Questo libro mi è piaciuto fin dalla prima pagina, sono entrata subito in sintonia con lo stile della voce narrante. E attenzione: il protagonista non è per niente una bella persona. Si tratta di un ex dittatore italiano di un presente distopico che è stato relegato in un’isola tropicale, neanche lui sa esattamente dove.
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Come unica compagnia, dispone di un ragazzino di colore che non parla la sua lingua che gli fa da servetto.
L’uomo vaga tra le stanze dell’immensa villa che ha a disposizione e pensa al suo passato, a come tutta la sua vita fosse destinata a farlo diventare il dittatore del nostro paese. Attraverso le sue memorie, cadiamo in una disamina del potere molto cinica, che tuttavia deve farci riflettere.
La verità è una caratteristica irrilevante, in politica.
Uno dei punti interessanti, è la sfiducia che il protagonista nutre nei confronti dei c.d. intellettuali: costoro, o se ne stanno rintanati riflettendo sui massimi sistemi che non hanno alcuna ricaduta nel mondo reale, oppure…
Finiscono sempre per elaborare una teoria per dimostrare che il potere spetterebbe, guarda caso, proprio a loro.
Ma l’ex dittatore non si ferma qui. Uno che arriva a fare quello che ha fatto lui, deve nutrire una forte sfiducia anche nei confronti di coloro che ha governato. Eccola qua:
La verità, signori miei, è che la maggior parte delle persone non ha alcun progetto, non ha alcun fine da perseguire. Di tutta quella libertà non sa che farsene. La gente si innamora di una vicina di casa, o di una che ha conosciuto in paninoteca una sera (…), trova un lavoro come contabile in un’azienda di tubi, fa uno o due figli e guarda la televisione. Di cos’altro può avere ancora bisogno, la gente comune, se non di qualcosa che tiene in ordine questa vita in cui non succede nulla? (…)
Per apprezzare la propria libertà di parola bisogna avere qualcosa da dire.
Insomma, leggendo queste memorie ti ritrovi inevitabilmente a dar ragione a uno che, per arrivare a quel ruolo, ha ammazzato e torturato sulla scia dei peggiori dittatori sudamericani.
Questo è un libro che, mentre lo leggi, mette in discussione le nostre certezze e ti ritrovi a dire: “Ma che cosa sto facendo?”.
Il tutto, senza mai abbandonare il plot, perché l’ex dittatore, oltre a ricordare, sogna di tornare ai fasti del passato, e approfitta di un manipolo di avventurieri che vogliono di nuovo rovesciare l’ordine costituito in Italia. E poi c’è il sub-plot del servetto di colore, che sarà il personaggio risolutivo.
Devo sospendere la lettura perché mi innervosisco troppo.
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E’ il racconto autobiografico dell’autrice, che ha abitato a Teheran all’inizio del Duemila per molti mesi, dove è andata per seguire il marito ingegnere, che è stato mandato là al seguito di una grande azienda tedesca.
La Treutmann ha scritto il libro con l’intenzione di dare una visione obiettiva della vita nella capitale mediorientale, ma a mio parere questa voglia di essere super-partes e di mostrare la propria apertura mentale è faziosa.
Innanzitutto, lei parla dal punto di vista di una donna occidentale privilegiata che a Teheran non poteva non frequentare che circoli privilegiati. E già questa è un’angolazione molto soggettiva.
Inoltre, lo sguardo incantato che sembra emanare da ogni pagina non riesce a mettere a tacere il mio giudizio critico.
Vi faccio un esempio.
Ad un certo punto, l’autrice va a trovare un’amica. Ci sono altre donne, sono incontri che fanno spesso, a base di dolcetti, tè e musica. Ma le donne, come è normale a Teheran, sono arrivate là tutte intabarrate e coperte, nonostante l’alta temperatura esterna. Appena entrano in casa, iniziano a togliersi i vestiti neri: sotto ci sono stoffe colorate e di buona fattura.
L’autrice ci mette davanti alla metafora delle farfalle che escono dal bozzolo.
Oh, che bella immagine…
Ma come si fa a sorvolare su quanto hanno dovuto soffrire quelle donne per arrivare fin là imbottite di stoffa? Perché taci del sudore che colava fino a pochi minuti prima? Perché non dici che quelle donne non potevano vestirsi più leggere perché le avrebbero incolpate di stuzzicare gli uomini? E’ una scelta di libertà quella di soffrire come una capra sulla griglia?
Nell’appartamento le donne possono chiacchierare, ridere, ballare. Ma come si fa a tacere sul fatto che fuori non lo potrebbero fare?
È ridicolo voler apparire come una persona di mente aperta davanti a certe mancanze di libertà. Inutile giustificare tutto sotto l’egida della “cultura che non comprendiamo”, quando questa cultura non permette l’espressione di idee differenti.
Certo, alcune donne dell’episodio dicono di sentirsi a proprio agio con il chador o il velo.
Ma… le altre?
Se una vuol tenere il velo o il chador, deve essere libera di farlo. Ma altrettanto libera deve essere colei che non lo vuole fare.
Sto dicendo ovvietà. Era solo per giustificarmi perché non continuo la lettura del libro. Mi innervosisco troppo.
Noi non ci conosciamo, ma ho letto il tuo American Gods e ti seguo spesso nelle tue interviste su YouTube. In una di queste hai detto una cosa interessante che mi è rimasta impressa. Hai suggerito, a chi vuol scrivere, di buttare tutto fuori, di mettersi in mostra sulla carta, perché dovrebbe essere un po’ come camminare nudi in mezzo alla strada. Le parole forse erano un po’ diverse, ma il concetto è questo.
Camminare nudi in strada è un’immagine potente, perché la gente di solito non lo fa. È un’azione che si lega a qualche tipo di malattia mentale, o comunque a comportamenti borderline, da curare. Chi può farlo infatti? Solo i pazzi. O chi ha completamente superato la paura della riprovazione sociale (qui non prendo in considerazione le conseguenze legali, mi interesso solo all’aspetto psicologico).
Scrivere, dunque, o è un atto di pazzia, o è un atto di coraggio. Forse un po’ tutti e due.
Siccome il concetto di pazzia è tanto relativo, perché cambia in base ai tempi e ai luoghi (quanti dissidenti russi sono stati definiti pazzi dall’establishment psichiatrico della Russia stalinista?), vorrei concentrarmi sul coraggio.
Vedi, anche il coraggio necessario per scrivere può essere relativo. Dipende da chi sei e dall’ambiente che ti ritrovi a frequentare, spesso senza che tu l’abbia deciso (quanti di noi possono dire in assoluta sincerità di aver scelto il luogo e le persone con cui vivono?). Non so dalle tue parti, ma dalle mie, se qualcuno scrive, il più delle volte deve farlo di nascosto, soprattutto se è una donna.
Per scrivere, come sai meglio di me, serve tempo.
Allora immagina una donna che, dopo l’orario di lavoro, torna a casa e si rinchiude in una stanza, lasciando i piatti da lavare, la lavatrice da fare, i pasti da preparare, i panni da stendere, la polvere che si accumula sui ripiani.
Perché, sai, se la casa è in disordine e se il figlio va in giro con i pantaloni stropicciati, qui in Italia nessuno dice nulla sul padre: è sempre colpa della madre. E se questa madre si rinchiude in una stanza invece di stirare e cucinare, beh, viene giudicata ancora peggio del caso in cui questa stessa donna si mettesse a camminare nuda per strada (tralascio il fatto che, qua in Italia, se un uomo si chiude dentro in una stanza a guardare Instagram, la riprovazione sociale è quasi nulla, adesso non ci interessa).
Una che cammina nuda per strada è considerata pazza, qui e ora. E se una è pazza, le aspettative sul suo comportamento si abbassano automaticamente. Ma se una è considerata sana, e si chiude in una stanza a scrivere storie, se le va bene la definiscono “egoista”.
E per farsi chiamare egoista, magari col fortissimo dubbio di esserlo davvero, ci vuole tanto coraggio.
Non so se ce l’avrò ancora a lungo.
Dalle mie parti, mi chiamano, con una nota di disprezzo, “intellettuale”, solo perché mi piace leggere. Leggere tanto. Non mi sento intellettuale. Leggere è un bisogno, non ci guadagno niente, non mi pagano, non è il mio lavoro, non scrivo sui giornali, e non lo faccio per tirarmela: leggo e basta. La parola “intellettuale”, pronunciata con quella nota di biasimo che vedo spesso, ti fa pensare a qualcuno che non ha voglia di lavorare, che si rifugia nelle fantasie, che preferisce la carta scritta a un lavoro vero (siamo nel Nordest italiano, qui o produci o non sei nessuno).
Camminare nudi per strada significa mostrarsi negli aspetti belli e, più spesso, brutti: nella propria interezza. Che poi è l’interezza di ognuno, è per questo che quando leggiamo un libro scritto bene, ci ritroviamo nei protagonisti. Per creare un legame tra lettore e scrittore, bisogna mettere in piazza le proprie speranze e le proprie idiosincrasie, i propri fallimenti e i propri traguardi.
Così oggi ti scrivo, a te che puoi capire, spero, se non hai dimenticato la ruggine e l’inerzia che sembravano avvolgerti quando provavi a far girare la vita da aspirante scrittore.
Oggi, però, da mettere in piazza ho solo stanchezza.
Perché che una persona legga, o scriva, o lavori, l’unico metro di giudizio è quello economico (ehm, no, ci sarebbe anche quello estetico, ma stendiamo un velo pietoso, è un piano su cui proprio non posso giocare).
E la cosa più deprimente, è che lo stesso metro di giudizio lo usano tanti giovani, quelli che, come si dice da millenni, dovrebbero cambiare il mondo. Se scrivi, pubblichi e fai soldi, sei qualcuno, altrimenti sei uno/a che non ha voglia di lavorare. Un egoista.
Non vorrei scomodare Virginia e la sua Room Of One’s Own, ma mi tocca: perché il problema non è la stanza, ma quello che sta fuori.
Come facevi, tu? Cosa c’era fuori della tua stanza? Ti è mai capitato di essere stato considerato con disprezzo perché avevi (faccio fatica a usare la parola) sogni?
Io ce l’ho un sogno, ma non posso dirlo. Non lo scrivo neanche qui, in questa lettera, nonostante sappia che il mio blog è frequentato pochissimo, perché non è glamour e perché non seguo le mode, ma solo il mio estro di lettura. Non dico qual è il mio sogno, perché anche averne uno, da queste parti, è considerato un atto di egoismo o, quando va bene, di svagatezza.
“Hai un sogno? Beh, svegliati, e vai a lavorare”.
Scusa, Neil, se ti ho tediato con questo sfogo, mi scuso anche se non leggerai mai queste righe, perché non credo che tu capisca l’italiano. Comunque: scusa.
Ma ho fatto quello che hai suggerito tu: ho camminato nuda per strada.
Dopo aver ritrovato Margaret Atwood in Il Canto Di Penelope del post precedente, non potevo fare a meno di leggere I Testamenti, che è la continuazione del Racconto dell’Ancella.
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Nel Racconto, l’unico punto di vista era quello dell’ancella costretta a far nascere i figli altrui nella distopica nazione di Gilead, che, ormai lo hanno capito tutti, identifichiamo in una parte degli Stati Uniti.
Nei Testamenti invece, i punti di vista sono tre.
Uno è quello di una ragazza nata e cresciuta a Gilead: le muore la madre e scopre che quella non era la sua vera madre, perché lei in realtà è nata da un’ancella che è fuggita in Canada.
Un altro punto di vista è quello di una ragazza cresciuta in Canada che, in seguito alla morte dei genitori, scopre di essere Baby Nicole, una bambina che è nata a Gilead da un’ancella e che è stata portata in Canada sotto mentite spoglie.
Il terzo punto di vista è quello che secondo me è il più interessante: a parlare, anzi, a scrivere, è zia Lydia, un personaggio molto potente e conosciuto a Gilead. Le hanno già dedicato una statua, sotto la quale si accumulano offerte votive, di solito lasciate da donne che desiderano avere un figlio.
Tramite zia Lydia, veniamo a scoprire i primi tempi di Gilead, come si è svolto il colpo di stato e come è successo che una nazione si assoggettasse a un regime del genere.
Le zie sono delle donne che si dedicano ad altre donne, o almeno così si spacciano. Si occupano dell’educazione delle ragazze, dei matrimoni e degli interrogatori femminili. Zia Lydia, prima della nascita del regime, era un giudice minorile. Quando c’è stato il colpo di stato, è stata scelta come collaboratrice in forza delle sue capacità di persuasione e organizzazione. La scelta non è stata molto libera, ovviamente: zia Lydia ha dovuto scendere a compromessi con la sua coscienza, ma non ha mai abbandonato il sogno di vendicarsi.
Questo è il personaggio più interessante perché lavora d’astuzia, dietro le quinte, ponendo la massima attenzione alla psicologia delle altre zie e dei comandanti.
La classe delle zie è un aspetto interessante: un regime del genere non potrebbe stare in piedi senza un appoggio interno delle stesse persone che sono assoggettate. E il fatto che siano donne, e che si odino tra loro e che tramino l’una alle spalle dell’altra, è significativo.
Un altro aspetto essenziale per la durata del regime è l’ignoranza: le donne (zie escluse) non possono leggere. Sono tenute nell’ignoranza assoluta, non conoscono neanche la geografia o la storia, devono dedicarsi solo al ricamo, ai fiorellini e all’eventuale gestione delle Marte, le cameriere di famiglia. Il loro unico scopo è sposarsi e procreare.
Bambine che non possono frequentare la scuola: la Atwood ne parla in un romanzo che noi chiamiamo distopico, ma in molte parti del mondo si vieta lo studio alle bambine. Lo capiamo dunque quanto importanti sono la lettura e lo studio per un minimo di libertà? E’ davvero così distopico questo romanzo? Qui da noi, forse, ma andate in Iran, e poi ne riparliamo.
E ora, al di là dei contenuti, passiamo allo stile.
Questo romanzo, rispetto al Racconto dell’Ancella, è molto più movimentato, anche nel linguaggio. C’è più azione, il teatro si amplia da Gilead al Canada, c’è un inizio di storia d’amore adolescenziale e addirittura una scena in cui Nicole usa arti marziali per atterrare una zia. Quest’ultimo punto mi lascia un po’ perplessa, forse manca di verosimiglianza (non si fa venire un ictus a una persona con poche ore di allenamento), ma la velocità dell’azione non mi è dispiaciuta, anche se verso la fine sembra sfilacciarsi un po’ pur di arrivare a una conclusione.
Molti si sono chiesti se questo romanzo era necessario, soprattutto dopo l’uscita della serie TV ispirata al racconto dell’ancella.
Credo che la risposta non ci sia, perché la domanda è sbagliata.
Un libro non è necessario o meno. Se vogliamo (e lo dico io che non riesco a stare un giorno senza leggere), nessun libro è necessario.
Quanti libri si vendono ogni anno per puro svago? Thriller, romance, fantasy… almeno questo ti fa riflettere su come nascono i regimi e come le persone si lasciano sottomettere. Perché la sottomissione non è solo fisica: molto più spesso assistiamo a sottomissioni mentali.
Negli Stati Uniti stiamo assistendo a un ritorno in massa dei fanatismi religiosi e a della sottomissione del corpo della donna.
Questa non è distopia.
E guardiamo a casa nostra, guardiamo ai nostri social: avete fatto caso a quante pagine Facebook del tipo “Gesù ti ama”, “Io amo Maria” ecc ci sono? Sono frequentate e commentate da gente che pubblica foto di gattini e cagnolini a nastro, “Vogliamoci bene”, “Aiutiamo i nostri amici a 4 zampe”, e poi maledicono gli extracomunitari che scappano dai loro paesi.
Buonismo superficiale e deviato.
Questa non è distopia.
E allora, era necessario questo libro? Forse non è ai livelli letterari di altre opere della Atwood, ma sì, era necessario.
Margaret Atwood in questo romanzo, lascia parlare Penelope dall’Ade. La moglie di Odisseo si rivolge a noi, nel nostro secolo, e ci racconta la sua versione dei fatti: Ulisse, Troia, Elena…
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Perché l’Odissea racconta un solo punto di vista: quello dell’eroe che aiuta a sconfiggere i troiani con lo stratagemma del cavallo di legno e che poi, tornando a casa, si ferma qua e là, mentre la moglie Penelope lo aspetta a casa, fedele e paziente, imbrogliando i pretendenti con lo scherzetto della famosa tela (che in realtà è un sudario per il suocero, che, nell’eterna attesa del figlio che non torna, potrebbe morire da un momento all’altro).
Penelope era figlia di un re di Sparta, intelligente ma non molto bella, sicuramente non bella come la cugina Elena, che faceva impazzire gli uomini ai suoi piedi. Quando è venuto il momento di darla in sposa, essendo una principessa, c’era in gioco una dote consistente, dunque i pretendenti erano numerosi. Ma erano tutti là per la dote, non per lei!
Lo stesso Ulisse aveva provato a sposare la bellissima Elena, ma non c’era riuscito: insomma, Penelope è un ripiego, e ce lo fa, molto femminilmente, notare. Ciononostante, una volta sposati, con Ulisse riesce a instaurare un bel rapporto, finché dura… perché a un certo punto inizia la guerra di Troia e Ulisse, essendo vincolato a un giuramento, deve partire.
Sta via vent’anni, abbandonando la moglie in uno scoglio di regno in mezzo a rocce e capre.
Ma Penelope ci parla da morta: ora sa tutto quello che è successo e adesso può parlare, perché nessuno può più farle del male.
Ad esempio, ci rivela che lei si era accorta subito che il mendicante che ha sfidato i pretendenti era suo marito, ma ha voluto lasciargli credere di esserci cascata, perché lui ci teneva a passare per uno bravo nei travestimenti. E quando Ulisse fa uccidere le dodici ancelle che per lui erano delle traditrici, ci confessa che le aveva mandate lei a spiare i proci per capire che intenzioni avevano, e le ancelle avevano obbedito.
Alcune poi, in seguito a questo atto di obbedienza, sono state stuprate, altre si sono addirittura innamorate di questi pretendenti di Penelope (erano giovani e belle, ricordiamocelo), ma a Ulisse questo non rileva: lui le fa impiccare perché lo hanno tradito.
E Penelope, dal regno dei morti, si pente e di duole di questo spargimento di sangue innocente di cui lei è parzialmente colpevole.
Ma a mio parere, le parti più interessanti del libro sono quelle in cui lei si confronta con la bellissima cugina Elena: vanitosa, attentissima al proprio aspetto, civetta con gli uomini e li lascia cadere nella sua trappola solo per il piacere di dimostrare che può farlo. Non le interessano le conseguenze.
Rispetto all’Odissea, qui si punta l’attenzione su Penelope che è, in definitiva, bruttina, ma intelligente, che tutti hanno corteggiata principalmente per i suoi soldi; si sottolinea che suo figlio Telemaco era viziato e che suo marito Ulisse era un furbastro che faceva quello che voleva; e che, infine, le donne sono sempre quelle che ci rimettono (a meno che non usino gli uomini ai propri scopi, come fa Elena).
Alla fine, non può manca un tribunale dei giorni nostri dove Ulisse viene giudicato.
Colpevole o innocente della morte dei pretendenti?
Innocente.
Colpevole o innocente della morte delle dodici ancelle?
Innocente.
E Ulisse, maestro d’inganno e travestimenti, anche se morto, non può restare a lungo nell’Ade. Va e viene, rivivendo nel nostro mondo sotto le spoglie più diverse. Alle sue calcagna, le furie, inviate dalle dodici ancelle che cercano vendetta.
Per scrivere questo romanzo, Margaret Atwood si è basata in gran parte sull’Odissea, ma anche sulle teorie di Graves, dove Penelope sarebbe stata la sacerdotessa di un culto di una divinità femminile; e devo dire che questa Penelope mi piace molto di più di quella canonica che tesse durante il giorno e disfa durante la notte.
Ne viene fuori una donna che vive all’ombra di un marito famoso ma che non è così passiva come ce la vogliono far sembrare: che per essere accettata, bruttina com’è, deve farsi passare per paziente e sottomessa, tanto da diventare l’archetipo della moglie ideale, per molti.
Lei a casa a respingere i pretendenti e a tutelare la sua virtù, il marito in giro per il mondo a intingere il biscottino dove gli pare.
Ma quanto piace questa versione di Penelope silenziosa a certi uomini?
Il romanzo inizia in un cimitero sulle rive del Tamigi, con il piccolo protagonista, Pip, davanti alle tombe dei genitori. Pip vive con la sorella che lo “tira su con le mani”, un eufemismo per dire che gliele dà di santa ragione per ogni sciocchezza. Suo marito Joe, un fabbro di buon cuore, non può accorrere in aiuto del piccolo, perché le prende pure lui.
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In queste prima pagine del romanzo, Pip incontra un evaso che gli impone di portargli da mangiare e una lima. Il bambino, terrorizzato, ubbidisce e mantiene il segreto.
Poco dopo, Pip viene chiamato a casa di un personaggio piuttosto singolare: la signora Havisham. La villa è in totale abbandono, e la proprietaria, ormai vecchia, indossa ancora il vestito da sposa del giorno in cui il suo fidanzato l’ha abbandonata sull’altare. Sul tavolo vicino, c’è ancora la torta di nozze, potete immaginarvi in quali condizioni.
La donna vive con la figlia adottiva, Estella, che lei educa in modo da farla diventare crudele con tutti i maschi del creato, così da potersi vendicare delle sue disgrazie di gioventù; manco a farlo apposta, Pip si innamora di questa capricciosa ma bellissima ragazza.
Ad un certo punto, Pip viene contattato da un avvocato di Londra che gli comunica che un benefattore si è preso in carico di farlo diventare un gentiluomo e che sosterrà le sue spese di vitto, alloggio e studio nella City. Pip pensa subito alla signora Havisham e si mette in testa che la donna lo abbia destinato alla figlia Estella.
Ecco quali sono le grandi speranze: il ragazzo si aspetta di diventare un gentiluomo. E’ una speranza comprensibile in un orfano che ha appena conosciuto una signora del gran mondo, anche se decaduta, ma una volta cresciuto, Pip si… perde.
Mi spiego meglio: doveva mettersi a studiare per imparare un lavoro, e invece incomincia a far debiti. Non ha un mestiere e apre conti al ristorante e dal gioielliere. E, come se non bastasse, continua a far sogni su Estella, che lo snobba e lo tratta come un bambino.
Come ogni romanzo dell’Ottocento che si rispetti, non possiamo aspettarci personalità ambigue: i personaggi cambiano nel corso della narrazione, ma siamo lontani dalle lotte psicologiche dei romanzi più recenti. Estella è una stronza, la signora Havisham è guidata dalla sete di vendetta, Pip è un ingenuotto, Joe e Biddy sono le incarnazioni del bene, la sorella di Pip è l’incarnazione della crudeltà, e così via.
Cambiano tutti, o quasi, nel proseguo della vicenda, ma si va da un estremo all’altro.
Pip si accorge di come si è comportato nei confronti di Joe e Biddy quando li ha abbandonati per andare a seguire le sue grandi speranze. Sua sorella viene bastonata quasi a morte e finisce i suoi giorni da inferma. L’evaso si rivelerà essere una persona migliore di quella che Pip aveva creduto (e l’unico uomo che si è davvero “fatto da sè”). La signora Havisham si riprende verso la fine e si accorge di cosa ha fatto a Estella.
Però sono finali abbastanza scontati, la morale ottocentesca non conosce vie di mezzo: o dannazione o redenzione.
E’ da far risalire al contesto storico anche la risoluzione del romanzo, dove alla fine tutti i personaggi sono legati da qualche segreto (in modi un po’ ingenui e prevedibili, per un lettore del Duemila).
Però Dickens ha una prosa superba e la lezione che ci tramanda a quasi due secoli di distanza è ancora attuale: se le grandi speranze sono tutte incentrate sui soldi a scapito dei sentimenti e delle relazioni personali, sono destinate a cadere.
Un’ultima osservazione: avete fatto caso che, in tutti i romanzi di formazione, il protagonista si trova a dover lasciare il proprio ambiente natio? Io sono rimasta sempre a 10 km dalla casa dell’infanzia: mi sembra di non essermi mai formata del tutto!!
Jules Bonnot viene ucciso il 28 aprile 1912 a Choisy-le-Roy da un assalto di forze dell’ordine senza precedenti: era solo in una stanza e per ucciderlo si è fatto avanti addirittura l’esercito. Senza contare le migliaia di persone che si erano assiepate all’esterno per assistere alla vicenda.
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Come mai una tale dimostrazione di forza pubblica contro un solo uomo?
Jules Bonnot era considerato all’inizio del Novecento il nemico pubblico numero uno.
Di estrazione povera, Bonnot lavorò come operaio e fece esperienza delle durissime condizioni delle fabbriche francesi con i relativi soprusi da parte dei padroni. Non era uno che riusciva a tenere per sé le proprie opinioni, ma neanche i padroni scherzavano, protetti com’erano da una legislazione che stava dalla loro parte.
Con qualche sciopero e tafferuglio, era facile venir schedato come facinoroso e una volta schedato, non trovavi più lavoro. E quando si è disperati, si compiono gesti disperati.
Bonnot trovò una parziale ancora di salvezza nell’esercito: nelle strette maglie della disciplina, contrariamente a quanto si poteva pensare, divenne un soldato modello. Era dotato di una buonissima mira, e si impratichì con le armi e con i motori.
Uscito dall’esercito si sposò ed ebbe un figlio, ma le ingiustizie a cui assisteva quotidianamente sul posto di lavoro lo resero inquieto e alla fine la moglie lo abbandonò. Dopo essersi ripreso, riuscì a trovare lavoro come autista: il direttore lo aveva preso di buon occhio, ma Bonnot era ancora schedato e le voci girano. Perse anche questo posto.
Per fuggire al suo passato, andò a lavorare come autista in Inghilterra, dove divenne l’autista di Sir Arthur Conan Doyle, ma la pace non poteva durare a lungo.
Per farla breve, Bonnot rientra nel giro degli anarchici.
L’etichetta “Anarchico” è quanto di più inutile possa esistere. Sotto questa denominazione si trovava di tutto, dai filosofi, ai criminali comuni, da chi combatteva il sistema dei padroni con la legalità e i giornali, e chi (gli illegalisti) passava alle vie di fatto.
Bonnot diventa grande amico di un italiano, un certo Platano che, diciamolo, era fuori di testa. Mi chiedo ancora come si formino le amicizie (anche se Bonnot lo chiamava “complice”) tra persone di indole così diversa.
Una rapida tira l’altra e Bonnot si trova a capo di una banda di malviventi che riempie le pagine dei giornali (e che spesso è incolpata anche di furti e rapine che non hanno niente a che fare con lei). I mass media dell’epoca hanno avuto un ruolo centrale nell’identificare l’anarchismo con il Male assoluto. Le forze dell’ordine avevano ingaggiato una vera e propria guerra senza esclusione di colpi: pestaggi dei prigionieri, interrogatori senza tutele, arresti di persone innocenti (qualcuna anche ghigliottinata).
Il romanzo verso la fine si trasforma in una specie di cronaca, un po’ noiosetta, forse, ma credo che questa, visto l’incalzarsi dei fatti, fosse la forma migliore per descrivere cosa successe nei giorni precedenti alla morte di Bonnot (di cui trovate un filmato d’epoca anche su YouTube).
Noi leggiamo di Bonnot e del circolo degli anarchici nel 2023 e prendiamo le parti delle personalità più idealiste (dei criminali no), ma pensate alla tempesta mediatica a cui era sottoposto il lettore comune in quegli anni. Oggigiorno con i social non ci comportiamo molto diversamente: appena c’è un sentore di crisi, si cercano i capri espiatori.
Bonnot, così come è raccontato da Cacucci, ispira, tutto sommato, simpatia: è una vittima dei tempi che credeva in un mondo più egalitario. Cosa ha sbagliato?
Io sono pacifica di natura, ma nella situazione di quegli anni, una protesta pacifica avrebbe sortito degli effetti? Non lo so. Certo è che la violenza chiama violenza, da qua non si scappa.
Dialogo allora? Ma lavoratori e datori di lavoro sono portatori di interessi troppo contrastanti, non ci può essere un vero dialogo. Provate a dire a un datore di lavoro che lo stipendio, con gli ultimi aumenti, non basta. Vi risponderà che anche per le aziende i costi sono aumentati, ed è inutile rispondergli che le aziende possono aumentare i prezzi, mentre i dipendenti non possono alzarsi gli stipendi: non ci si capisce.
Le aziende sono portatrici di interessi privati in contrasto con gli interessi dei dipendenti: le aziende vogliono tenere bassi gli stipendi, i dipendenti li vorrebbero più alti. Inutile che i titolari dicano che hanno la responsabilità di tot famiglie alle loro dipendenze: le aziende non lavorano per le famiglie, lavorano per un profitto, sono nate per questo: perché nascondere la verità? Se io fondassi un’azienda (cosa da cui mi guardo), non lo farei con lo scopo di tenere alti gli stipendi. A meno che un’azienda non sia una Onlus o non sia costretta dal governo ad alzarli…
Ho iniziato a leggere questo libro nel giorno dell’anniversario in cui, tre anni fa, ho preso il covid, ma non l’ho fatto apposta, è stato per pura coincidenza, giuro.😓
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Si imparano sempre cosette interessanti dai libri di storia ben scritti – anche se John Kelly aveva inizialmente intenzione di scrivere un saggio sull’AIDS, e poi la peste della metà del milletrecento lo ha assorbito totalmente.
Ad esempio, ho scoperto che i🐭 topi domestici… ridono.
E che uno dei peggiori flagelli per l’umanità è dovuto al rigurgito 🤮di una pulce: il bacillo della peste infatti si installa all’inizio dell’apparato digerente di questi insetti, provocando una specie di blocco. Ne consegue che la pulce non riesce a inghiottire il sangue.
Non riuscendo a sfamarsi, continua a pungere come una pazza, e siccome il sangue inghiottito si ferma nella parte anteriore dell’apparato digerente, ogni volta che punge, 🐛 per non restare soffocata dal sangue, lo vomita nel nuovo morso.
Interessante, no?
Ma sono interessanti anche gli aspetti sociali ed economici di questo periodo.
In seguito ai numerosissimi decessi, i padroni feudali, che potevano essere nobili o enti ecclesiastici, si sono trovati a disporre di un’enormità di ricchezze grazie alle tasse di successione. La tassa veniva pagata spesso in animali – arrivava il balivo e si sceglieva la mucca migliore. Ma a forza di accumulare mucche, 🐮🐄 che non potevano essere accudite perché mancava personale, i padroni hanno dato l’ordine di vendere gli animali.
Un’immissione massiccia di animali nel mercato ha causato un crollo del loro prezzo💰🤑. Elementare Watson.
Il saggio affronta l’epidemia di peste🤒 dalla sua nascita al suo fulgore, seguendola per le vie che ha presumibilmente seguito a partire dalle steppe euroasiatiche. Veniamo così a scoprire come i vari paesi hanno reagito all’epidemia. A Ragusa, per esempio, l’attuale Dubrovnik, è stata introdotta la quarantena, cioè la chiusura delle città per quaranta giorni, un periodo che richiamava la Quaresima cattolica.
A Londra, una trentina d’anni fa hanno aperto le tombe ⚰️sotterranee di questi periodi e hanno scoperti che gli inglesi, con la loro solita flemma, sono spesso riusciti a mantenere la calma e a non farsi rovinare dal panico: i corpi erano ricoperti di cenere. Siccome la cenere ritarda la decomposizione, si deduce che i becchini ne ricoprissero i morti per ritornare in un secondo momento a completare la sepoltura. In certi periodi infatti, la mortalità era così alta che non c’era tempo di scavare tombe e ricoprirle subito.
Su tutto, la Chiesa🕍⛪, che ha continuato a dichiarare che la peste era una punizione divina per i peccati degli uomini, un atteggiamento, come al solito, ha ritardato la ricerca e le cure (ricordo che a quel tempo era ancora vietata la dissezione dei cadaveri per motivi di studio).
Molti episodi narrati in questo libro li ho ritrovati in “Mondo senza fine” che ho appena finito di leggere, di cui potete leggere la recensione nel post precedente.
Milleduecento pagine, quattordici giorni per finirlo e una miriade di personaggi. La storia si dipana negli anni tra il 1327 al 1361 nella città di Kingsbridge, duecento anni dopo gli avvenimenti de “I pilastri della terra”.
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Credo che i personaggi più importanti siano comunque Caris, figlia di un ricco lanaiolo, e Merthin, figlio di un cavaliere. La vicenda inizia quando i due bambini, insieme a Gwenda e Philemon (figli di un povero imbroglione e ladro) e Ralph, fratello di Merthin, assistono a uno scontro tra cavalieri nella foresta, che si conclude con la sparizione di una misteriosa lettera.
Negli anni successivi, ne succedono di tutti i colori.
Merthin non può diventare cavaliere, cosa che riesce al più sanguinoso fratello Ralph, ma diventa un bravo costruttore. Si innamora di Caris ma per tutta una serie di ragioni non può sposarla: prima lui non ha un mestiere, poi ce l’ha ma viene incastrato dalla figlia del suo datore di lavoro, che lo accusa di essere il padre del figlio che aspetta.
Poi Caris viene accusata di stregoneria, e per salvarsi, si fa monaca. Diventa addirittura badessa, e quando potrebbe rinunciare ai voti a andarsene con Merthin, scoppia la peste, e lei si sente in obbligo di curare i malati.
Ma neanche per Gwenda le cose filano lisce. Si è innamorata di Wulfric, il bellone del paese vicino, che però è fidanzato con Annett, un’oca giulia che civetta con tutti. Quando Wulfric, per difendere Annett, rompe il naso a Ralph, comincia una serie infinita di sventure, perché Ralph finirà per diventare conte e non rinuncerà mai alla vendetta.
Tra i tanti avvenimenti, vediamo perfino suor Caris che parte per andare in Francia in cerca del suo vescovo (le serve un permesso) che si è unito all’esercito per l’invasione del paese. Potere immaginarvi cosa la aspetta sul suolo nemico sulle tracce di un esercito che sparge violenza ai quattro venti. Tra una battaglia e una fuga, tuttavia, riesce ad avere un’avventura di una notte con la suora che l’ha accompagnata.
Poi nel 1348 scoppia la peste che fa strage in tutte le classi sociali. I frati scappano guidati da Godwyn, cugino di Caris, e la città rimane sfornita di guida spirituale. I morti si accumulano nelle fosse comuni e i campi rimangono incolti perché manca la gente che li lavori. Caris si dà da fare per curare le persone con una parvenza di scientificità (parola grossa), e non è facile perché deve combattere contro i frati medici, molto più conservatori e inefficacia
Ho ristretto gli avvenimento principali in poche righe, perché anche solo citare i nomi di tutti i personaggi richiederebbe troppo tempo.
Ken Follett dispone di un team di esperti storici che lo supportano in molte fasi della scrittura, è per questo che il romanzo abbonda di dettagli e l’ambientazione è così ricca.
Anche le motivazioni psicologiche però sono ben costruite.
Un commento generale sui personaggi: spesso le donne sono più sveglie e più resilienti degli uomini, vedi Gwenda e quello che diventerà suo marito, Wulfric. Inoltre, l’immagine dei frati che ne esce non è molto lusinghiera: l’attività principale dell’abate è macchinare per acquisire più potere e per manovrare le elezioni delle cariche cittadine, in modo che arrivi al potere qualcuno di favorevole al potere religioso.
Anche se il romanzo è ben costruito, a volte si ripetono certi elementi, come se l’autore dubitasse che il lettore si ricordi tutto. Grazie della fiducia.
Libri così li leggi volentieri, ti fai un’idea di come funzionavano le cose settecento anni fa. E sapete una cosa? L’uomo è sempre lo stesso. I poveri e i ricchi ci sono sempre stati, gli intelligenti e gli stupidi ci sono sempre stati, gli altruisti e gli egoisti ci sono sempre stati. Ma ogni tanto meglio leggere un romanzo, così, per non dimenticarcelo.
Il volumetto ha 293 pagine, ma comprendono le presentazioni dei singoli racconti e la pronuncia in pinyin, dunque l’interlinea è molto ampia. A questo si aggiungano delle illustrazioni e il fatto che ai lati di ogni pagina si deve lasciare lo spazio per le traduzioni in inglese dei termini più difficili: alla fine, la parte scritta in cinese credo che giri attorno alle 60-70 pagine.
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Insomma, ho impiegato quattro mesi per leggere questi quattro racconti in lingua.
Non mi lamento: è stata una lettura intensiva, nel senso tecnico del termine. Mi spiego meglio.
La lettura estensiva è quella che si fa per piacere, quando si conoscono almeno l’80% dei termini di una lingua straniera. Regola vorrebbe che non ci si fermasse a cercare i termini che ancora non si conoscono, deducendoli dal contesto. Studi recenti hanno portato alla ribalta questo metodo di lettura come uno dei migliori per approfondire il lessico e i termini correnti.
La lettura intensiva invece è quella che si fa di un testo dove non si conoscono così tanti vocaboli: è il mio caso, perché col cinese sono ancora molto indietro.
Ma non mollo.
Un giorno (2030?) riuscirò a leggere libri in cinese senza tradurre un carattere ogni tre…
Di cosa parlano questi racconti?
Sono scritti da autori cinesi degli anni ottanta e riguardano la vita dei cittadini in quegli anni, niente di davvero sconvolgente, tutto molto politically correct e intimista. L’ultimo ad esempio riguarda una giovane giornalista che va a intervistare delle persone sul matrimonio e sulla vita di coppia. Un po’ noiosetti, se devo dirla tutta…
Non è facile trovare libri graduati che contengano storie interessanti. Forse dovrei provare con un libro di self-help: di solito sono facili da leggere in altre lingue perché sono molto divulgativi e il vocabolario non include mai termini troppo tecnici.
Qualcuno di voi studia il cinese? Avete titoli da consigliarmi?