Della pittrice Artemisia, prima di leggere questo libro, sapevo che era stata violentata a diciassette anni e che ciononostante aveva trovato la forza di diventare una delle migliori artiste del suo tempo.
La Lapierre però ci racconta la storia molto più in dettaglio, dopo aver letto e studiato una montagna di documentazione in più lingue.
Nella mia ingenuità, pensavo che dopo esser stata violentata, la ragazzina avesse iniziato a odiare Agostino Tassi con tutto il suo cuore e la sua anima, ma la storia è molto più complicata. Era una donna e siamo nel Seicento. A quel tempo, una donna doveva sposarsi. E Agostino Tassi, dopo il fattaccio, le aveva promesso di renderla una donna “onesta”, e per un po’ vissero insieme come marito e moglie, pur non essendo sposati.
Tassi era comunque un uomo interessante. Ed era un amico del padre. Insomma, era tutto ambiguo e complicato.
Eppure Artemisia ha trovato il coraggio di portarlo in tribunale. Ma la sapete una cosa? I giudici, per essere sicuri che lei non stesse mentendo, le hanno rotto i pollici. A lei, non a Tassi.
Questo è un libro che ci fa capire bene come un artista sia solo un essere umano.
Prendiamo Agostino Tassi, che ha violentato la figlia diciassettenne dell’amico. Era sposato, ma ha fatto uccidere la moglie. Poi ha messo incinta la cognata quattordicenne e poi l’ha fatta sposare con un suo apprendista.
La strada degli artisti in cui abitavano Artemisia e la sua famiglia era famigerata e pericolosissima: gli accoltellamenti per quelli che noi oggi dichiareremmo “futili motivi” erano all’ordine del giorno, anche se allora, il riconoscimento della propria arte era essenziale per guadagnarsi da vivere e passava attraverso simboli, spillette, precedenze varie.
Artemisia, a differenza dei fratelli, aveva dimostrato subito al padre di poterlo eguagliare nella pittura. E, diciamolo, cosa le restava da fare, dopo aver perso la dote, che il padre aveva speso per il funerale della moglie trentenne?
Intanto lei affina le sua capacità e diventa un’artista affermata, fino ad arrivare alla corte dei Medici. A 25 anni di sposa, perde tre figli, viene ammessa all’Accademia (una donna!), molla il marito, si trova diversi amanti, fa altre due figlie che cerca di tenere lontano dall’ambiente artistico, si destreggia tra un partito e l’altro, tra un duca e un Papa, tra Napoli, Roma e l’Inghilterra… insomma, ha una vita che possiamo definire “piena”.
Ma tutti i nodi devono tornare al pettine.
Nel suo caso, il nodo è suo padre. Quel padre che, da piccola, la portava sulle spalle, che le ha insegnato a dipingere e che lei, poi, non vede per venticinque anni, finché lui non la chiama in Inghilterra. Perché? Per rivederla? Per aiutarlo a ritrovare la sua vena artistica ormai troppo secca per decorare la cappella della regina?
Un libro pieno di sfumature psicologiche ben ricostruite. L’autrice è riuscita a farmi vivere più di quattrocento anni fa in un ambiente che oggi idealizziamo un po’ troppo.
Spesso pensiamo agli artisti come a delle persone che vivono in un mondo diverso dal nostro, che segue regole speciali, e siamo portati a giustificarli più del dovuto: “Sono artisti”, diciamo.
No.
Sono esseri umani con delle capacità che la società apprezza e paga. Ci aiutano a capire meglio altri esseri umani, o un certo periodo storico, ma loro, con le loro braccia e le loro gambe, sono felici? E quando sono felici? L’arte gli basta? La sensibilità che usano per creare, li rende persone migliori?