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Misia (Misia Sert) @Adelphiedizioni

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Ho letto diverse biografie e autobiografie di personaggi del Novecento, però non ricordo che qualche artista, scrittore, poeta, pittore abbia mai menzionato questa Misia. E ora mi trovo ad aver letto un libro scritto da lei, che racconta la sua vita trascorsa tra alcuni dei personaggi più in vista del secolo scorso.

Alcuni nomi?

Picasso, Stravinsky, Proust, Cocteau, Mallarmé, Valery, Lautrec, Debussy, Ibsen, Apollinaire, Zola… Tutti personaggi che, agli inizi del Novecento, non erano ancora mostri sacri come oggi.

L’autobiografia dunque si rende interessante come ritratto di un’epoca, ma Misia, come essere umano, non mi ha colpita molto favorevolmente.

Sembra sempre preoccuparsi di mostrare quanto lei fosse amica di questo e di quello, ma in realtà le sue descrizioni – con alcune eccezioni – sono tutte piuttosto superficiali; ricorre molto al pettegolezzo, ai discorsi che si facevano in società sui debiti di uno e sui tradimenti dell’altro.

Misia dice di essere un essere nato per vivere tra gli artisti, ma non riesce a descriversi e a descrivere come un’artista: siamo su un altro mondo rispetto alle vivide immagine che ci ha lasciato Canetti dell’Europa del suo tempo e dei personaggi che ha incontrato nella sua gioventù.

Mi dà l’impressione che il suo interesse per gli artisti sia più mondano ed emotivo, e non guidato da un genuino amore per l’arte in sé. O, forse, le manca solo il talento letterario per esprimerlo e farcelo percepire, questo amore.

E poi, colpa mia, mi innervosisco quando sento gente ricchissima che si lamenta della noia e dell’infelicità, atteggiandosi a romantica con fare problematico, quando alle spalle ha cassetti pieni di gioielli, castelli, barche, automobili e conti in banca.

Misia non era un’intellettuale e, se si esclude la prima gioventù, non era neanche una gran lettrice:

(…) mi piace moltissimo stare ad ascoltare cose estremamente intelligenti che non capisco bene, è una delle mie debolezze.

Inoltre, certi aspetti superficiali non glieli perdono, mi fa male agli occhi leggere certe frasi, come quando sopravvaluta la bellezza fisica:

Questa virtù, secondo me, è tanto essenziale per una donna che non ho mai potuto avere un’amica brutta.

Oppure quando si lamenta che il suo primo marito si dia troppo da fare per ideali di promozione sociale aiutando le classi più disagiate. Lo lascia fare, ma non capisce la spinta che lo muove, ne parla come di un ragazzone che cerca un hobby.

Le autobiografie non sono tutte sincere.

Questa l’ho trovata molto poco sincera, ecco.

 

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Il metodo Aristotele (Edith Hall)

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Come bisognerebbe prendere le decisioni? Ieri come oggi, questi passaggi suggeriti da Aristotele restano validissimi:

  • Non decidere in fretta: prenditi il tuo tempo, se possibile, dormici su.
  • Verifica le informazioni in tuo possesso: soprattutto oggi, che siamo inondati da informazioni di tutti i tipi.
  • Consulta un esperto, e seguine i consigli. Può essere un esperto in carne ed ossa, ma puoi leggerne le parole anche in un libro o ascoltarlo su youtube.
  • Valuta il punto di vista di tutte le persone coinvolte dalle conseguenze della tua decisione.
  • Esamina tutti i precedenti conosciuti, sia che appartengano alla tua esperienza che all’esperienza di persone che conosci (magari leggendo delle biografie, tanto per allargare il cerchio delle tue conoscenze).
  • Esamina le probabilità degli esiti delle tue decisioni e preparati a tutte.
  • Prendi in considerazione il Caso: non puoi controllare tutte le variabili, è così, non puoi farci niente. Tanto vale essere psicologicamente pronti.

Un bel libro per affrontare Aristotele, autore spesso considerato ostico, in un’ottica contemporanea.

I capitoli affrontano vari temi: la felicità, il potenziale umano, le decisioni, la comunicazione, la conoscenza di sé, l’amore, il tempo libero e la morte.

Il capitolo più ispirazionale è – secondo me – quello dedicato al tempo libero e alle possibilità di automiglioramento.

Leggetelo.

Il tempo libero, ribadisce Aristotele, se usato correttamente, è lo stato umano ideale.

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Le livre de mon ami – Anatole France

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Anatole France, premio Nobel per la letteratura 1921, difensore irriducibile dei diritti umani, membro dell’Accademia Francese e ora pressoché dimenticato. Perché?

Perché è noioso!!

Sono riuscita a leggere metà libro senza sbadigli, la metà in cui il narratore parla in prima persona della propria infanzia e giovinezza tra gli agi di una famiglia francese di fine Ottocento.

Non certo una lettura avventurosa, e neanche una lettura attraente dal punto di vista psicologico: è tutta ammantata dalla soavità del ricordo, immagini offuscate dalla nebbia, i fiorellini, la mammina che si preoccupa se il figlioletto ha le guance rosse e se si sporca i pantaloncini (tanti diminutivi e vezzeggiativi), ecc…

La seconda metà può essere davvero utilizzata al posto del sonnifero serale: è la parte in cui il narratore parla della figlioletta, di lei che gioca, di lei che è bella, dei suoi amichetti che leggono i libri dell’infanzia…

Ammetto che tra un bambino e un gatto preferisco il gatto, ma… non leggo neanche libri di gatti, dunque cercate di capire la fatica che ho fatto per arrivare alla fine del libro.

E neanche alla fine: ho saltato le ultime venti pagine in cui c’è un dialogo sulle fiabe.

No, questa letteratura edulcorata non fa per me.

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21 Lezioni per il ventunesimo secolo – Yuval Noah Harari

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Ventuno capitoli, ognuno con una tematica con risvolti universali: non saprei da dove cominciare a parlare di questo libro.

Eppure c’è un filo che lega tutti i topics, dalla tecnologia, al lavoro, dal nazionalismo alla religione, dall’immigrazione al terrorismo, dall’ignoranza alla guerra, dalla libertà all’educazione. Questo filo è dato dalle storie.

Noi siamo fatti di storie.

Fin da quando iniziamo a comunicare, quello che ci interessa non sono i fatti, i numeri, i grafici, la realtà, ma la storia che noi creiamo con questi dati. Le storie ci hanno permesso di comunicare tra di noi e ci hanno dato quel di più che ha fatto della razza umana la dominatrice della Terra.

Nel Novecento disponevamo di tre grandi storie che spiegavano il presente di allora: il comunismo, il fascismo, il liberismo. Il liberismo sembrava prevalere, ma nel Duemila anche il Liberismo ha perso la sua attrattiva: siamo rimasti senza storie.

Anche il nostro sé è una storia, siamo noi che ci creiamo un’immagine di noi stessi. E una storia devono inventarla i terroristi, per attirare martiri, e le religioni, per attirare fedeli.

Tutto è storia.

Harari dice una cosa che mi fa pensare: le storie, essendo una manipolazione di fatti e realtà, non sono realistiche. A volte la nostra razionalità litiga con questa mancanza di aderenza ai fatti, perciò, per tenerci legati alle storie (che creano coesione sociale), si inventano rituali e simboli, che ci mettono davanti, giorno dopo giorno, la storia per rendercela quotidiana, nostra.

Uno degli strumenti più efficaci nel convincerci ad accettare le storie, sono i sacrifici. Quando uno si immola per una causa, di qualunque tipo, religiosa, nazionalista, culturale, poi è più difficile per lui ammettere che la storia è falsa.

Richiede molto coraggio ammettere di aver ucciso o sacrificato persone, animali, desideri per una cosa che non esiste. Un’ammissione del genere intacca direttamente la nostra identità.

Un altro punto su cui Harari insiste molto è la discontinuità tecnologica.

Gli algoritmi, dice, possono conoscerci meglio di noi stessi, soprattutto se la tecnologia si estenderà a monitorare anche le nostre reazioni fisico-chimiche (cosa che non è ormai più fantascienza).

Un computer, analizzando le nostre reazioni, potrebbe sapere meglio di noi cosa ci fa bene, sia che si tratti di scegliere la facoltà universitaria che il partner o da che parte voltare il volante per evitare un incidente.

Qualcuno potrebbe obiettare che il computer non ha basi etiche.

In realtà, noi Sapiens, che ci vantiamo di aver inventato l’etica, quando si tratta di decidere se pagare le tasse o se fare l’elemosina o se tradire il compagno, lo facciamo sulla base delle sensazioni del momento: non ci mettiamo a ragionare sul Bene e sul Male.

Da questo punto di vista un algoritmo potrebbe rispettare l’etica meglio di noi (a patto che ci sia un qualche tipo di controllo sui principi etici che vengono processati alla base).

Sto banalizzando 321 pagine illuminanti… Ma questo è un libro che non può essere riassunto: se salti un passaggio, perdi la connessione logica, perché ogni capitolo è collegato al successivo in un unico grande discorso.

Io l’ho adorato.


 

PS: per chi si chiedesse perché l’ho letto in inglese…. l’ho comprato usato e mi è costato la metà.

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Il mandarino bianco (Jacques Baudouin)

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Romanzo sulla vita di Teodorico Pedrini, musicista (e pure prete, ma… a fasi alterne!).

Vissuto a cavallo tra il 1600 e il 1700, il Papa lo mandò in Cina per controllare i gesuiti (che stavano “cedendo” troppo su certe questioni ritualistiche) e con la speranza di convertire al cattolicesimo niente popò di meno che… l’imperatore Kanxi!

Bisogna dire che Pedrini era diventato prete in modo particolare: la sua più grande passione era la musica, ma senza appoggi nobiliari o ecclesiastici aveva poche possibilità di sfondare. Cedette alla tonaca solo dopo la morte della ragazza di cui si era innamorato (schiacciata dai cavalli durante il carnevale, per la cronaca).

Ovviamente, come in ogni avventura che si rispetti, per andare da Roma a Pechino, il Papa non gli ha fatto fare la strada più breve, via terra: lo ha mandato prima nel nord della Francia, a S. Malo; poi con la nave gli ha fatto attraversare lo stretto di Magellano, passare per il Cile, andare in Messico (dove stava per restare a causa di una meticcia) e poi ripartire per la Cina.

Il viaggio per arrivare in Cina è durato solo (!!) sette anni, anni molto difficili, considerando i pericoli dei viaggi a quei tempi.

A Pechino viene ricevuto dall’imperatore Kanxi soprattutto grazie alle sue capacità musicali, ed assurge fino alla carica di mandarino: onore tra gli onori!

Peccato che l’imperatore sia sotto l’influenza dei gesuiti…

I gesuiti nel 1600-1700 sono molto potenti perché dispongono di conoscenze matematiche ed astronomiche che sono utili all’imperatore.

Le fortune di Pedrini, così come sono salite alle stelle in maniera repentina, in maniera altrettanto repentina cadono nelle fogne.

Viene arrestato, picchiato e incarcerato con una scusa qualsiasi.

Durante la prigionia, pensa di continuo alla concubina e al figlio (ve l’avevo detto che era prete a fasi alterne), ma riflette anche sull’opportunità di costringere i cinesi ad adottare i riti romani: è davvero così necessario che rinuncino a prostrarsi davanti alle tavolette dei loro antenati?

Quando muore Kanxi e sale al trono il figlio, le fortune di Pedrini si risollevano.

Per poco: perché arriva il terremoto e lui resta vedovo.

Sono 317 pagine, dunque potete capire che il mio riassunto qui sopra è stato davvero succinto. Ho sorvolato su tutti gli intrighi di corte (sia occidentali che orientali) che hanno determinato il destino di Pedrini, e sull’inutilità dei suoi sforzi per convertire chicchessia in Cina.

Certo, l’autore non ha uno stile da eccelso scrittore, ma il libro si fa leggere grazie all’andamento episodico, che tralascia i tempi morti di una vita e allontana la noia.

E’ inoltre istruttivo vedere come l’atteggiamento e il pensiero di Pedrini cambino negli anni: all’inizio è convinto della sua missione e i suoi stessi discorsi sono pieni di ragionamenti sulla necessità di convertire i cinesi anche dal punto di vista ritualistico.

Alla fine, Pedrini quasi abbraccia le modalità con cui hanno agito i gesuiti e cerca (tramite interposta persona) di convincere il Papa che se la Chiesa non adotta le tesi gesuitiche, rischia di perdere la Cina per sempre.

Questo non si chiama essere voltagabbana.

La realtà cambia di continuo. Non cambiare idea (quando necessario), non è mancanza di coerenza, ma è sintomo di rigidità mentale.

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Mediterraneo: non sono femminista, ma…

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Non apprezzo molto il cinema italiano: gesticolano troppo e le intonazione nei dialoghi sono sfasate rispetto ai contenuti (vuoi mettere la maestria dei doppiatori italiani??). Ma essendo in quarantena, non possiamo uscire a prendere DVD nuovi, e allora ho ripiegato su un film visto molti anni fa e che avevo dimenticato.

Breve riassunto: un gruppo raffazzonato di militari italiani viene mandato in un’isoletta greca nel 1941. Per una serie di eventi, per tre anni rimangono isolati dal mondo e perdono completamente la cognizione di cosa sta succedendo oltre il mare.

Il tema è la fuga, un gesto spesso criticato, bollato come codardia: ma come, di là del mare succede di tutto, c’è fermento, c’è la possibilità di cambiare il mondo, e tu stai qui a crogiolarti al sole e a ballare come un greco?

Tra i vari personaggi, due fratelli vengono lasciati in cima a un monte per scopi di osservazione. Trovano una pastorella e scoprono il sesso a tre. Tutto molto allegro e senza sensi di colpa.

Ci sta.

Quello che non ci sta, è la scena finale.

Quando gli italiani se ne vanno.

La pastorella, dal molo, li saluta allegra, ricambiata, reggendosi la pancia.

Cioè: questi due (non si sa chi l’abbia messa incinta) se ne vanno, salutano, mandano baci, “ti amo” ecc. ecc… e lei fa lo stesso.

Quanta allegria, quanti sorrisi, qualche lacrimuccia.

Solo che la tipa è rimasta con un figlio, in una società patriarcale degli anni quaranta, e senza marito.

Salvatores: è credibile tutta questa allegria? O non è invece più verosimile che la pastorella sia stigmatizzata e bollata come poco di buono da tutta la comunità? Che idea si fa la gente dopo aver visto una scena del genere? Che è bello essere ragazza madre? Che gli uomini fanno quello che devono fare e poi chi s’è visto s’è visto?

Oscar come miglior film straniero 1992?

Ma vaffanc…

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L’ultimo ballo di Charlot (Fabio Stassi) @EdizioniSellerio

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Un romanzo sulla vita di Charlie Chaplin.

In esilio in Svizzera con la moglie e il figlio, Chaplin, ormai ultraottantenne, riceve la visita della morte: è arrivato il momento di seguirla. Lui riesce però a strapparle un accordo: se riuscirà a farla ridere, lei le concederà un altro anno di vita per veder crescere il figlio.

Quando il vecchio capisce che non riuscirà un’altra volta a gabbare la morte, inizia a scrivere una lettera al figlio e gli racconta di sé. Di come è nato in un circo da una madre con problemi mentali e da un padre alcolizzato, di come è arrivato negli Stati Uniti, delle decine e decine di lavori che ha fatto per sbarcare il lunario (anche l’imbalsamatore) e di come è approdato al cinema, l’invenzione del secolo.

Delle sue vicende giudiziarie col governo degli Stati Uniti e col Maccartismo, invece, ne parla in modo poco approfondito, ci scivola sopra, quasi fosse troppo doloroso.

Uno dei temi affrontati, è la ricerca della perfezione, che sembra fosse una delle ossessioni di Chaplin. Peccato che non abbia potuto sfruttarla per rubare qualche anno in più alla morte, ma, dopotutto, la perfezione non fa ridere.

Imparare a perdere la perfezione è troppo crudele e inseguirla per tutta la vita un gesto inutile e superbo.

Scritto con uno stile onirico ma preciso, è davvero un bel libro.

 

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Numero zero – Umberto Eco @libribompiani

“Un perfetto manuale per il cattivo giornalismo”

TRAMA

Colonna, uno squattrinato che si è mantenuto fino ad ora con traduzioni dal tedesco, trova un lavoro a dir poco particolare: deve scrivere un libro su un esperimento giornalistico. Lo ingaggia un tale Simei, per conto di un ricchissimo magnate: il suo compito sarà quello di raccontare come fallisce il tentativo di aprire un giornale.

Il magnate, infatti, vuole entrare in certi salotti “buoni”: perciò finge di voler aprire un giornale che dica la verità. La Verità è pericolosa: dà fastidio a molti. Questi “molti” dovranno chiedere al magnate di NON aprire il giornale e, in cambio, gli apriranno i tanto agognati salotti.

Questa è l’arzigogolata scusa che Eco utilizza per raccontarci come nascono le notizie giornalistiche.

La storia infatti gira attorno all’omicidio di uno dei redattori del giornale, tale Braggadocio, che è stato ucciso perché indagava su un argomento (forse) scomodo: la presunta morte di Mussolini.

Dell’omicidio in realtà si parla solo all’inizio e alla fine del romanzo; la maggior parte delle pagine, invece, è dedicata alle modalità con cui si filtrano e si diluiscono le notizie di un giornale.

DAL LIBRO

L’astuzia sta nel virgolettare prima un’opinione banale, poi un’altra opinione, più ragionata, che assomiglia molto all’opinione del giornalista. Così il lettore ha l’impressione di essere informato circa due fatti ma è indotto ad accettare una sola opinione come la più convincente.

Non sono le notizie che fanno il giornale, ma il giornale che fa le notizie.

Sfogliate i dispacci di agenzia, e costruite alcune pagine a tema, addestratevi a far sorgere la notizia là dove non c’era.

E’ sempre meglio limitarsi a insinuare. Insinuare non significa dire qualcosa di preciso, serve solo a gettare un’ombra di sospetto sullo smentitore.

L’insinuazione efficace è quella che riferisce fatti di per sé privi di valore, ancorché non smentibili perché veri.

Il nostro lettore non è un intellettuale che ha letto i surrealisti (…) Non possiamo occuparci troppo di cultura, i nostri lettori non leggono libri ma al massimo La Gazzetta dello Sport.

Non bisogna parlare troppo del libro, ma far venire fuori lo scrittore o la scrittrice, magari anche con i suoi tic e le sue debolezze.

Oggi per controbattere un’accusa non è necessario provare il contrario, basta delegittimare l’accusatore.

LA MIA OPINIONE

E’ un romanzo a tema. O più temi: da un lato ci mostra come il giornalismo sia ritenuto inattendibile o apertamente di parte, dall’altro ci ricorda che le storie plasmano la nostra vita, vere o false che siano. A volte, la vita ce la possono anche togliere, come è successo a Braggadocio.

In stile anni Ottanta, dall’ambientazione da Italietta piena di commendatori e impiegatucci che si parlano addosso e alle spalle, ci presenta due fatti attorno a cui far girare la storia (l’omicidio e la relazione tra Colonna e Maia), ma il vero scopo è parlarci di giornalismo.

L’ho trovato molto interessante, ti fa riflettere (“Ci stiamo abituando a perdere il senso della vergogna”), ma dal punto di vista del Romanzo, non è tra i migliori di Eco.

3,5 punti su 5.

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Port Mungo – Patrick McGrath

Gin Rathbone ci racconta la storia di suo fratello Jack, grande ma sconosciuto pittore, e di sua moglie Vera Savage, artista scombinata, alcolizzata, fedifraga e madre snaturata.

O no?

Ci racconta anche la storia della morte di Peg, la figlia di Jack, e di come la sorella superstite vada alla ricerca della madre, che, ancora una volta, se ne è andata di casa per seguire i suoi amanti e la sua arte disossata.

O no?

In realtà, Gin Rathbone è una di noi: quello che davvero ci racconta è quanto poco si possa conoscere delle persone, soprattutto se sono persone a noi molto care. Ci racconta di quanto mentiamo a noi stessi e di come leggiamo gli indizi in funzione di quello che pensiamo possa essere vero.

Forse, rispetto ad altri libri di McGrath, questo è meno appassionante dal punto di vista commerciale: non ci sono “grandi” misteri da scoprire, solo dei “segreti” familiari, dei non-detti importanti.

Non è un thriller psicologico. E’ un romanzo più psicologico che thriller, ma proprio per questo è più vicino alla vita di ognuno di noi.

Ci lamentiamo che gli altri ci dicano bugie: ma quante ne diciamo, noi, a noi stessi?

E poi mi è piaciuta l’ambientazione nei Caraibi (ancora) poco conosciuti di qualche anno fa, dove a saltare all’occhio erano la miseria e la sporcizia, e non gli alberghi e le spiagge dorate (anche se, devo dire, che il trasferimento di Jack a Port Mungo non è fortemente giustificato, a mio parere).

Punteggio: 3,5 su 5.

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Attraversare i muri – Marina Abramovic @Artistispresen

Oggi compie 73 anni, nonostante l’apparente assenza di età delle foto in cui compare.

Ammetto che non capisco tutte le sue esibizioni: capisco la sua volontà di far passare un messaggio, ma non capisco perché debba ricorrere all’automutilazione o alla masturbazione in pubblico o all’esibizione di una lepre morta.

Però c’è una cosa che mi piace di lei: non ha paura di portare avanti la sua passione. Non si occupa delle critiche, numerose, che le vengono rivolte, perché lei ha un obiettivo: aumentare la consapevolezza del pubblico e, tramite questo, forse, un giorno, cambiare il mondo (in questo pecca, a mio modo di vedere, di ingenuità, ma non si sa mai che abbia ragione).

D’altronde, se il mondo non lo cambi con l’arte, con cosa lo puoi cambiare?

Sebbene non sia evidente, Marina prepara ogni sua performance con meticolosità e con mesi di anticipo, impegnandosi non solo a livello fisico, ma anche mentale e spirituale. Non è raro che ricorra a digiuni e periodi di silenzio assoluto, spesso in templi indiani o tibetani, e spesso si rivolge a sciamani e guaritori tradizionali di culture lontane.

L’autobiografia ci mostra la giovane marina alle prese con due genitori inadatti al ruolo familiare ma importanti, ingombranti, emotivamente e nazionalmente: entrambi due ex eroi della Jugoslavia della resistenza, si sposano spinti dall’eccezionale momento storico e dalle reciproche bellezze, ma il matrimonio va a rotoli. Troppo diversi.

A farne le spese, è Marina, figlia femmina in un mondo maschilista, retrogrado e nazionalista.

Marina rimane a casa con la madre fino alla soglia dei trent’anni: la madre è ossessionata dalla pulizia e la costringe a rispettare il coprifuoco serale delle dieci.

Quando la figlia inizia le sue prime performance, la madre, Danica, va in paranoia perché la nudità, nel suo mondo pieno di paranoie, è un peccato imperdonabile.

Marina avrà bisogno di anni per liberarsi dalle pesanti presenze dei suoi genitori, ma prima passerà attraverso un paio di relazioni altrettanto pesanti e ingombranti.

La prima e più famosa è quella con Ulay, anche lui performer, compagno di vita e di lavoro. Famoso è il loro incontro sulla Muraglia Cinese, anche se leggendo la biografia mi sono resa conto che la realtà è stata meno poetica delle immagini che sono passate al pubblico.

La Abramovic non ha paura di raccontarci dei suoi momenti di debolezza, e leggere di depressioni e pianti infiniti di questi personaggi mi fa stare bene. Non per invidia, ma perché ti fanno vedere come loro li hanno superati: la notorietà non li ha resi invincibili e per superare le contrarietà devono far ricorso a forze di cui tutti siamo dotati.

Marina, in questo campo, non si è fatta mancare nulla, ma il lavoro che ha fatto su di sé davvero non si percepisce dalle foto più chiacchierate che si vedono in giro.

Quando sta giorni e giorni seduta al MoMa a guardare negli occhi le persone che si siedono davanti a lei, nelle foto non si capisce quanto possa essere dolorosa quella posizione, e anche critici di grido (come può essere un Francesco Bonami) non hanno colto le intenzioni e la fatica che una performance del genere possa smuovere.

Perché “Attraversare i muri”? Era un modo di dire comunista: il cittadino esemplare doveva essere così forte da attraversare i muri. E la Abramovic ha sfruttato la sua arte per scandagliare i propri limiti.

Un paio di critiche.

  1. Come tutte le artiste contemporanee, bisognerebbe spiegare meglio le intenzioni delle proprie performance, se davvero si vuole essere capiti e non derisi.
  2. Gli animali. Con tutto il suo lavoro sulla propria spiritualità, come mai non è ancora giunta a un adeguato livello di sensibilità nei confronti degli animali? (se leggete il libro, capirete)

Un ultimo commento: il suo film preferito è Teorema di Pier Paolo Pasolini.

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