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Creatività – Come ci rende più coraggiosi, più felici e più forti (Melanie Raabe)

Melanie Raabe è una scrittrice tedesca di thriller. A differenza di molti altri artisti, che creano un mito di se stessi dicendo di aver iniziato a scrivere/cantare/dipingere ancora in culla, lei è molto sincera e confessa di aver provato con molte strade prima di trovarsi con la scrittura: ha provato la musica, il balletto, la recitazione…

Sa quello che dice dunque quando ci spinge a cercare la nostra strada, la nostra forma di arte. Che poi sia un hobby o un lavoro, poco importa; l’importante è avere qualcosa che ci permetta di creare, perché il nostro cervello ne ha bisogno.

Analizza le varie fasi dell’esperienza creativa; dall’inizio, che è quello che ci fa più paura, alla commercializzazione delle proprie creazioni.

In ogni fase, ci sono dei punti fermi. Il primo è: fare.

La procrastinazione è un effetto della paura, ma la creatività è, per definizione, incerta, perché si mette al mondo qualcosa che non c’era. E poi è un falso mito quello secondo il quale la quantità va a discapito della qualità: in realtà non ci può essere qualità se prima non c’è stata una bella dose di quantità.

Un altro punto fermo per la Raabe è la routine: l’ispirazione è importante, la motivazione è importante, ma da sole non ti portano alla conclusione di un progetto. Le energie si consumano, le scelte che dobbiamo compiere ogni giorno consumano la nostra riserva di energia. Una routine ci libera dal peso delle scelte.

E infine: autenticità.

Che significa: autoaccettazione. Capacità di aprirci al mondo, magari rischiando la vulnerabilità.

Ma la vulnerabilità è un tratto universale: ognuno di noi è vulnerabile in qualche punto, e venire in contatto con un’opera d’arte (un romanzo, un quadro, una performance) che mette in scena una vulnerabilità simile alla nostra, crea un legame con l’autore e ci fa sentire meno soli. Solo mettendo in gioco la nostra vulnerabilità possiamo creare qualcosa di veramente autentico.

Certo: accettarsi e rendersi vulnerabili non è da tutti. E’ per questo che la creatività può renderci più forti, perché è anche un lavoro su noi stessi.

Insomma, la Raabe affronta un po’ tutti gli aspetti della creatività: dalla capacità di accettare le critiche ai modi per far affluire l’ispirazione, dalla disciplina all’imitazione di altri creativi.

Sono contenta di terminare l’anno con un libro sulla creatività. Non che mi abbia svelato novità sconvolgenti, ma mi è bastato leggerlo per ricordarmi che la creatività esiste.

Non so voi, ma nel mio ambiente i creativi non abbondano; sì, lavoro per un’azienda di design, ma vi assicuro che questi creativi milionari non vengono a pranzo con me, banale impiegata: mi è capitato solo una volta di cenare accanto a Giovannoni, anni fa, ma non ha mai voltato la testa dalla mia parte; l’ha sempre tenuta girata dalla parte opposta, quasi da farmi pensare che avesse un torcicollo.

Se altri creativi ci sono, nel mio ambiente – tra parenti e amici – fanno di tutto per non darlo a vedere, quasi in una forma di pudore (e forse ha a che fare con la paura di rendersi vulnerabili).

Il fatto è che mi sembra di essere l’unica qui attorno ad avere un sacco di sogni, e quando sento parlare di creativi e creatività, mi illumino: chi crea lo fa perché sente che nel mondo (o a lei/lui) manca qualcosa.

Dai, è l’ultimo giorno dell’anno, lasciatemi che scriva qui i miei sogni, uno più irrealizzabile dell’altro (anche se, chissà, con una buona dose di creatività si potrebbe fare qualcosa):

  • cambiare lavoro e settore (magari passando nell’editoria, tra libri di narrativa e saggistica)
  • prendermi un gatto persiano
  • vivere sei mesi in un paese, sei mesi nell’altro (Costa Rica, Perth, Ottawa, Okinawa, Nuova Zelanda, Nuova Caledonia…)
  • avere una casa al mare (non a Caorle… pensavo a qualcosa in Florida)
  • avere molti amici tra scrittori e scrittrici
  • visitare un museo diverso alla settimana
  • diventare invisibile al bisogno
  • leggere nel pensiero
  • finire certi discorsi con certe persone
  • imparare a parlare in pubblico
  • essere più spigliata e meno introversa
  • imparare bene il cinese
  • studiare il giapponese (che mi servirà per quando abiterò a Okinawa)
  • camminare in una piantagione di té in Sri Lanka
  • buttarmi col paracadute
  • dimagrire come Adele (e magari imparare a cantare come lei)
  • Salvare le tigri e altre specie dall’estinzione (anche con mezzi estremi)
  • Diventare dittatrice d’Italia (e metterla a posto)
  • Abbondarmi dall’estetista
  • Dare uno schiaffo a chi se lo sarebbe meritato in passato
  • Creare qualcosa di decente con la tecnica del mixed media
  • Vivere da sola
  • Scrivere libri
  • Ragionare con i capi di stato che trattano male i propri cittadini
  • Scoprire se esiste l’aldilà
  • Parlare con degli extraterrestri e visitare i loro mondi
  • Scoprire come è nato l’universo
  • Capire cosa voglio davvero dalla vita.

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Belle Greene (Alexandra Lapierre) @EdizioniEO

Vincitore del Premio Comisso 2022 sezione Biografia

Un libro bellissimo: bella storia, ben scritto, ben documentato.

Tratta della vita di Belle Greene, bibliotecaria del finanziere miliardario J. P. Morgan, la donna più pagata all’epoca. E’ la storia di una passione, quella dei libri.

Belle Da Costa Greene in realtà era nata Belle Greener e proveniva da una famiglia di colore. Suo padre era stato il primo studente nero a laurearsi ad Harvard e il primo avvocato nero a cui fosse stato permesso di esercitare. Divenne anche il primo console di colore in missione all’estero (Vladivostok).

Un grande uomo, dunque, no?

Beh, anche io sono affascinata dagli uomini che si fanno avanti nel mondo a forza di studio e resilienza, ma si dà il fatto che il padre di Belle Greene nella vita privata fosse quel che si dice un farabutto. Lasciò la moglie per dedicarsi alla causa dei neri (nonché alle sue numerose amanti) e rifiutò categoricamente di aiutare la famiglia.

Geneviève, la moglie, si trovò a gestire da sola i figli. Come fare per garantire loro un futuro decente, senza dover lottare quotidianamente contro la povertà e le ingiustizie? Facendosi passare per bianca, approfittando del colore chiaro della pelle della sua famiglia (alcune figlie erano proprio bionde).

Si inventarono un lignaggio nobile di ascendenza portoghese, i Da Costa, e si trasferirono in un quartiere bianco, tagliando del tutto i ponti con la famiglia di Georgetown, che pure amavano. I figli giurarono solennemente che non avrebbero mai avuto una discendenza, per evitare che il colore scuro degli antenati potesse palesarsi in una delle generazioni successive.

Belle fin da piccola ha un sogno: lavorare con i libri e tra i libri.

Studia, raccoglie informazioni, osserva, fino ad arrivare a lavorare per il magnate J. P. Morgan, famoso tanto per la sua collezione di libri rari quanto per le sue sfuriate. Il rapporto è complesso: il miliardario è sospettoso di natura, deve esserlo, con tutti gli avvoltoi che gli volano attorno solo per i suoi soldi; ma si accorge subito della competenza e dell’energia di Belle, che, pian piano, diventa la donna più pagata d’America.

Si fida di lei: ad un certo punto, Belle ha carta bianca alle aste, può comprare senza limiti di spesa, eppure lei si comporterà sempre con attenzione e rispetto (guai a parlar male del signor Morgan in sua presenza!). Molto spesso rischierà grosso, soprattutto per trasportare opere d’arte e libri dall’Inghilterra all’America frodando le autorità doganali.

Morgan la inserirà nel testamento per un cospicuo legato, ma sarà, per tutta la durata del loro rapporto, un padrone esigente e tiranneggiante: arriverà al punto di dirle che non deve sposarsi!

Lei a sposarci non ci pensa. Non le mancheranno gli amanti, tutti di un certo livello: tra questi bisogna nominare Bernhard Berenson, famosissimo e richiestissimo critico d’arte, dal quale Belle assorbirà quanto più possibile della sua conoscenza, ma che farà anche il finto tonto quando lei, incinta, andrà ad abortire clandestinamente.

Il divieto di avere bambini sarà bellamente ignorato dalla sorella più giovane, Teddy. Il primo figlio nascerà senza conoscere il padre, che muore in Europa durante la prima guerra mondiale, e viene adottato da Belle, che stravede per lui.

Ma il segreto della famiglia è sempre in pericolo, soprattutto a causa del padre di Belle, che sarà una costante ombra minacciosa e che li ricatterà per motivi economici.

Io l’ho trovato un libro bellissimo e vorrei consigliarlo a tutti.

Ognuno di noi ha una paura che lo tiene incatenato dove si trova. Belle rischiava grosso facendosi passare per bianca: se l’avessero scoperta avrebbe perso il lavoro (con il quale aveva garantito un alto tenore di vita a tutta la famiglia) e sarebbe potuta andare in prigione. Eppure lei non si è fatta legare le mani: si è data da fare e ha esaudito il suo sogno.

Inspiring.

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Auguste Rodin, Testamento per i giovani artisti

Lasciami tradurre qualche riga di Rodin che ho trovato in un libro di testi autobiografici in tedesco. A me piace molto.

Cari giovani che volete mettervi al servizio della bellezza, forse vi piacerà il resoconto di una lunga esperienza.

Amate e onorate i maestri che sono venuti prima di voi.

Inginocchiatevi davanti a Fidia e Michelangelo. Ammirate la felicità divina dell’uno e la selvaggia tortura dei sensi dell’altro. L’ammirazione agisce sulle anime nobili come un buon vino.

Guardatevi però dalla mera imitazione dei vostri predecessori. Onorate la tradizione e imparate a riconoscere quello che di fertile c’è in essa: amore per la natura e sincerità. Queste sono le due forti passioni dei geni. Tutti hanno amato la natura, e non hanno mai mentito.

Così la tradizione vi offre la chiave con cui sfuggire alla routine.

La tradizione stessa vi sprona a interrogare incessantemente la Verità e vi vieta di seguire ciecamente un maestro.

La natura sia la vostra unica Dea.

Credetele, senza dubitare. State certi che lei non è mai odiosa e spinge la vostra ambizione ad esserle fedele.

Per un artista tutto è bello, perché il suo penetrante sguardo scova in ogni essere e in ogni oggetto il Carattere, la profonda verità che brilla attraverso la sua forma esteriore. E questa verità è la bellezza stessa.

Ricercate scientemente: non potete mancare di vedere la bellezza, perché la Verità vi verrà incontro.

Lavorate con tenacia.

Voi scultori, rinforzate il vostro senso per la profondità. Lo spirito fa fatica a familiarizzare con questo concetto. Preferisce rappresentarsi le sole superfici. Rappresentare le forme nella loro profondità gli viene difficile. Eppure proprio questo è il vostro compito. (…)

Voi pittori, anche voi dovete vedere la realtà nella sua profondità. (…) Tutti i grandi pittori esplorano lo spazio. La loro forza sta nella conoscenza della profondità. Pensateci: non esistono linee, esistono solo volumi. Quando disegnate non preoccupatevi dei contorni, ma solo dei rilievi.

Esercitatevi senza sosta. Bisogna dominare la propria opera.

L’arte non è altro che sentimento. Però senza la conoscenza di volume, proporzione, colori, senza manualità, il più vivace sentimento viene azzoppato. (…)

Pazienza! Non contate sull’ispirazione. Non esiste. Le uniche caratteristiche dell’artista sono prudenza, attenzione, sincerità, volontà. Svolgete il vostro lavoro come onesti artigiani.

Siate veri, cari giovani (…). L’arte inizia prima di tutto con la Verità interiore. Tutte le vostre forme, tutti i vostri colori devono riprodurre sentimenti.

L’artista che si accontenta della somiglianza esterna e che ricrea dettagli privi di valore con precisione da schiavo non diventerà mai un maestro. (…)

Siate profondi, e realisti fino all’ossessione. Non indugiate mai ad esprimere quello che provate, anche quando vi trovate in contrasto con le opinioni prevalenti. Forse all’inizio non verrete capiti. Ma il vostro isolamento non durerà a lungo. Gli amici si uniranno a voi, perché quello che è profondamente vero per un uomo, è vero per tutti.

Allora, nessuna sistemazione, nessuna distorsione per attirare il pubblico! Semplicità! Ingenuità!

I soggetti migliori ce li avete davanti agli occhi: sono quelli che conoscete meglio.

(…) Un maestro è colui che vede con i propri occhi quello che ognuno ha visto e che riconosce la bellezza delle cose che sono troppo quotidiane per saltare all’occhio degli altri. I cattivi artisti vedono sempre attraverso gli occhiali di altri. (…)

Accettate con gioia la critica onesta. La riconoscete facilmente. Essa conferma un dubbio che già vi rode. Non vi lasciate toccare dalla critica che non afferma ciò che già sapete. (…)

Non perdete tempo a tessere relazioni sociali o politiche. Vedrete molti colleghi che arriveranno al denaro e all’onore grazie agli intrighi: questi non sono veri artisti. (…)

Amate la vostra missione con passione. Non esiste niente di più bello. E’ più importante di quello che pensa la maggioranza della gente.

L’artista offre un grande esempio.

Ama la sua professione. La sua retribuzione più ambita è la felicità per l’opera compiuta. Purtroppo oggi si convincono i lavoratori ad essere infelici, li si convince che devono odiare e sabotare il loro lavoro. Il mondo sarà felice solo quando tutti gli esseri umani possederanno anime artistiche, ovverosia quando compiranno il loro lavoro con gioia.

L’arte è anche una grande lezione di onestà.

Il vero artista esprime sempre quello che pensa, anche a rischio di buttare in mare tutti i vantaggi in suo possesso. (…)

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Un battito d’ali (Sveva Casati Modignani)

Partiamo dalla copertina dell’edizione Mondadori: la farfalla è quella che sbatte le ali e che richiama il titolo. Ed è quella che ha dato il là alla scrittrice per raccontarci la sua storia.

Era in giardino, stava pulendo le erbacce e all’improvviso ha sentito il profumo di suo padre, morto da trent’anni. Poi una farfalla si è appoggiata sul suo braccio.

Ecco come è nato il desiderio di raccontare al padre che non c’è più la propria vita lavorativa prima di diventare scrittrice; non si parla della sua vita privata qui: viene nominato un fidanzato, ma non si dice chi è, come lo ha conosciuto, se è quello che ha sposato…

Bice Cairati non ha finito l’università; non c’erano soldi, e suo fratello aveva la precedenza, perché una donna non sa cosa farsene di una laurea, visto che dopo il matrimonio l’attacca al muro. Così, soprattutto per insistenza di sua madre, ha iniziato a lavorare in un ufficio.

Ingenua al limite della stupidità, ci racconta un paio di aneddoti simpatici.

Come quando dice a un cliente al telefono che il suo capo è nel pensatoio (è una stanza dove il capo va a dormire), o quando scrive la sua prima lettera commerciale (“non ci conosciamo, mi chiamo Bice Cairati, sono la nuova segretaria del tal dei tali…”).

O quando, peggio, parla, a una cena col proprietario di un’azienda cliente, dell”argent de poche” (= bustarella) che consegnano regolarmente al suo direttore degli acquisti.

Ma questo lavoro non le piace. L’insoddisfazione cronica la porta a dare le dimissioni e ad andare a lavorare come segretaria in una famosa galleria d’arte di Milano, finché anche questo ambiente le rivela la pochezza di certi personaggi ricchi e famosi e la fa scappare.

Inizia a lavorare per un giornale ma è un ambiente iper-maschilista e la mandano sempre e solo a seguire i personaggi più glamour (attrici, cantanti, soubrettes), così si stanca e va in un altro giornale.

Quando alla fine inizia a scrivere la storia di alcuni componenti della famiglia, ha alle spalle una buona gavetta giornalistica e questo la aiuterà molto.

E’ sempre interessante leggere l’esperienza di persone che si son date da fare. Certo, non aspettatevi da questo libro l’approfondimento psicologico di un Bellow o di un Roth, ma è un’autobiografia che si legge in un pomeriggio, uno sforzetto si può fare.

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Pubblicità per il creativo che non vuole farsi pubblicità

Il libro per il creativo che non ama farsi pubblicità.

O almeno, pubblicità nel senso tradizionale del termine.

Kleon parte dall’assunto che il genio (ma anche la più normale creatività) non nasce nel vuoto assoluto, ma in un contesto fatto di persone, e sono queste persone la chiave per farsi pubblicità senza… farsela.

Quando sei appassionato di qualcosa, anche se non hai scopi professionali, ti metti a studiare quel qualcosa per conto tuo. Puoi fare errori, prendere strade sbagliate, ma proprio la passione ti rimetterà in senso.

Il consiglio di Kleon è di mostrarti come veramente sei: un appassionato, non un professionista. Mostra pure il tuo processo e i tuoi errori: c’è sempre qualcuno là fuori che è in cerca di esperienze altrui e che non vede l’ora di immedesimarsi nei tuoi successi e nelle tue difficoltà.

La gente vuole essere partecipe del processo, non si accontenta di vedere l’opera finita.

Il proprio lavoro si può mostrare in molti modi, tenendo conto che oggigiorno se non sei online, per il pubblico non esisti. Dunque ben vengano i diario online, gli scrapbook online, i forum online, i documentari online.

Oggi giorno il creativo deve condividere qualcosa, anche una piccola cosa, magari solo un dettaglio di ciò che ha fatto durante il giorno (attenzione: il lavoro deve sempre avere la precedenza, non si deve mai dare la precedenza alla pubblicazione del lavoro).

Bisogna lavorare ogni giorno: poi non tutti sarà condivisibile, ma tutto è utile per il processo.

Si possono condividere, ad esempio, le fonti di ispirazione (libri, film, altri creativi simili): l’importante è creare un legame con chi ha interessi simili.

Insomma, bisogna far quel che piace e poi parlarne, restare un amateur curioso e cercare chi è come te.

Mai lavorare per i soldi: i soldi, se il lavoro è ben fatto e se il processo piace, arriveranno.

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L’opera d’arte non parla da sé

Sabato sera sono andata a mangiare una pizza al Cucumangi di Noventa di Piave (VE). Accanto al nostro tavolo c’era questo quadro:

Sotto al quadro c’è un codice IQR, che, inquadrato, fornisce una presentazione dell’opera con parole comprensibili (Ritratto di passante con sole al tramonto) nonché dell’autore, Pietro Disegna, che ho scoperto essere originario del mio paese, San Stino di Livenza.

(Scusate se poco chiara ma ho fotografato lo schermo del PC perché non riesco a scaricare la foto del quadro)

Non mi intendo molto di arte, ma mi piacciono i colori e mi piace avere la possibilità di capire quello che vedo, e i critici d’arte non aiutano in questo, arroccati come sono nel loro limbo esclusivo.

L’opera d’arte non parla da sé, soprattutto se esposta in una pizzeria, dove si va per mangiare e non per guardare quadri, per questo devo fare i complimenti a Pietro Disegna che ci ha messo la spiegazione a portata di cellulare.

L’opera d’arte deve parlare a chi la guarda, ma per comunicare serve un linguaggio condiviso: per chi, come me, è praticamente analfabeta, serve un aiutino.

Certo, la spiegazione del codice IQR non dice tutto: un quadro, un’immagine può trasmettere messaggi diversi a persone diverse, ma un minimo di story telling è un buon trampolino di lancio.

Se certi critici d’arte fossero più chiari nelle loro esposizioni, i musei sarebbero un po’ più affollati.

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Il mio analfabetismo di ritorno

Dopo le superiori non ho più letto niente di storia rinascimentale. Ogni tanto mi piace leggere un saggio sulla seconda guerra mondiale o sulla diaspora degli ebrei, ma si può dire che dal Seicento in giù io non abbia più letto nulla a partire dai diciotto anni.

Quando si sente nominare il cognome “Borgia”, io rimango ferma agli stereotipi comuni, che mi fanno venire in mente una famiglia malefica, dedita all’incesto e all’avvelenamento degli avversari politici.

Non che questi elementi siano estranei alla storia della famiglia Borgia, ma le persone, anche quelle dei secoli passati, sono molto più di quello che la gente comune ricorda.

Nel libro “LA SAGA DEI BORGIA” di Antonio Spinosa, infatti, la storia inizia dalla fine, con un santo, Francesco Borgia, che è un pronipote di Papa Alessandro VI.

Francesco Borgia era ossessionato dai peccati dei suoi avi: era convinto che ogni disgrazia che gli capitava (ad esempio, la morte della madre e della moglie) fosse una conseguenza del male commesso da papa Borgia e dalla sua progenie.

Da questa ossessione per i peccati degli avi alle autofustigazioni e ai digiuni protratti, il passo è breve. Aggiungiamo poi un allungamento delle sessioni di preghiera, che duravano ore ed ore, molte opere di umiltà e servizio più qualche presunto miracolo, e la candidatura a santo è servita su un piatto d’argento.

Non mi sta antipatico, questo santo Francesco Borgia, anche se – incontrandolo oggi – avrei delle difficoltà a scindere le buone intenzioni dalla sua carica di fanatismo.

E vi dirò, che dopo la lettura del libro di Spinosa, non mi stanno tanto antipatici neanche Papa Alessandro VI e Lucrezia Borgia.

I Borgia avevano radici spagnole: se Alessandro VI ha cercato di attorniarsi di parenti e di lasciare a loro cariche redditizie, lo ha fatto anche per costruire un cuscinetto tra la propria persona e tutti quelli che lo odiavano in quanto straniero.

Savonarola lo considerava un anti-cristo.

Beh… Alessandro VI era praticamente ateo. Ma ha fatto quello che molti al suo posto avrebbero fatto avendone la possibilità: si è impossessato di una carica proficua e l’ha fatta rendere (cosa che fanno ai giorni nostri molti politici). A quel tempo le cariche ecclesiastiche ti davano una possibilità, e lui l’ha presa.

E che dire di Lucrezia?

E’ stata allontanata giovanissima dalla madre, tale Vannozza, locandiera, che per anni fu la preferita di Alessandro VI: e proprio il papa sottrasse la figlia alla madre per darle una educazione che si adattasse all’ambiente che avrebbe dovuto frequentare.

Poi, quando Lucrezia si innamora di un tipo, le impediscono di sposarlo, perché, per ragioni politiche, deve sposare, per forza, uno Sforza.

Voglio dire: ad un certo punto è normale che a una girino pure le palle e che se la prenda col mondo. Non c’è da meravigliarsi che si sia dedicata alla manifattura dei veleni.

Poi anche lei ha fatto quello che avrebbero fatto altre al suo posto: ha approfittato della sua posizione.

Ma alla fine della sua vita, gli ultimi dieci anni, quando è stata signora di Ferrara, è riuscita a viverli da donna costumata, addirittura amata dalla popolazione e dal suo signore.

I giudizi morali, nei secoli, si semplificano, e si perdono le sfumature delle persone, che sono trasformate in personaggi.

Eppure, chissà: forse se papa Borgia, Lucrezia o il duca Valentino potessero vederci, ora, dal luogo in cui si trovano, magari sarebbero contenti di vedere che ci ricordiamo ancora di loro.

Meglio essere ricordati male che non essere ricordati per niente.

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Pianura (Marco Belpoliti)

Avevo sospeso la lettura qualche settimana fa perché non ero entrata in sintonia col libro, ma devo ammette che al secondo tentativo, mi son lasciata prendere per mano dalla scrittura curata e dai personaggi ben delineati.

In realtà, non avevo trovato difficile la scrittura in sé: è colta, ma alzare l’asticella bisogna, ogni tanto. Quello che mi aveva bloccato era la sfilza di nomi di intellettuali che non conoscevo (quanto sono ignorante…).

Luigi Ghirri (esperto di foto dell’opacità e dell’invisibile), John Berger (critico d’arte), Giuliano della Casa (pittore), Yervant (artista polimorfico), Maria Nadotti (traduttrice), Piero Camporesi, Delfini, Garboli, e tanti, tantissimi altri, senza disdegnare cantanti (CCCP), architetti, ecc.

Belpoliti ne parla come di amici, e dà per scontato che il lettore li conosca: spesso ti dice cosa fanno solo di striscio, altre volte ti lascia dedurre il loro mestiere da altre informazioni che hanno poco a che fare con i loro mestieri e più con i paesetti della pianura Padana che attraversa insieme a loro, fisicamente o nella memoria.

Il libro parla di questi amici, e ne parla rivolgendosi ad un amico (di cui io non sono riuscita a capire l’identità), e il racconto viene fatto attraversando borghi e paeselli semisconosciuti della nostra Pianura.

Tocca argomenti di storia, archeologia, geologia, meteorologia, architettura, arte, geografia, cinema, e lo fa con un taglio a volte elitario, che non è per tutti, a causa della profondità delle argomentazioni e delle conoscenze.

Ho esultato quando tra i vari nomi sconosciuti sono finita su Sandro Vesce, di cui ho letto un libro (“Per un cristianesimo non religioso”) che ho letto… Ma per il resto mi ha fatto sentire più ignorante di come mi sentivo prima (e la cosa non è un male, dopo tutto).

Quanto c’è di vero in quello che scrive? E’ un libro autobiografico? E’ davvero amico di questa sfilza interminabile di artisti ed intellettuali? Di sicuro, Belpoliti è una persona curiosa.

Curiosa nel senso che è incuriosito, che vuol conoscere quello che lo circonda, ma anche curiosa nel senso di persona un po’ fuori del comune.

L’ho incontrato un paio di volte. Di recente, al Premio Comisso (che ha vinto): mentre tutti gli correvano dietro e cercavano un po’ della sua attenzione, lui spariva. Non gli piacciono le premiazioni letterarie, il fru-fru della celebrità, le foto ufficiali, e non ha paura di ammetterlo.

Gli piace la fantasia applicata agli oggetti. Gli piacciono le persone che guardano agli oggetti con occhi diversi dagli altri. Gli piace Primo Levi, forse perché così poliedrico da rendere difficile la vita a chi voleva affibbiargli un’etichetta. Gli piacciono le parole cadute in disuso (centuriazione, pispiò…). Gli piacciono le pietre delle costruzioni, e la loro storia. E di tutto ciò che gli piace, lui si interessa.

E’ un interesse fine a se stesso, non ha scopi utilitaristici. E’ un interesse fuori moda, oggi, che perfino se guardi un quadro devi farti un selfi e metterlo sui social per far sapere al mondo che stai guardando un quadro.

La sua scrittura, da questo punto di vista, è quasi memorialistica: ma di una memoria privata, che mi ricorda un po’ Montaigne.

La mia impressione?

Ha scritto questo libro per se stesso: se vi va di leggerlo, leggetelo; se non vi va, sappiate che lui non ne sarà più di tanto intristito. Ha fatto quello che si sentiva di fare.

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Il museo del mondo (Melania Mazzucco)

Sono nel periodo di letture a tema artistico.

Ringraziamo il cielo che ci sono scrittori che scrivono di questo tema in modo comprensibile, come fa la Mazzucco, che ti fa venire la curiosità di entrare nei musei (o almeno di guardare le foto delle opere in internet), e mandiamo a quel paese tutti i critici che sporcano la carta con frasi incomprensibili al preciso scopo di allontanare le masse dall’arte.

In questo libro, la Mazzucco prende in considerazione solo di pittura che lei ha visto dal vivo e per la quale nutre il desiderio di rivederla.

Ecco, quando certe persone mi chiedono perché leggo tanto, non posso certo nominare la bellezza di un libro come questo, perché… beh, perché non ha uno scopo pratico. Non mi serve per applicare quello che imparo nel mio lavoro di tutti i giorni e non guadagnerò nulla dal sapere come si chiama un quadro di Bosch o di Georgia O’Keeffe, eppure, ogni tanto, ho bisogno di dedicarmi a qualcosa che non abbia applicazioni pratiche.

Non per denigrare le liste della spesa, per carità. Le liste della spesa sono utilissime quando devi andare al supermercato, ma nella vita di tutti i giorni, ormai, le conversazioni si riducono a un elenco di informazioni o di commenti che si fermano alla superficie delle cose.

Se passo davanti ad un bar e vedo delle persone sedute all’interno, non mi soffermo a pensarci. Fermarmi a pensare su quelle due persone potrebbe perfino essere controproducente nell’economia delle mie giornate.

Ma se guardo un quadro di Hopper in cui un uomo e una donna sono al bancone e non si parlano, allora mi faccio delle domande. Perché non si parlano? Perché si sono trovati là? Come se ne andranno? Insieme o separati? Siamo sicuri che tutte queste domande, un giorno, non possano tornarmi utili se applicate alla mia vita o a quelli che mi stanno vicini?

L’arte dovrebbe aiutarci a guardare sotto la superficie, e mai come oggi ce n’è bisogno.

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Una vita per l’arte (Peggy Guggenheim)

Quello che mi è rimasto più impresso dalla lettura di questa autobiografia è che Peggy Guggenheim era sì molto ricca ma non ricca da far schifo. Ci sono passaggi in cui racconta della necessità di risparmiare su cibo e vestiti: sì, certo, è perché i suoi zii hanno investito il suo patrimonio in titoli e dunque non è subito liquidabile, ma la cosa mi ha lasciato comunque sorpresa, perché la immaginavo come una donna alla quale uscissero le banconote dalle orecchie.

Suo padre è morto nell’affondamento del Titanic, ma il matrimonio dei genitori della Guggenheim era già in alto mare da un pezzo, perché lui tradiva la moglie a spron battuto: la moglie lo sapeva, ma, per rispettare le convenzioni sociali, non lo aveva lasciato (by the way: lui muore sul Titanic, ma la sua amante si salva).

Peggy nasce e cresce in una famiglia ricca, abituata ai servitori e alle vacanze all’estero, ma non nasce in un ambiente prettamente artistico: l’arte, soprattutto l’arte moderna, per lei sarà una conquista individuale, ottenuta attraverso le letture e le conoscenze personali.

Prima di diventare la mecenate che conosciamo, però, Peggy si è immersa nel mondo bohémienne dei suoi anni, incurante delle critiche che le arrivavano da parenti e amici. Leggendo la sua autobiografia, scritta nel corso di vari anni e rivisitata anche in tarda età, ho avuto l’impressione che si compiacesse di questa vita un po’ alla deriva: feste, uomini, bevute…

Non mi meraviglio che i figli di quest’epoca e di questo ambiente fossero molto criticati anche per la loro mancanza di partecipazione storica: guerre, profughi, malattie… e loro pensano a far festa e ad ubriacarsi.

Ad un certo punto ho perso il conto degli uomini con cui è stata, da sposata, compagna o solo da amante: ma anche questo faceva parte dell’atmosfera bohémienne che le piaceva tanto. D’altronde, solo chi vive fuori delle regole sociali può creare qualcosa di nuovo.

Lei, in realtà, non ha davvero creato qualcosa di nuovo, ma ha dato una mano chi lo stava creando: ha aiutato molti artisti che senza i suoi soldi non avrebbero potuto dedicarsi alla loro arte.

I nomi famosi si sprecano: Kandinskij, Pollock, Beckett, Joyce, Cocteau, Breton, Mondrian, Tanguy, De Chirico, Klee, Max Ernst… Tutte figure affascinanti quando se ne legge sui libri. Ma che oggi, per come sono io, non frequenterei volentieri. Troppi ubriachi, troppe feste, troppa azione frenetica. Tutto questo azionismo era il risultato dell’ambiente e delle personalità vulcaniche ma era spinto spesso all’estremo, perché nascondeva abissi che a volte portavano a suicidi e violenza, anche domestica, quest’ultima neanche stigmatizzata, ma descritta come un avvenimento al pari di altri.

Il guaio è che di questo lato oscuro nell’autobiografia della Guggenheim si intravedono solo tracce.

La Guggenheim non è capace di scrivere: ha lo stile di un’adolescente che riempie il diario.

Nessun approfondimento psicologico, nessuna sfumatura: le persone, in queste pagine, o sono felici o sono tristi, o sono intelligenti o sono stupide, o sono veloci o sono lente. Non è certo un libro scritto da un’artista. E’ un libro scritto da una donna che ha vissuto in mezzo ad artisti ma che non è stata contagiata dalla loro capacità di afferrare e riprodurre le sfumature umane.

Certi passaggi sono davvero più noiosi di una lista della spesa (Canetti, leggendo queste pagine, si rivolterebbe nella tomba).

Ho rivalutato i miei giudizi sulla gente che scrive le proprie memorie ricorrendo a un ghost writer: se la vostra vita merita di essere raccontata ma non ne siete capaci, sì, pagate uno che conosca il mestiere e che racconti per voi.

E’ inutile aver vissuto mille avventure: se non sapete raccontarle, alla fine rimarranno sempre un’esperienza privata.

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