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21 Lezioni per il ventunesimo secolo – Yuval Noah Harari

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Ventuno capitoli, ognuno con una tematica con risvolti universali: non saprei da dove cominciare a parlare di questo libro.

Eppure c’è un filo che lega tutti i topics, dalla tecnologia, al lavoro, dal nazionalismo alla religione, dall’immigrazione al terrorismo, dall’ignoranza alla guerra, dalla libertà all’educazione. Questo filo è dato dalle storie.

Noi siamo fatti di storie.

Fin da quando iniziamo a comunicare, quello che ci interessa non sono i fatti, i numeri, i grafici, la realtà, ma la storia che noi creiamo con questi dati. Le storie ci hanno permesso di comunicare tra di noi e ci hanno dato quel di più che ha fatto della razza umana la dominatrice della Terra.

Nel Novecento disponevamo di tre grandi storie che spiegavano il presente di allora: il comunismo, il fascismo, il liberismo. Il liberismo sembrava prevalere, ma nel Duemila anche il Liberismo ha perso la sua attrattiva: siamo rimasti senza storie.

Anche il nostro sé è una storia, siamo noi che ci creiamo un’immagine di noi stessi. E una storia devono inventarla i terroristi, per attirare martiri, e le religioni, per attirare fedeli.

Tutto è storia.

Harari dice una cosa che mi fa pensare: le storie, essendo una manipolazione di fatti e realtà, non sono realistiche. A volte la nostra razionalità litiga con questa mancanza di aderenza ai fatti, perciò, per tenerci legati alle storie (che creano coesione sociale), si inventano rituali e simboli, che ci mettono davanti, giorno dopo giorno, la storia per rendercela quotidiana, nostra.

Uno degli strumenti più efficaci nel convincerci ad accettare le storie, sono i sacrifici. Quando uno si immola per una causa, di qualunque tipo, religiosa, nazionalista, culturale, poi è più difficile per lui ammettere che la storia è falsa.

Richiede molto coraggio ammettere di aver ucciso o sacrificato persone, animali, desideri per una cosa che non esiste. Un’ammissione del genere intacca direttamente la nostra identità.

Un altro punto su cui Harari insiste molto è la discontinuità tecnologica.

Gli algoritmi, dice, possono conoscerci meglio di noi stessi, soprattutto se la tecnologia si estenderà a monitorare anche le nostre reazioni fisico-chimiche (cosa che non è ormai più fantascienza).

Un computer, analizzando le nostre reazioni, potrebbe sapere meglio di noi cosa ci fa bene, sia che si tratti di scegliere la facoltà universitaria che il partner o da che parte voltare il volante per evitare un incidente.

Qualcuno potrebbe obiettare che il computer non ha basi etiche.

In realtà, noi Sapiens, che ci vantiamo di aver inventato l’etica, quando si tratta di decidere se pagare le tasse o se fare l’elemosina o se tradire il compagno, lo facciamo sulla base delle sensazioni del momento: non ci mettiamo a ragionare sul Bene e sul Male.

Da questo punto di vista un algoritmo potrebbe rispettare l’etica meglio di noi (a patto che ci sia un qualche tipo di controllo sui principi etici che vengono processati alla base).

Sto banalizzando 321 pagine illuminanti… Ma questo è un libro che non può essere riassunto: se salti un passaggio, perdi la connessione logica, perché ogni capitolo è collegato al successivo in un unico grande discorso.

Io l’ho adorato.


 

PS: per chi si chiedesse perché l’ho letto in inglese…. l’ho comprato usato e mi è costato la metà.

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La conoscenza e i suoi nemici – Tom Nichols

IMG_20200209_112118[1]L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia

Tom Nichols è professore allo U.S. Naval War college e alla Harvard Extension School e ha spesso ricoperto ruoli di consigliere presso personaggi politici statunitensi.

In questo libro se la prende con i cittadini statunitensi (ma ricordatevi che noi italiani prendiamo gli stessi vizi degli americani, solo con qualche anno di ritardo): Perché? Perché sono ignoranti.

Non è una novità, direte.

Beh, una novità c’è, e consiste nel fatto che si beano della loro ignoranza più che in passato, disprezzano gli esperti come non mai e sono sempre più aggressivi nell’esprimere le loro opinioni, considerate alla stregua di verità assolute.

Questa situazione è una deriva dell’errato concetto di uguaglianza: se siamo tutti uguali, dicono, allora la mia opinione vale quanto quella di un esperto, no?

In realtà, l’uguaglianza andrebbe legata al valore del voto: il mio voto vale quanto quello di un esperto. Ma quando si parla di competenza, le cose stanno molto diversamente.

La proliferazione di teorie del complotto, di stereotipi e di bias da conferma è legata a molti fattori.

Tra questi, il crollo qualitativo dell’istruzione americana: tutti vogliono andare al college. E tutti i college, vogliono attirare il più gran numero possibile di studenti, perché ogni studente paga fior fiore di soldi per frequentare. Ne deriva che gli studenti si trasformano in clienti.

E cosa fa un cliente? Ha sempre ragione. Bisogna accontentarlo: dargli ciò che vuole, non ciò di cui ha bisogno. Ecco, allora, college e istituti universitari che diversificano l’offerta di attività extra-curriculari e spendono milioni di dollari nell’arredamento (di design!) dei dormitori: tutti aspetti esteriori che fungono da allettanti specchietti delle allodole, peccato che poi l’offerta contenutistica vera e propria venga messa in un angolino.

Ed ecco, ancora, sistemi pubblici di valutazione degli insegnanti: gli insegnati ricevono commenti e votazioni da parte dei ragazzi. E’ esattamente il contrario di quello che si faceva qualche anno fa, quando erano i professori a valutare gli studenti… Ma i prof devono adeguarsi, perché se, ad esempio, assegnano troppi libri da leggere, allora la loro valutazione scende, l’appetibilità del loro corso cade in picchiata, diminuisce il numero dei frequentanti e il prof rischia il posto.

L’incompetenza e l’aggressività contro gli esperti è fomentata anche dalla rete (che per altri versi avrebbe anche i suoi vantaggi).

Uno dei rischi di internet è che rischia di renderci più rigidi nelle nostre opinioni, nonostante la maggior possibilità di informazione.

Un esempio?

Chi seguiamo se siamo di destra (o sinistra)?

Un giornale di destra, un comico/cantante/attore di destra, tanti amici di destra (o sinistra)… appena ci accorgiamo che qualcuno esprime un’opinione diversa dalla nostra, lo blocchiamo (magari, dopo averci litigato un po’ online). Di sicuro non continuiamo a seguirlo.

In generale, online la nostra tolleranza ad ascoltare opinioni diverse dalla nostra è quasi inesistente.

Ne consegue che la nostra dieta informativa è totalmente squilibrata.

Mi direte: anche gli esperti a volte sbagliano. Certo. Ed è un bene che lo si scopra. Ma il fatto che lo si scopra è già una prova che il sistema scientifico funziona ancora.

Bisogna dire inoltre che, nella stragrande maggioranza dei casi, gli esperti ci azzeccano. Eppure questo fa molto, ma molto meno notizia di un esperto che sbaglia. Fatalità, oggi, se sbaglia un esperto, la tendenza è di credere che tutti gli esperti sbaglino. Tutti. Questa sfiducia di base verso la competenza può essere pericolosa.

Nichols analizza l’ascesa al potere di Trump come il risultato di una generica ignoranza collettiva, ma questo è solo uno dei tantissimi esempi in cui la diffidenza verso la competenza è pericolosa.

La soluzione?

Sviluppare il pensiero critico.

Ma qui, ci vorrebbero altri libri sul… come!

 

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Cleopatra – Joachim Brambach

Sapete perché ogni tanto leggo libri storici? Per ricordarmi che gli esseri umani sono sempre gli stessi, e dunque è inutile arrabbiarsi quando qualcuno cerca di passarti sopra come un TIR.

Sapete perché non leggo libro storici troppo spesso? Perché mi ci arrabbio lo stesso…

Guardiamo i giorni nostri: se i parenti non si avvelenano e strozzano e pugnalano fra loro come facevano i Tolomei, è solo perché non sono Tolomei, e non godono di alte probabilità di farla franca. Molti assassinii non vengono perpetrati solo per paura della punizione, non per remore morali. Per noi è più facile togliere la parola a uno zio per via di un’eredità o rovinare la reputazione di un amico parlandone male alle spalle.

Gli ammazzamenti di figli, genitori, fratelli non sono prerogative dei monarchi orientali: anche noi abbiamo avuto i nostri. E’ stato Ottaviano a uccidere Cesarione, il figlio di Cesare e Cleopatra, e Ottaviano (l’Augusto) era romano. Non parliamo poi dei Borgia…

Cos’altro ci insegna la storia? Che la religione viene sempre sfruttata a fini di potere: Cleopatra e, prima di lei, Alessandro Magno lo avevano capito benissimo: siamo noi, nel 2019, che siamo ancora convinti che la Religione sia Buona e l’ateismo cattivo.

Un’altra lezione dalla storia? Certo: è che non sappiamo quasi niente. Pensate alla relazione tra Cleopatra ed Antonio. Cosa vi viene in mente? Liz Taylor e Richard Burton, immagino. Amore romantico, drammatico, tragico… Bè, dimenticate tutto.

Se c’è uno che ha rischiato di più nel suo rapporto con Cleopatra, è stato Cesare, che ha compiuto alcuni atti sconsiderati durante la relazione. Antonio, invece, era molto meno succube della regina egiziana, sebbene ne fosse affascinato.

Di lei, poi, quando la sua faccia non si sovrappone a quella della Taylor, abbiamo un’immagine da sovrana orientale onnipotente, capricciosa e sanguinaria.

Tutto vero?

Non proprio: la storia la raccontano i vincitori. Gli storici antichi dovevano far passare un’idea del genere, perché Ottaviano l’aveva sfruttata per attaccare Antonio, suo rivale nell’ascesa all’Impero. Antonio era ancora molto amato dal popolo e Ottaviano avrebbe perso in popolarità se lo avesse affrontato di petto: meglio farlo passare come la vittima succube della perfida regina orientale.

Ah: come è morta Cleopatra?

Suicidio con il serpente velenoso, vero?

No, falso.

In realtà, non si sa.

Sì, lo so che l’immagine della donna disperata per l’amante morto fa audience, ma non ci sono prove che lei si sia suicidata con l’aspide.

Dopo la morte di Antonio, lei rimane tredici giorni prigioniera di Ottaviano. Si sapeva che aveva tendenze suicide: una regina di quel calibro non avrebbe accettato di sfilare sulle strade romane in veste di bottino di guerra di Ottaviano. Tuttavia, neanche l’Augusto ci avrebbe guadagnato molto a far sfilare una donna (si dice) annienta e disfatta dal dolore: il popolo ne avrebbe provato pietà, e tutta la pubblicità negativa di Ottaviano sarebbe scoppiata come una bolla di sapone.

Diciamo che Ottaviano Augusto non ha fatto poi molto per evitarne il suicidio (se suicidio c’è stato). Sarebbe bastato metterle qualcuno alle costole a tenerla d’occhio…

Machiavelli non ha inventato niente.

E neanche Berlusconi.

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La porta proibita, Tiziano Terzani @illibraio

Nel 1984 Tiziano Terzani, che viveva in Cina con la famiglia già da quattro anni, è stato arrestato, interrogato, costretto a fare autocritica e infine espulso dal paese, con l’accusa di offesa al presidente Mao e di contrabbando di tesori nazionali.

Questo succede quando si dà fastidio a certi poteri, dicendo come stanno le cose: inventare accuse non è mai stato difficile, per certi poteri.

Leggendo il libro, mi sarei meravigliata se un governo autoritario non lo avesse espulso!

Il leit motiv di Terzani è che il comunismo, nella sua ansia di rinnovare l’uomo, ha distrutto il patrimonio culturale della Cina. Templi di immenso valore e bellezza, statue, lingue, minoranze…

Negli ultimi anni in cui il giornalista si trovava nel paese, sotto la direzione di Deng Xiaoping, il vento stava cambiando: ex guardie rosse che si accorgevano dello scempio si dichiaravano pentite, e si ricominciavano a ricostruire templi e palazzi in foggia antica; ma ormai mancavano sia i materiali originali (utilizzati per costruire palazzoni per gli operai) sia le abilità manuali.

Neanche il tempio Shaolin, culla delle arti marziali, era stato risparmiato ai tempi della rivoluzione culturale, e i monaci combattenti, di cui si tramandavano leggende e bravura, si erano lasciati disperdere dalle guardie rosse ed erano finiti a lavorare in qualche fabbrica di Pechino o Shanghai.

La successiva svolta di Xiaoping mirava a salvare la faccia e a far assomigliare la Cina a un paese che tiene alle proprie minoranze e… al turismo!

Questo libro dovrebbe diventare un testo scolastico sulla storia della Cina (anche perché tutti i testi scolastici sulla storia cinese sono stati distrutti…) ma è una lettura piacevolissima, anche se spesso ci fa indignare.

Leggendolo, ho scoperto che l’acqua a Lhasa, in Tibet, bolle a 86 gradi, con la conseguenza che non distrugge i batteri. Gli indigeni, i tibetani, ci sono abituati, ma non lo sono i cinesi (gli Han) che vengono inviati in loco per governare il paese. Se alle malattie intestinali aggiungiamo le difficoltà respiratorie (nonostante gli han abbiano piantato migliaia di alberi per rendere più respirabile l’aria a 4000 metri di altezza), si capisce perché Pechino debba pagare i suoi funzionari il 30% in più per convincerli a rimanere da quelle parti!

Ma il libro è pieno di informazioni a carattere storico e personale (non manca un capitolo scritto dai figli di Terzani sulla scuola cinese).

Leggerlo ti fa capire come una popolazione di un miliardo di esseri umani possa lasciarsi portar via la propria storia (anzi, spesso partecipando alla distruzione).

E mi convince ancora di più dell’importanza dello studio del passato: e se la scuola ce lo rende noioso, bisogna arrangiarsi.

Così come una persona che perdesse completamente la propria memoria perderebbe la propria identità, così succede ai popoli.

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Una biografia di Thomas Mann (Ronald Hayman)

Uno scrittore scrive.

Ohhh! Che affermazione incredibile!

Certo, lo sanno tutti… Eppure, ho la straordinaria capacità di meravigliarmi quando leggo una biografia di 600 pagine e mi accorgo di essermi annoiata. Soprattutto quando la biografia è così dettagliata, a volte spiegando giorno per giorno cosa fa Mann con la sua famiglia.

Thomas Mann aveva una routine strettissima, nel suo lavoro: scriveva prevalentemente al mattino, mai più di una, due pagine al giorno. Siccome la scrittura è un gesto monotono, non potendo Hayman dilungarsi su cosa facesse Mann alla scrivania, ha dedicato pagine e pagine a riportare brani di opere e di commenti alle stesse, aggiungendo pagine e pagine sui viaggi dello scrittore.

La parte secondo me più interessante è quella che riguarda il periodo della seconda guerra mondiale, quando Mann è indeciso se intervenire o meno nel dibattito politico: lui si trovava in Svizzera quando è scoppiato il conflitto, e poi si trasferisce negli Stati Uniti.

Come molti altri intellettuali, non aveva compreso fino in fondo la pericolosità di Hitler; inoltre, essendo fuori del proprio paese, si tratteneva dal commentare in modo troppo negativo i fatti tedeschi, essenzialmente per due motivi: innanzitutto, i suoi libri venivano ancora venduti in Germania, e, in secondo luogo, aveva ancora molti possedimenti e molti parenti nella madre patria.

Questa parte della biografia mi è piaciuta perché ci mostra un Thomas Mann combattuto, umano che, alla fine, dopo molti tentennamenti, prende posizione.

Anche dal punto di vista sessuale, Thomas Mann ha preso posizione: ha una predilezione per i giovani ragazzi, ma tiene molto di più alla propria immagine, al suo ruolo di Pater Familiae, e non scende mai a compromessi con questo suo ideale, anche se questo significa rinunciare a rapporti più rispondenti alle sue tendenze.

Interessante che almeno due o tre dei suoi figli avessero tendenze sessuali altrettanto anticonformiste, e impressionante il numero di morti suicidi che ci sono in questa famiglia.

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Il senso di una fine, Julian Barnes @CasaLettori

Perché nessuno mi ha mai parlato di Julian Barnes?

Questo scrittore è bravissimo!

“Il senso di una fine” unisce il racconto di una bella storia a tutta una serie di piccole e grandi riflessioni su una marea di argomenti: il rapporto tra gioventù e vecchiaia, la memoria, la storia singolare e la Grande Storia, il tempo che può tornare indietro quando si aggancia ai ricordi, l’inconoscibilità del passato e delle persone…

La prima parte del libro racconta la gioventù di Tony Webster e della sua amicizia con Adrian, ragazzo intelligentissimo e, sotto certi aspetti, misterioso, con un senso della vita tutto suo, improntato alla filosofia e alla storia.

Eppure… eppure Adrian, che nel frattempo si era fidanzato insieme a Veronica, l’ex fidanzata di Tony, si suicida.

Fioccano le teorie sulle ragioni del gesto. Secondo alcuni, era troppo intelligente per vivere; secondo altri, ha portato all’estremo limite la sua teoria filosofica sulla vita.

La seconda parte del libro inizia con una lettera che comunica a Tony di esser stato nominato erede di 500 Sterline e di un documento. E da chi arriva questa eredità?

Il finale è spiazzante (anche se devo dire che qualche sospetto sulla madre di Veronica mi era venuto).

Al di là dell’antipatia che mi ha ispirato Veronica, la giovane fidanzata del protagonista (va bene fare la misteriosa, ma ad un certo punto bisogna anche spiegarsi!), i personaggi sono intriganti e hanno così tante sfaccettature che non puoi non immedesimarsi in una di queste.

E ora… alla ricerca di altri libri di Julian Barnes!

Più impari, meno temi. “Imparare” non in termini di studio accademico, ma di comprensione effettiva della vita.

Dobbiamo conoscere la storia di chi scrive la storia, se vogliamo comprendere la versione degli eventi che ci viene proposta.

 

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Italia, oggi e duemila anni fa

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Cicerone, voce di Roma – Taylor Caldwell

Ma da quante migliaia di anni noi italiani ci lamentiamo dei nostri governanti?

Cicerone, una sessantina d’anni prima della nascita di Cristo, era uno di quelli che deplorava la situazione in cui era caduta Roma e che nominava di continuo gli antichi romani, i rappresentanti della Legge, uomini valorosi e saggi. E ce l’aveva sia con i politici, che al suo tempo badavano solo ai privilegi e agli agi, che con il popolino, che si accontentava di mangiare e divertirsi a spese dello stato, limitandosi ad acclamare ogni tanto il potente di turno.

Ma la parte del libro che si potrebbe pari pari riportare in un articolo di giornale ai giorni nostri, magari cambiando solo i nomi delle classi sociali, è quella in cui Silla, il militare dittatore, ricorda a Cicerone che è inutile declamare le glorie passate, perché ormai Roma è caduta, è morta.

Cicerone, avvocato, è stato invitato a cena da Silla, che vuole convincerlo ad abbandonare la difesa di Catone Servio, un ex centurione che ha scritto un libro che attacca la corruzione di Roma. E Cicerone ricomincia la sua tiritera sull’antica Roma e sugli antichi romani, bla bla bla.

E allora Silla gli fa un discorso: considera i senatori, i Censori, i tribuni del popolo, la classe media, gli avocati, i medici, i banchieri, i mercanti, gli investitori, gli avvocati… considerali tutti, uno per uno. Ce n’è uno, uno solo che si alzerebbe davanti a Silla per fermarlo o che rinuncerebbe a uno dei suoi privilegi per aiutare Roma a riacquistare gli antichi splendori??

Il discorso occupa quattro pagine, ho riassunto all’osso, ma il senso è questo. Perché ricordiamoci quello che Silla dice alla fine:

Tu mi hai giudicato malvagio, l’immagine della dittatura. Ma io sono quello che il popolo merita. Domani morirò come tutti muoiono. Ma ti dico che dopo verranno uomini peggiori di me! C’è una legge più inesorabile di ogni legge creata dall’uomo ed è la legge della morte per le nazioni corrotte, e i beniamini di questa legge già si agitano nel grembo della storia. Ce ne sono molti che sono vivi oggi, giovani e viziosi e senza fede. Essi riusciranno. Così passa Roma.

Così passerà l’Italia.

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Un cappello pieno di ciliegie – Oriana Fallaci

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Se invece di un maschio mi fosse nata una femmina, l’avrei chiamata Oriana. Questo proposito si era affievolito un po’ dopo aver letto la serie di libri contro l’Islam (posizione troppo estremista, secondo me), ma ora che mi sono bevuta questa saga, il proposito potrebbe rinnovarsi (potrebbe: ma non se ne parla di ricominciare con pannolini e pappette).

Il progetto del libro ha tenuto impegnata la Fallaci per anni: non mi meraviglio, viste le ricerche che sono state necessarie per raccogliere dati sui suoi antenati. I dati che non è riuscita a trovare, li ha integrati con la fantasia, e glielo perdoniamo, visto che uno dei suoi comandamenti era Mai Annoiare Il Lettore.

Ho trovato molto dolce la tecnica del fingere i ricordi in prima persona: la Fallaci spesso scrive infatti che si ricorda quando era questo o quell’avo e che ricorda come erano le strade e gli ambienti di quando viveva quella vita, quasi si trattasse di vari passaggi di reincarnazione, anche qua la religione non c’entra nulla. Parla di geni e cromosomi che si tramandano di generazione in generazione, di aspetti del carattere che ora lei ritrova in se stessa, dello stesso male che metterà fine alla sua esistenza.

Nel suo passato ci sono avi combattivi e remissivi, ma lei riesce a farceli sembrare tutti degni di nota, tutti interessanti, tutti con qualcosa da raccontare al mondo. E questo lo trovo consolante: anche la vita più insipida può diventare importante se vista con la lente della prospettiva, se considerata come l’anello di una catena che non sappiamo mai dove arriverà.

Ovvio che un po’ di curiosità nasca quando si legge dell’avo famoso, ricco, ma tanto famoso e tanto ricco, la cui identità lei non può rivelare perché l’ha promesso a sua nonna sul letto di morte. Non può essere Cavour perché era già morto quando sua nonna è stata generata; non può essere neanche il re, perché in un passaggio la Fallaci spiega che muore e nello stesso periodo muore anche il suo bisnonno (dunque sono due persone distinte, se non ha voluto farci uno scherzetto per sviare i sospetti). E’ qualcun altro. Ma non importa chi fosse, importa solo che non ha dato il nome e la famiglia alla nonna di Oriana, e che bisnonna, Anastasia, sia scappata nel Far West a fare quello che ha fatto.

Questo romanzo è incompiuto, non è riuscita ad andare al di là della morte di Anastasia ed è stato pubblicato solo perché l’autrice ha consegnato tutti i dattiloscritti (con tanto di note e post-it) al nipote che se ne è preso cura.

Non è un libro per tutti, so di gente che lo ha abbandonato perché ci sono molte parti dedicate alla storia, ma chi arriva alla fine ne esce arricchito. Non di  date e nozioni: bensì di un generale senso di calore, quel calore che la Fallaci ha regalato a tutti i suoi bisavoli e trisavoli salvandoli dall’oblio.

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Cavalieri serventi nella Venezia del Settecento

Il tricorno e il ventaglio, Mila Manzatto


Adoro le presentazioni di libri con l’autore! Di questa, poi, che si è tenuta stasera nella sala consiliare di S. Stino di Livenza, ero molto curiosa perché la prof.ssa Flavia Furlanetto mi nominava spesso l’autrice, Mila Manzato, sua amica, e le aveva anche fatto scrivere un paio di poemetti che ci aveva poi letto alle feste di compleanno di due zii.
Ed è proprio Flavia Furlanetto che l’autrice ha ringraziato dedicandole qualche parola in più. Flavia, l’ultima volta che ha letto il libro, aveva detto che avrebbe avuto… successo. Parola di moda, oggi, ma nella cerchia di Flavia e dell’autrice l’occasione è molto poco mediatica: intendeva successo nel senso di riscontro culturale, curiosità.
Adoro le presentazioni di libri anche perché si trova gente con la Passione. Non potrebbe essere altrimenti, perché ci vuole passione per ricordarsi con facilità tanti nomi, date, episodi; e penso in particolare alla foga del dottor Marini, che ha curato l’introduzione storica, e che potrebbe essere un “concorrente” dell’Alvise Zorzi in materia veneziana.
Mila Manzato ha raccontato che i primi semi di questo libro sono stati gettati venti anni fa, mentre leggeva n articolo sul Gazzettino del professor Claudio Povolo. Lo studioso aveva scoperto che gli atti diun processo del seicento riportavano la storia e i personaggi dei Promessi Sposi (genesi che ora è riconosciuta anche da molti italianisti). E la Manzatto si è detta: devo seguire questo studioso.
Da lì è nato l’interesse per il contetto di ONORE (il Povolo ci ha anche scritto un saggio, “L’intrigo dell’onore”), che è il perno attorno cui ruota “Il tricorno e il ventaglio”.
Perché il concetto di onore nella nobiltà veneziana del Settecento sconcertavam molti viaggiatori di passaggio. Come è nata la figura del cavalier servente (o, quasi volgarmente detto, cicisbeo)?
E’ tutta una questione di soldi. Ne accenno soltanto, peché il libro l’ho comprato oggi e non l’ho ancora letto. La Venezia del Settecento era molto conservatrice, preoccupatissima che il potere restasse nelle mani dei nobili. Dunque, i matrimoni combinati erano la regola.
Ne conseguiva che le donne, che restavano in convento dai sei anni di età fino al matrimonio, erano spesso le prime a chiedere la separazione per vizio (cioé per volontà mancante). Peccato che se il matrimonio si scioglieva, le doti, spesso ingenti, dovevano essere restituite alla famiglia della moglie (sappiate che quasi la metà dei nobili erano… poveri, in sé).
Molto meglio lasciare alla consorte la libertà che la facesse restare zitta e buona!
I cavalieri serventi erano una di queste libertà.
Nobili e celibi, spiantati perché non potevano lavorare e perché le ricchezze paterne erano destinate ad un altro fratello (solo uno, per non spezzettare i patrimoni), si ingegnavano accompagnando le intelligenti dame, al gioco, nei salotti, alla caccia… In cambio ne ricevevano a volte denaro, a volte vitto, a volte alloggio, o abbigliamento…
No, non ricevevano in cambio quello che pensate (Casanova era un libertino, non un cicisbeo). O almeno non sempre.

Conclusione un poco comunista e un poco femminista: la sovrastruttura economica detta legge, ma, nella Venezia di allora come nel mondo di oggi, una donna trova sempre le sue scappatoie…

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Churchill, il nemico degli italiani – Antonio Spinosa

Ogni tanto un libro di storia ci rinfresca le memorie scolastiche… riporto solo un episodio che mi ha fatto ridere. all’inizio della sua esperienza politica, Churchill era contrario al voto alle donne. Si ritrovò a scontrarsi con una suffragetta senza peli sulla lingua che gli disse: “Se io fossi vostra moglie, vi metterei il veleno nel caffé!” e lui le rispose: “E se io fossi vostro marito, lo berrei più che volentieri!”

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