due piedi, nonostante lei abbia un ragazzo fisso di cui si dice innamoratissima.

Tutta la prima parte parla di sigarette, scherzi goliardici, bevute, vomito, dialoghi senza capo né coda e le giornate sono scandite da un conto alla rovescia che è l’unico fattore che mi ha fatto continuare la lettura: volevo sapere cosa sarebbe successo il giorno zero.

Perché questa prima parte, nonostante ci siano accenni di interesse in Ciccio (che si impara a memoria tutte le ultime parole dei personaggi famosi) e Alaska (grande lettrice), la trama è scarsa. Devo ammettere che, a differenza di molti altri che hanno letto il libro, Alaska non mi stava molto simpatica: passava dalle domande filosofiche al vomito da bevute con una velocità da bipolare. E questo è l’effetto che ha voluto darne l’autore, ma lo si capisce solo dopo il giorno zero, e nel frattempo mi sono annoiata a leggere di questi che non avevano niente di meglio da fare nella vita che pensare a come comprarsi le sigarette e a dove nascondere le bottiglie di alcool.

Nel giorno zero, Alaska muore in un incidente stradale. Era ubriaca fradicia e dopo l’ennesima sbronza, gli amici l’avevano coperta mentre se ne andava dal campus di notte in auto per una destinazione ignota.

Qui i discorsi iniziano a farsi letterariamente interessanti (eh sì, Alaska doveva morire). Tutti i suoi amici più cari iniziano a soffrire di sensi di colpa per averla lasciata andar via in quelle condizioni. Sbigottiti, cercano una ragione.

Era talmente ubriaca da non vedere l’auto della polizia su cui si è sfracellata? O è stato un suicidio? Dove stava andando? Quali sono state le sue ultime parole?

Il fatto è che una ragione non la trovano. Non solo non c’è una ragione per la morte, ma non c’è neanche modo di capire davvero cosa frullasse per la testa di Alaska Young.

Young: giovane.

E’ un modo che l’autore adotta per dirci che i giovani non li possiamo capire, hanno troppa energia che si irradia in mille direzioni. E’ un modo per dirci che anche tra i giovani c’è l’incomprensione, la distanza. Non è un caso se Miles nota in più di un’occasione quanti strati di vestiti lo separano da un amico o dall’altro, e non è un caso se ammette di essere in cerca del suo grande Forse, un Forse che rimane tale anche alla fine del libro.

E’ un modo per ricordarci che anche da giovani si percepisce il labirinto in cui viviamo, che è una metafora per la sofferenza, e che anche da giovani, sebbene si sembri così spensierati, ci si chiede come si sfugge ad esso.

Non ci sono risposte a domande così antiche.

Forse una possibilità è lasciar andare: lasciarsi andare. Lasciar andare le persone che sono morte per rendersi conto, ancora una volta, di essere vivi.

Un’ultima nota.

Questo romanzo, come tanti altri che si rivolgono agli adolescenti, sembra dividere il mondo in giovani e vecchi.

In realtà, sono millenni che abitiamo questa terra, e i giovani, se non muoiono, si trasformano in vecchi. Voglio dire: sono le stesse persone, e da quando esistiamo c’è una sorta di vetro che divide gli uni dagli altri, come se fossero esseri di due pianeti diversi. Ognuna delle due categorie soffre di senso di superiorità, per un motivo o per l’altro, ma è inevitabile che un giovane, per quanta energia e intelligenza mostri nell’età d’oro, poi finisca col telecomando a guardarsi le serie di Netflix e a bersi le pubblicità di Gucci.

Il mondo va a catafascio, eppure in tutte le epoche ci sono state coorti di giovani pronti a cambiarlo.

E siamo ancora qui, con gli stessi problemi che vanno avanti da millenni.

Se i giovani fossero davvero la speranza dell’umanità, perché in tutti questi secoli non siamo mai riusciti a venirne fuori?

Le persone mature dovrebbero cercare di ricordarsi com’erano da giovani, e i giovani dovrebbero fare uno sforzo e ricordarsi che invecchieranno. Un po’ di rispetto da entrambe le parti non guasterebbe.

Chissà, magari un giorno potremmo perfino parlare di una possibile collaborazione…

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Sospendo la lettura di Anne Rice…

UN GRIDO FINO AL CIELO, Anne Rice

Mi aspettavo di leggere un fantasy sullo stile dell’intervista col vampiro, e invece sono incappata in un romanzo storico.

Siamo nel Settecento. Il protagonista è il giovane Tonio Treschi, rampollo di un’antica e prestigiosa famiglia veneziana. Tonio vive da solo in un grandissimo palazzo con un paio di servi e la giovane madre depressa, alcolizzata e afflitta da una tristezza di origine misteriosa. Adora la musica, ma il padre ha già deciso che lui deve portare avanti il cognome e gli impegni pubblici dei Treschi.

Durante il primo carnevale che gli viene permesso di frequentare, scopre di avere un fratello che vive a Istanbul e che è stato esiliato dal padre perché voleva sposare una giovane che non era di lignaggio nobile.

Parallelamente alla storia di Tonio, leggiamo anche della storia di Guido Maffeo, di origini calabresi, che viene venduto giovanissimo dalla sua famiglia e viene castrato per mantenere la voce “bianca” e cantare nei cori e nei teatri.

Abituato alla povertà delle sue origini, Guido nel nuovo ambiente si trova benissimo e adora cantare. Ha trovato la sua dimensione esistenziale solo che ad un certo punto, nonostante la castrazione, perde la voce da bambino e, con essa, ogni velleità di diventare un cantante famoso. Si dedica dunque all’insegnamento e, in un secondo momento, inizia a girare per l’Italia in cerca del prodigio che gli permetterà di diventare immortale per interposta persona.

Le storie dei due personaggi si incrociano quando Carlo, il fratello di Tonio, incapace di accettare il ruolo da subalterno a cui lo ha destinato il padre, fa rapire e castrare il fratellino.

Ho sospeso la lettura a pagina 116 (su 558), e quando interrompo un libro, cerco sempre di capire le vere ragioni.

Innanzitutto, la narrazione avviene in terza persona, e non ci sono più molto abituata. Si sente che è scritto negli anni Ottanta, incredibile come lo stile cambi in quarant’anni. Ma la ragione principale è che – per quanto siano ben delineate le motivazioni e i sentimenti dei personaggi – questo libro manca di QUALCOSA.

E’ incentrato tutto sull’intreccio e sui personaggi. Mi manca un tema che leghi il tutto, una verità sottostante. L’amore per il canto? La solitudine? La ragion di stato contro i sentimenti intimi? Il desiderio di primeggiare? Tutti questi aspetti ci sono, ma ho letto un quinto del libro e ne ho tratto solo intrattenimento generico.

Non dico che non possa piacere. Anzi.

All’epoca della sua pubblicazione non ha avuto molto successo, e se leggi le recensioni di oggi, la critica principale è che ci sono scene di sesso troppo spinte. Le scene di sesso ci sono, ma non sono così frequenti, e comunque, per favore, cerchiamo di non fare troppo i santarellini: sono episodi che si intrecciano bene nella storia, non sono fine a se stessi.

Credo che il mercato potrebbe riscoprire questo romanzo che parla di Eunuchi a fini… artistici. Trovo l’argomento davvero interessante per un pubblico medio che cerca evasione e cultura allo stesso tempo.

Io, però, cercavo la Verità.

Evabbè, non sono mai contenta…

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Brescia: uccide il marito. “Era una brava donna”

Ho letto solo il titolo, non sono scesa nei dettagli: non conosco le ragioni del gesto né i dati anagrafici della vittima o dell’assassina, ma i giornalisti studiano i titoli in modo da attirare click e attenzione.

La frase “era una brava donna” è stata pronunciata dalla vicina di casa, la quale ha poi aggiunto che l’assassina “andava sempre in parrocchia”.

Nel nostro immaginario comune, anche nel 2023 associamo la frequentazione di chiese e parrocchie alla bontà intrinseca delle persone. Vai a messa? 💒💒 Sei una brava donna o un bravo uomo (guardate quanto ridicolo è l’emoticon).

Fino ai 18 anni ho frequentato la parrocchia e ogni tipo di associazione legata ad essa. Sono andata ai campi-scuola e cantavo “Su ali d’aquila” sulle note della chitarra in mezzo ai boschi, mi facevo le novene e le adorazioni in chiesa, andavo a confessarmi e a fare la comunione.

Non mi consideravo perfetta ma il fatto di frequentare questo ambiente costituiva un tassello della mia identità come “brava persona”, tant’è che se saltavo una messa mi sentivo in colpa.

Seguivo le regole che mi avevano inculcato da quando ero nata.

E chi non andava a messa? Beh, non neghiamolo: un praticante considera un non-praticante come una persona a cui, nel migliore dei casi, manca qualcosa. Nel migliore dei casi, li guardano con pietà, perché “loro” non hanno la fede.

Non sto dicendo che i praticanti sono esseri cattivi. Sto dicendo che in qualche modo – anche se non lo ammetteranno mai e poi mai – si considerano un po’… migliori dei non praticanti.

Basta!

Basta identificare la bontà con l’esercizio delle pratiche religiose!✝️

E vi dirò di più. Così come non sei automaticamente una brava persona se vai a messa, allo stesso modo non sei automaticamente una cattiva persona se uccidi qualcuno.

L’essere umano è complicato 🧠.

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L’amore fatale (Ian McEwan)

Tutto inizia con un incidente in mongolfiera: Joe, il protagonista, è un giornalista scientifico e sta per iniziare un pic-nic in un prato con la sua fidanzata, quando sente delle urla.

La mongolfiera è quasi a terra: è trascinata dal vento, e all’interno c’è un ragazzetto immobilizzato dalla paura, mentre lo zio, che guidava, non riesce a rientrare per spegnere il gas. Poco vicino, i fili dell’alta tensione.

Joe e altri uomini corrono per cercare di tenere a terra il veicolo volante, ma ci scappa il morto.

Ebbene, appena dopo l’evento, Parry, un giovane che aveva cercato di aiutare, rivolge la parola a Joe chiedendogli di pregare insieme. E qui inizia tutto.

Parry è un’ossessione: è convinto che Joe gli stia mandando dei messaggi, che lo ami, che siano destinati a vivere insieme per il resto della loro vita.

Joe comincia a perdere i punti di orientamento: non è più soddisfatto del suo lavoro, va in crisi con la fidanzata.

Prova a denunciare Parry alla polizia ma nessuno ha davvero commesso un reato, non ci sono neanche aperte minacce: le minacce sono solo velate.

Tutto precipita nella seconda parte del romanzo, quando avviene un tentativo di omicidio e Joe decide di procurarsi un’arma.

Adoro lo stile di McEwan.

All’inizio ci sono continui rimandi a ciò che sta per accadere, e questo crea una bella tensione che ti costringe ad andare avanti con la lettura. E poi ci sono tante digressioni interessanti.

E, ovviamente, la sua scrittura: la sua creatività verbale è infinita.

McEwan ha già trattato le ossessioni in altri suoi libri, direi che è il suo tema preferito.

Siamo ai limiti dell’amore, sconfiniamo nella patologia (sindrome di Clérambault). Per chi non vuole annoiarsi con i sentimenti e le sensazioni annacquate di tutti i giorni.

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About writing (Gareth L. Powell)

Gareth L. Powell è uno scrittore inglese di fantascienza che pubblica libri da una decina d’anni.

Non è un’esperienza lunghissima, ma è sempre più lunga della mia, dunque consigli e ispirazioni sono benvenuti.

Il saggio parla della scrittura nell’accezione più ampia, dalla paura della pagina bianca alla gestione del successo (se e quando arriva).

In realtà, il succo del libro è: per diventare uno scrittore di (qualche) successo, bisogna leggere tanto e scrivere tanto. Non si discosta molto dal nocciolo del libro di Stephen King “On Writing”. Lo sappiamo tutti che per diventare bravi in un’attività bisogna esercitarsi, eppure, continuo a comprare libri che mi lo ripetono fino allo sfinimento.

Powell scende poi nel dettaglio dei generi letterari (allargandosi un po’ di più con la fantascienza, perché è il genere che conosce meglio), delle abitudini utili per la scrittura, del luogo, delle sue giornate tipo, degli agenti letterari… Ci fornisce anche un elenco di prompt, di idee a cui attaccarsi quando davvero non sappiamo come riempire la pagina.

Fortunatamente, il blocco da pagina bianca non mi riguarda da vicino. Una pagina la riempio sempre, bene o male. E sta qui il succo: basta scrivere. Se si scrive male (e di solito è così), si può sempre cambiare in un secondo (e in un terzo e in un quarto) momento quello che si è scritto, anzi, direi che la vera scrittura è una ri-scrittura.

A volte l’autore tergiversa: come altri scrittori di cui ho letto, Powell ha bisogno di rumori di sottofondo mentre scrive e allora ci racconta del canale YouTube con i suoni di un caffè affollato: non so quanto aiuti lo scrittore esordiente italiano.

Vi dico io quale è problema dell’aspirante scrittore italiano: è che il mercato è piccolo. Non solo ci sono pochi abitanti in Italia rispetto ai paesi di lingua inglese, ma ci sono anche pochi lettori. Quanti scrittori italiani conoscete che vivono solo ed esclusivamente dei diritti derivanti dai loro libri?

Ma mi sto inacidendo.

Il fatto è che non si scrive per diventare ricchi. Si scrive perché si ha bisogno di farlo. Come si può sentire il bisogno di dipingere, di cucinare, di fare fotografie, di cantare.

Io, personalmente, ogni tanto cado in depressione e cerco di smettere: a cosa serve? mi chiedo.

Ci sono persone vicino a me che chiedono anche a cosa mi serve leggere, dunque figuriamoci cosa commenterebbero se dicessi loro che scrivo di nascosto. Eppure… C’è tanta gente là fuori che scrive, anche qui in Italia. Ed è bello parlarne. E’ bello avere dei sogni, anche se si sa che non riusciremo mai ad esaudirli.

Chi ha dei sogni è sempre più ricco di chi non ne ha.

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La tirannia della farfalla (Frank Schätzing)

E’ un romanzo di fantascienza ambientato negli Stati Uniti ma già dalle prime pagine si sente che è scritto da un tedesco: le descrizioni abbondano e la lingua è ricercata e cerca di tenersi lontana dai cliché con una particolare attenzione al lessico.

Luther è un vicesceriffo che deve indagare sulla morte di Pilar Guzman, una scienziata che lavorava in un vicino centro di ricerca. La donna viene trovata lungo una scarpata, abbarbicata tra i rami di un albero. Nell’auto, abbandonata in tutta fretta, trovano una chiavetta: all’interno, alcune immagini di un video di sorveglianza.

Nel video si vedono dei camion che caricano strani container e, sullo sfondo, un ponte sospeso sul nulla.

Il centro di ricerca è protetto da un servizio di sorveglianza coi fiocchi, ma Elmar, il fondatore, sembra essere al di sopra di ogni sospetto: è uno scienziato che crede nell’umanità e nella possibilità di aiutare gli ultimi della terra, dai paesi in via di sviluppo ai malati di tumore. E per farlo, ha creato un supercomputer, Ares.

Sembrerebbe una trama simile a molte altre, ma ad un certo punto, inseguendo il sospettato principale, Luther si trova catapultato in un mondo parallelo, dove sua moglie, che era morta sette anni prima in un incidente stradale, è viva. Un mondo dove Ruth, la sua più fidata collaboratrice, trova il cadavere di Luther seppellito poco lontano da casa sua.

L’idea di fondo dell’esplorazione degli Universi Paralleli è interessante, soprattutto perché gli scienziati del nostro mondo la sfruttano per portare di qua vaccini e soluzioni tecnologiche ad annosi problemi terrestri. La prima metà del libro è molto interessante, anche perché tra gli altri progetti di ricerca di Ares, c’è lo studio degli insetti e il loro sfruttamento attraverso le modificazioni genetiche e micro-impianti di controllo.

Nella seconda metà del libro però prevale l’azione. Azione pura. Fin troppa.

Luther e un drappello di volontari inseguono un trafficante inter-universale di armi biologiche nell’universo 453, dove trovano il doppione di Elmar invecchiato ma deciso a vivere all’infinito.

E’ tutto uno sparare, scappare, rincorrere, colpire, inframmezzati da termini tecnici e pseudotecnologici. Roba già vista, insomma. In questa seconda metà del libro ho saltato diversi paragrafi e mi sono accorta che non perdevo granché, perché ero ancora capace di seguire storia.

La fine, poi, nelle ultime due pagine, sembra davvero buttata là, in confronto alla minuziosità con cui si sono descritte le azioni e i pensieri precedenti. Insomma, Schätzing si è dato tantissimo da fare per scrivere le prima 662 pagine, non poteva impegnarsi di più per le ultime due e chiudere meglio i fili di Luther e Ruth ed Elmar?

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La luce che è in noi (Michelle Obama)

Questo libro è il seguito di Becoming. Mentre in Becoming ci raccontava la sua vita dall’infanzia fino all’esperienza alla Casa Bianca, stavolta non segue una linea narrativa.

Affronta più genericamente il tema delle difficoltà che si incontrano nella vita e della forza che ci serve per superarle.

Lei ammette di essere una persona che ha sempre cercato di darsi da fare, a volte troppo; si è spessissimo trovata a combattere contro un dubbio: Sono abbastanza? Abbastanza brava, intelligente, bella? Forte? Nonostante i miei sforzi, ho davvero diritto a quello che ho ottenuto?

Questi dubbi sono sicuramente influenzati dalla sua appartenenza a una doppia minoranza: Michelle Obama è una donna di colore. E’ nata e cresciuta a Chicago in una famiglia normale, non ricca, e ha usufruito di aiuti statali per frequentare l’università e la scuola di legge. E’ diventata prima un’avvocatessa di successo, e poi è arrivata alla Casa Bianca, in un ruolo che l’ha posta sotto i riflettori, suo malgrado.

Questo libro è stato scritto dopo che la pandemia di Covid era già iniziata, e Michelle, come tutti noi, si è trovata chiusa in casa senza nulla da fare, tranne che rimuginare e pensare. Ha trovato un po’ di sollievo nel lavoro a maglia, apprezzando le piccole cose che alleggeriscono la mente.

Tutti, ci dice, abbiamo una parte della mente che è paurosa e che teme i cambiamenti: non ci si libera di questa paura. Bisogna però agire nonostante i timori, con un po’ di gentilezza verso se stessi (cosa che lei ha spesso dimenticato di fare).

Ci parla dell’invisibilità che a volte sembra avvolgerci, perché non siamo abbastanza belli o abbastanza ricchi. Ci racconta l’episodio in cui la sua tutor le aveva sconsigliato di andare a Princeton perché sarebbe stato troppo difficile per lei (lasciando ad intendere che era una donna nera, che non aveva diritto a un tale privilegio o non aveva le capacità per esserne degna).

Insomma, ha dovuto lottare tutta la vita contro un senso di inferiorità e insicurezza.

Come tutti. Non importa che tu sia la first lady o la sua signora delle pulizie: le insicurezze personali colpiscono tutti.

Quello che cambia è il modo in cui le affrontiamo.

Lei ricorre spesso a degli aiuti: dal lavoro a maglia, alle amiche, alla madre, al compagno.

E’ stata fortunata, sì, ma non è partita con delle buone carte (donna, nera, Chicago).

Ad un certo punto il libro si allarga sugli ideali. Qui si perde un po’, diventa più generico, a volte un po’ scontato, ma è comunque una lettura che vale merita.

A volte sappiamo cosa va fatto, ma abbiamo bisogno di sapere di non essere soli ad affrontare certi dubbi e incertezze.

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Greenlights – L’arte di correre in discesa (Matthew McConaughey)

Matthew McConaughey mi è piaciuto molto su Interstellar, ma ho apprezzato anche il suo primo film, Il tempo di Uccidere (in cui fa un bellissimo monologo verso la fine), e Mud e The Gentlemen.

Questa autobiografia l’ha scritta a cinquant’anni, quando ha ripreso in mano i diari che scrive da trentacinque anni a questa parte.

Ne viene fuori il ritratto di un ragazzone texano che proviene da una famiglia di operai turbolenti: la madre e il padre hanno divorziato due volte e si sono risposati tre volte (loro due!), e per loro era normale rincorrersi attorno alla tavola e insultarsi, litigare di brutto e poi cominciare a far sesso in cucina: si volevano bene così, anche se la madre ha il dito medio storto, dopo che il marito gliel’ha rotto in più occasioni perché lei glielo mostrava sempre.

Matthew McConaughey era bravo a scuola, ma era anche portato per l’autoriflessione, prova ne sono questi diari pieni di pensieri e frasi ad effetto. Sebbene gli piacesse scrivere poesie, non disdegnava una scazzottata – magari col padre, come rito di passaggio. Gli piacevano le ragazze e lui piaceva a loro (ha vinto il titolo di ragazzo più bello dell’anno, una volta: solo in America possono fare concorsi del genere tra gli studenti).

Religioso ma amante delle armi e dei pick-up, da giovane sognava di fare l’avvocato, poi si è accorto che non faceva per lui e ha iniziato a studiare cinema, anche se il successo non gli è arrivato grazie agli studi: è stato abbastanza intelligente da capire che la recitazione a intuito era quella che meglio gli si addiceva.

E’ sempre stato un tipo sicuro di sé e molto ottimista, qualità che lo hanno aiutato a Hollywood, insieme al bell’aspetto, che gli ha fornito una serie di ruoli in commedie che gli hanno offerto subito la notorietà e i soldi.

Ma a differenza di molti attori americani che sono andati fuori di testa per la rapidità con cui sono saliti sull’Olimpo delle scene, McConaughey è stato capace di concedersi i suoi momenti di riflessione.

Ha preso un camper e si è girato 48 stati degli USA (su 50), è andato sul Rio delle Amazzoni, in Africa, in un convento sperduto nel deserto… Da solo.

Ripeto: da solo. Non si è affidato a un’agenzia, non si è portato dietro amici o ragazze. No: da solo. Per riflettere. Questo mi piace.

Non dico che le riflessioni riportate nel libro siano molto creative, né che ti aprano gli occhi su delle verità a cui non eri ancora arrivato: a volte spiattella con parole leggermente diverse delle constatazioni che facciamo tutti. La scrittura è molto basica, si vede che non ha un background letterario (anche se a lui piace raccontare storie e non gli dispiacerebbe diventare scrittore). Un aiutino da un autore affermato avrebbe dato qualche punto in più a questo libro così personale.

Mi ha lasciato un po’ a bocca asciutta in un paio di passaggi, quando fa intendere che ha vissuto dei momenti difficili: parla di “questione familiare” e “questione delicata” ma non scende nel dettaglio, scegliendo di mantenere la sua privacy, di non mettersi tutto in piazza. Può essere comprensibile in un’ottica umana, ma il libro ne risente dal punto di vista letterario.

Vengo dalla lettura di “Will” di Will Smith, e “Open” di Agassi, e “Becoming” di Michelle Obama: autobiografie molto più approfondite di questa di McConaughey che si limita a raccontare episodi e a trarne conclusioni abbastanza scontate.

Si apprezza la veste grafica, perché è pieno di fotografie e font diversi e scrittura manuale, ma l’aspetto visivo non compensa le mancanze letterarie.

Eh sì, una biografia deve essere anche un’opera letteraria, deve darmi qualcosa dal punto di vista umano.

Matthew, mi dispiace, sei uno sgnoccolone ma lascia stare la letteratura (e poi, mi illudi facendoti passare per alternativo e fuori dagli schemi, e alla fine ti sposi con la classica fotomodella brasiliana…).

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Will (Will Smith)

Soddisfacente, il primo libro dell’anno (Mark Manson ha dato una mano😅).

Will Smith è uno degli attori hollywoodiani più pagati al mondo, ha al suo attivo una sfilza di successi musicali e cinematografici, una bella famiglia e soldi 💰 a palate. Eppure…

Un memoir sarebbe alquanto noioso se ci parlasse solo di tenute principesche e tournée sfavillanti. Servono dei lati oscuri, servono delle difficoltà da superare, perché alla fine anche una biografia è una narrazione e ci deve tenere legati alle sue pagine.

Ma che problemi può avere un milionario famosissimo?

Risaliamo alla sua infanzia.

Figlio di un venditore di frigoriferi molto ingegnoso, Will Smith è sempre stato educato a darsi da fare. “Il 99% equivale a 0” gli diceva suo padre, e lui ha interiorizzato il motto, fino a farne una filosofia di vita. Ma nonostante il suo impegno, la sua famiglia di origine ha avuto i suoi alti e bassi a causa del padre che quando era ubriaco diventava molto violento, soprattutto nei confronti della moglie.

Will, ancora piccolo, sviluppa una strategia difensiva che si basa sul far ridere: diventa il pagliaccio di famiglia e fa di tutto per adeguarsi alle aspettative dei genitori. Ma una strategia del genere è poco soddisfacente nel lungo periodo… e Will se ne accorge quando scopre il rap e l’hip hop: negli anni Ottanta questi generi musicali sono agli albori e gira un’energia tutta speciale che lo fa sentire ammirato per la prima volta in vita sua.

Sapendo di dare un grande dispiacere alla madre, rinuncia (con enormi sensi di colpa) al college per dedicarsi anima e corpo alla musica, e i suoi sforzi vengono ben presto ripagati in termini di soldi e successo, tanto che a vent’anni si ritrova milionario.

Ma tutto il suo mondo crolla quando la sua ragazza di allora lo tradisce. Dentro di sé il ragionamento è: ma come, ho fatto di tutto per piacere alle persone, ho vinto un grammy, giro per tutti gli Stati Uniti, riempio gli stadi, e ancora non sono amato?

E qui inizia la depressione, che si esprime con uno shopping sfrenato (ma davvero sfrenato…) e sesso senza amore. A ciò si aggiunge che in queste condizioni non riesce ad essere al massimo della forma creativa e il terzo album è un fiasco. Poi arriva il fisco, che si riprende tutto quello che lui non ha pagato negli anni in cui i soldi arrivavano a fiumi.

Ma gli Stati Uniti sono un paese in cui tutto può succedere.

Will conosce un tizio, che conosce un altro tizio, che lo invita a una festa di compleanno e gli fa fare su due piedi un provino per il Principe di Bel Air, e là inizia di nuovo una carriera televisiva e cinematografica che andrà alla grande fino ad oggi.

Però le lezioni non mancano mai. Will Smith si ritroverà a dover lottare per l’affidamento del figlio, prima di capire che non è il caso di distruggersi la vita per distruggerla alla ex moglie.

Poi sposerà Jada Pinketts, la donna dei suoi sogni, con la quale però dovrà andare in terapia di coppia (e sì, già prima del pugno dato in diretta televisiva agli Oscar, il libro è stato scritto prima di questo evento).

Nonostante le buone intenzioni, la sua volontà di proteggere e far prosperare la propria famiglia ha spesso dato risultati controproducenti.

Solo un paio di esempi: al quarantesimo compleanno della moglie Jada, le ha organizzato una festa incredibile che ha richiesto tre anni di lavoro e ricerche (non parliamo neanche di soldi). E’ stata così enorme, che la moglie si è sentita sopraffatta e non l’ha vissuta come un omaggio a lei, bensì come un tentativo del marito di attirare l’ammirazione su se stesso…

E che dire della figlioletta Willow? Anche lei, verso i dieci anni, ha avuto una breve esperienza musicale. E’ stata un’esperienza breve ma intensa, che avrebbe potuto lanciarla nel firmamento delle star. Will era super fiero della figlia ed era già pronto a indirizzarla verso le vette della notorietà, quando la bambina ha detto: “Adesso basta”.

E lui l’ha sentita, ma non ha capito cosa intendeva. La ragazzina è dovuta arrivare al punto di rasarsi i capelli per far capire al padre che lei voleva essere ascoltata, ma ascoltata sul serio.

Will Smith è finito in terapia per cercare di combattere l’insoddisfazione cronica e la necessità spasmodica di piacere agli altri.

Al di là dei lustrini e dei miliardi, i bisogni umani sono sempre gli stessi: accettazione, amore, senso. Anche il memoir di una stella del cinema ci aiuta a ricordarcelo.

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