Gin Rathbone ci racconta la storia di suo fratello Jack, grande ma sconosciuto pittore, e di sua moglie Vera Savage, artista scombinata, alcolizzata, fedifraga e madre snaturata.
O no?
Ci racconta anche la storia della morte di Peg, la figlia di Jack, e di come la sorella superstite vada alla ricerca della madre, che, ancora una volta, se ne è andata di casa per seguire i suoi amanti e la sua arte disossata.
O no?
In realtà, Gin Rathbone è una di noi: quello che davvero ci racconta è quanto poco si possa conoscere delle persone, soprattutto se sono persone a noi molto care. Ci racconta di quanto mentiamo a noi stessi e di come leggiamo gli indizi in funzione di quello che pensiamo possa essere vero.
Forse, rispetto ad altri libri di McGrath, questo è meno appassionante dal punto di vista commerciale: non ci sono “grandi” misteri da scoprire, solo dei “segreti” familiari, dei non-detti importanti.
Non è un thriller psicologico. E’ un romanzo più psicologico che thriller, ma proprio per questo è più vicino alla vita di ognuno di noi.
Ci lamentiamo che gli altri ci dicano bugie: ma quante ne diciamo, noi, a noi stessi?
E poi mi è piaciuta l’ambientazione nei Caraibi (ancora) poco conosciuti di qualche anno fa, dove a saltare all’occhio erano la miseria e la sporcizia, e non gli alberghi e le spiagge dorate (anche se, devo dire, che il trasferimento di Jack a Port Mungo non è fortemente giustificato, a mio parere).
Punteggio: 3,5 su 5.