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Attraversare i muri – Marina Abramovic @Artistispresen

Oggi compie 73 anni, nonostante l’apparente assenza di età delle foto in cui compare.

Ammetto che non capisco tutte le sue esibizioni: capisco la sua volontà di far passare un messaggio, ma non capisco perché debba ricorrere all’automutilazione o alla masturbazione in pubblico o all’esibizione di una lepre morta.

Però c’è una cosa che mi piace di lei: non ha paura di portare avanti la sua passione. Non si occupa delle critiche, numerose, che le vengono rivolte, perché lei ha un obiettivo: aumentare la consapevolezza del pubblico e, tramite questo, forse, un giorno, cambiare il mondo (in questo pecca, a mio modo di vedere, di ingenuità, ma non si sa mai che abbia ragione).

D’altronde, se il mondo non lo cambi con l’arte, con cosa lo puoi cambiare?

Sebbene non sia evidente, Marina prepara ogni sua performance con meticolosità e con mesi di anticipo, impegnandosi non solo a livello fisico, ma anche mentale e spirituale. Non è raro che ricorra a digiuni e periodi di silenzio assoluto, spesso in templi indiani o tibetani, e spesso si rivolge a sciamani e guaritori tradizionali di culture lontane.

L’autobiografia ci mostra la giovane marina alle prese con due genitori inadatti al ruolo familiare ma importanti, ingombranti, emotivamente e nazionalmente: entrambi due ex eroi della Jugoslavia della resistenza, si sposano spinti dall’eccezionale momento storico e dalle reciproche bellezze, ma il matrimonio va a rotoli. Troppo diversi.

A farne le spese, è Marina, figlia femmina in un mondo maschilista, retrogrado e nazionalista.

Marina rimane a casa con la madre fino alla soglia dei trent’anni: la madre è ossessionata dalla pulizia e la costringe a rispettare il coprifuoco serale delle dieci.

Quando la figlia inizia le sue prime performance, la madre, Danica, va in paranoia perché la nudità, nel suo mondo pieno di paranoie, è un peccato imperdonabile.

Marina avrà bisogno di anni per liberarsi dalle pesanti presenze dei suoi genitori, ma prima passerà attraverso un paio di relazioni altrettanto pesanti e ingombranti.

La prima e più famosa è quella con Ulay, anche lui performer, compagno di vita e di lavoro. Famoso è il loro incontro sulla Muraglia Cinese, anche se leggendo la biografia mi sono resa conto che la realtà è stata meno poetica delle immagini che sono passate al pubblico.

La Abramovic non ha paura di raccontarci dei suoi momenti di debolezza, e leggere di depressioni e pianti infiniti di questi personaggi mi fa stare bene. Non per invidia, ma perché ti fanno vedere come loro li hanno superati: la notorietà non li ha resi invincibili e per superare le contrarietà devono far ricorso a forze di cui tutti siamo dotati.

Marina, in questo campo, non si è fatta mancare nulla, ma il lavoro che ha fatto su di sé davvero non si percepisce dalle foto più chiacchierate che si vedono in giro.

Quando sta giorni e giorni seduta al MoMa a guardare negli occhi le persone che si siedono davanti a lei, nelle foto non si capisce quanto possa essere dolorosa quella posizione, e anche critici di grido (come può essere un Francesco Bonami) non hanno colto le intenzioni e la fatica che una performance del genere possa smuovere.

Perché “Attraversare i muri”? Era un modo di dire comunista: il cittadino esemplare doveva essere così forte da attraversare i muri. E la Abramovic ha sfruttato la sua arte per scandagliare i propri limiti.

Un paio di critiche.

  1. Come tutte le artiste contemporanee, bisognerebbe spiegare meglio le intenzioni delle proprie performance, se davvero si vuole essere capiti e non derisi.
  2. Gli animali. Con tutto il suo lavoro sulla propria spiritualità, come mai non è ancora giunta a un adeguato livello di sensibilità nei confronti degli animali? (se leggete il libro, capirete)

Un ultimo commento: il suo film preferito è Teorema di Pier Paolo Pasolini.

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L’arte nel cesso – Francesco Bonami

Francesco Bonami è un critico d’arte contemporanea ma dovrebbe fare il comico. Questo breve saggio è una collezione unica di trovate spiritose, simpatiche similitudini e immagini spiazzanti.

Prendendo di volta in volta spunto da una caratteristica diversa, Bonami dice peste e corna di un bel po’ di mostri sacri, sia artisti che critici. Prendete questa:

Nel caso di Ai Weiwei coloro che amano la sua arte – se così dobbiamo chiamarla – individuano in lui uno strumento con il quale possono sia considerarsi appassionati d’arte che politicamente e socialmente responsabili.

Ai Weiwei, a detta di Bonami (ma non solo) sarebbe un venditore di fumo che sfrutta la mediaticità di certe tragedie globali, niente di più e niente di meno di quello che fa Trump.

E l’icona Marina Abramovic? “Sfacciata e pesante”. Dice, Bonami, che nella sua messa in scena “The artist is present“, in cui lei stava seduta sette ore al giorno, immobile, faccia a faccia coi suoi fans, non è passato nessun messaggio, solo una vaga meraviglia per quell’autocontrollo fine a se stesso. Però, si lamenta Bonami, l’Abramovic non si può toccare:

Criticarla è come tirare i pomodori a Bocelli mentre canta alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi.

Le opinioni dell’autore sugli artisti sono divertenti ma opinabili: da un’opera d’arte, per come la vedo io, anche se molti artisti vivono di rendita o approfittano della propria intoccabilità, ognuno ci tira fuori quello che vuole. Ovviamente, però, certi consigli di Bonami andrebbero presi sul serio: non basare tutto il proprio lavoro sulla sola tecnica, non sfruttare problemi globali, non verbalizzare troppo, non approfittarsi della buona fede del pubblico, non dimenticare mai di raccontare una storia (possibilmente, che non si riduca a una serie di foto scattate nel corso di vent’anni e che ritraggono l’artista si taglia le unghie… sì, non sto scherzando, l’hanno fatto), ecc…

Quello su cui non si può discutere, è la critica ai critici.

I critici, soprattutto italiani (per gli anglosassoni è diverso), semplicemente, non si fanno capire. Allontanano l’appassionato (e quello che potrebbe diventare un appassionato di arte contemporanea) utilizzando linguaggi incomprensibili (quando va bene) e pressoché privi di ogni significato (quando va male).

L’arte ha bisogno di storie.

Ma non storie come questa:

L’arte si muove su un ventaglio di linguaggi tutti tesi verso l’affermazione di un progetto dolce capace di costruire la sua misura formale nelle sue diverse apparizioni.

…zzo vuol dire? Uno così deve riempire una colonna e basta, tanto valeva diteggiare sulla tastiera a casaccio!

Tornando a Bonami: secondo lui l’arte contemporanea è giunta alla fine. E’ iniziata con un orinatoio (la Fontana di Duchamp del 1917) ed è finita nel 2017 con un water d’oro, in cui gli utenti potevano davvero fare i propri bisogni. Cosa ci sarà dopo? Non lo sa.

Al bivio troviamo due cartelli, da una parte una freccia verso “emozione”, dall’altra una freccia verso “fede”. Dove andiamo? Forse le due strade si ricongiungeranno, forse no.

Posso lanciare una previsione ottimista? Facciamo che le due strade alla fine diventino una, con la freccia che semplicemente ci dice “umanità“. L’emozione da sola rischia di scivolare nell’animalità, la fede da sola rischia di scivolare nel fanatismo: scegliamo l’umanità, con le sue contraddizioni, le sue forze e le sue debolezze.

Un sincretismo necessario.

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“You can do it with everything” Contemporary art Language – Angela Vettese

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The aim of the author is to show that contemporary art works on a collage base. But the collage can be made with everything: paper, metals, plastic, words, movies, ready-made, other art works, and so on.

The collage has its own meanings: it is often light (compared to heaviness of Sixties’ art) and one of its main feature is the transitoriness. It gives you the idea of a fragmented reality and it often requires interactivity, as if the public is a little piece of the whole collage.

Contemporary art is often a developing process, not an object, and here you see the frequent use of -ing form (happening, dripping…).

I found particularly interesting the part that explains how some artists put their works in very hard-to-reach places (for instance in the desert, far away from autoroutes or airports); with a two-faces purpose: to show a critic to institutional art places and to educate the public, that must be ready to make some efforts to go there to “admire” the art work.
The result? Very little public. Anyway… I appreciate the attempt.

At the end, Angela Vettese try to sum up the direction of contemporary art. It seems that this art doesn’t want to show the author anymore. The point is not the subject anymore, it must be something else; the society, maybe, with its trends and fears. Maybe this is only modesty. Or, more probable, loneliness.

The problem of this essay is that Vettese wants to put too many examples to explain what she is telling. They are so many, that I doubt that the average reader knows all artists and art works that she mentions. And the book cannot show a picture for each art work, otherwise it would have been 20 times longer.
As a result, I think that this book is an essay for contemporary art lovers, not for someone who wants to get an idea of this odd world.

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