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Figli della furia (Chris Kraus)

1973. In ospedale, l’ex agente segreto Koja racconta la sua vita a un giovane idealista con dei bulloni di titanio che gli tengono chiuso il cranio.

La storia inizia nella prima metà del Novecento a Riga, dove Koja e il fratello maggiore Hub vivevano col padre ritrattista e la madre baronessa russa. Adottano, per intercessione di una domestica, la piccola Ev di oscure origini.

Ev sposa Erhard, che inizia i fratelli al nazismo, che sembra essere l’unico sbocco per entrambi, quasi un’ancora di salvezza, soprattutto per Koja, che, diventato architetto, non riesce a mantenersi col suo lavoro. La passione di Hub per la causa, però, si scontra con la tiepida adesione del fratello e di Ev, che divorzia dal marito.

Ev sposa Hub, ma Koja scopre che lei è ebrea. Non glielo dice subito, aspetterà anni prima di farlo: e nel frattempo, di nascosto dal fratello, genererà con lei una figlia, Anna, fingendo che sia sua nipote.

Finita la guerra, Koja diventa una spia russa: lo fa per salvare Maja, una sua ex amante che lui aveva addestrato per uccidere Stalin e che è stata catturata dai rossi.

Quando Ev scopre di essere ebrea (nel frattempo la figlia è morta, non-vi-dico-come), vuole assolutamente trasferirsi in Israele e Koja la segue di malavoglia sotto falso nome. Ev incomincia a raccogliere materiale per incriminare nazisti (suo marito è uno di questi), senza preoccuparsi troppo che queste ricerche potrebbero portare alla morte anche Koja, che nel frattempo vive con lei come un marito vero e proprio.

Insomma…

E’ un libro pieno di avventura, di avvenimenti, doppi e tripli tradimenti, viaggi, omicidi, avvelenamenti, bugie, suicidi, braccia che saltano, pallottole incastrate nei cervelli…

Fin troppo.

Chris Kraus è famoso in Germania come regista e questo libro gli è costato dieci anni di vita. Tutto è iniziato quando ha scoperto che il nonno, a cui era molto legato, era stato un criminale di guerra: uno di quelli brutti, colpevole di migliaia di uccisioni. Ma in famiglia non se ne parlava, era un segreto ben custodito.

La necessità di far coincidere questa brutale immagine con il ricordo che il bambino viziato aveva del nonno, lo ha portato a scrivere questa storia, che si basa su fatti realmente avvenuti e che cita anche molti personaggi realmente esistiti.

E’ un libro che va al di là del significato personale e che in Germania ha suscitato scalpore, perché è andato a toccare argomenti sensibili, come la partecipazione di tanti, tantissimi ex nazisti al processo di ricostruzione postbellico.

E’ un romanzo da leggere sotto l’ombrellone se siete amanti del genere.

Ma che genere, poi?

Spionistico di sicuro, ma anche drammatico e storico.

Io ho qualche difficoltà con gli agenti segreti, non mi piace neanche 007. Non mi piacciono le mezze verità, le mezze frasi, i non detti, la gente che passa da una parte all’altra giustificandosi in tutti i modi possibili. Ma è un gusto personale.

Mi è piaciuta molto la parte in cui i due fratelli aderiscono al nazismo: è credibile.

Non mi è piaciuta Ev: è un personaggio che sembra volersi rendere troppo interessante, passa da un marito a un fratello all’altro fratello a uno psichiatra, senza farsi problemi, con una falsa ingenuità che dopo un po’ perde di verosimiglianza.

E’ un medico che lavora nei campi di concentramento ma non si parla di quello che ha visto là dentro, né si dice se ha fatto qualcosa di concreto là dentro, né si approfondisce cosa ha provato, là dentro. Quel periodo lo veniamo a conoscere solo per sentito dire, e invece sarebbe stato interessante, anche se, leggendo tutto attraverso gli occhi di Koja, è giusto che la nostra conoscenza resti parziale.

Uscito nel 2017 in Germania e nel 2021 in Italia (Sem).

Da leggere.

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In quelle tenebre (Gitta Sereny)

Franz Stangl è stato il comandante di Treblinka, uno dei quattro campi di sterminio polacchi.

Leggendo questo libro ho scoperto un fatto che non mi era molto chiaro: i campi di sterminio nazisti, in cui si andava esclusivamente a morire, erano solo quattro. Gli altri erano campi di concentramento: anche in questi era molto facile morire, ma era solo un evento, per quando orripilante, accessorio al lavoro e alle condizioni in cui gli internati vivevano.

Da un campo di concentramento c’era qualche possibilità di uscire vivi; dal campo di sterminio, no. Gli unici sopravvissuti (parliamo di poche decine di persone) sono stati alcuni lavoratori addetti all’uccisione e al mantenimento del campo.

Gitta Sereny ha intervistato Stangl e molte altre persone che lo hanno conosciuto in vita, ed è un’esperienza molto istruttiva vedere come quest’uomo abbia reagito alle domande che la giornalista gli poneva.

E’ stato uno dei rari nazisti che ha svolto un ruolo attivo nello sterminio e che non ha mostrato solo superba insofferenza. A differenza di altri che hanno sempre rifiutato ogni tipo di colpa, lui ha mostrato in più di un’occasione che le migliaia di morti che ha causato non gli erano… indifferenti.

Questo non vuol dire che si sia dimostrato apertamente dispiaciuto, ma almeno non ha giustificato lo sterminio di donne e bambini come altri gerarchi nazisti hanno continuato a fare anche una volta messi davanti al fatto.

Stangl era un poliziotto austriaco, che, prima dell’Anschluss del 1938, era pure antinazista (a suo dire); appena dopo l’Anschluss, è stato addetto al progetto Eutanasia: dirigeva un programma di eutanasia di malati fisici e psichici. Lui autorizzava l’uccisione in base ai referti dei medici, e qui si è sempre difeso adducendo come scusa, da un lato, la gravità delle malattie e, dall’altro, una sorta di clemenza.

Questa esperienza è stata probabilmente decisiva per adibirlo al comando dei campi di sterminio (prima Sobibor e poi Treblinka).

Durante l’intervista, che è durata molti mesi, la sua versione ufficiale è stata che, una volta capito cosa stava davvero succedendo, non poteva più tirarsi indietro se non a rischio della vita, sua e della sua famiglia.

Alla moglie non ha mai detto cosa succedeva in quel campo e quando lei ha sentito delle chiacchiere in giro, lui ha sempre negato. Bisogna anche dire che Stangl, che di solito a casa era morigerato, ogni sera al campo annegava i pensieri nell’alcool. Ciò non toglie che il suo lavoro è sempre stato impeccabile, preciso, non ha mai ritardato o saltato il programma dei gasaggi. Ogni mattina, nel periodo di maggior affluenza, arrivavano da uno a cinque treni: migliaia di persone che alla sera non esistevano più.

E’ un libro di quasi 500 pagine, ho riportate qui solo alcune delle tante impressioni che ha suscitato.

Se resta un mistero come abbia potuto succedere una tragedia del genere, è perché gli uomini stessi che l’hanno compiuta sono rimasti un mistero, nonostante tutti gli studi e le inchieste e i processi che li hanno presi in esame.

Erano persone come noi, cerchiamo di non dimenticarcelo.

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Il grande bugiardo (Günter Wallraff)

“Due bambini si sono sparati con un fucile di piccolo calibro.”

“Fantastico, eccezionale. Morti?

“No, solo feriti gravemente.”

Ecco il livello dei discorsi che Gunter Wallraff, giornalista infiltrato nella Bild Zeitung di Hannover, sente quotidianamente. E’ stato assunto promettendo al caporedattore che sa manipolare la verità e creare le notizie attirando l’attenzione come si fa in pubblicità.

La Bild Zeitung è proprietà dell’editore Springer, che negli anni Settanta ha quasi il monopolio della stampa nella repubblica Federale Tedesca, monopolio creato facendo leva sugli istinti più bassi dei lettori, ma anche inventando notizie e controllando economicamente le tipografie.

Il nome Bild apre porte che non si aprono per altri giornalisti, anche le zone militari. Il giornale si propone come “il giornale dei lettori”, che aiuta chi non è aiutato, basta scrivere alla Bild e si trova la soluzione. Se poi si crea un caso, la vittima si vede sbattuta sul giornale con frasi non sue, e le vendite salgono ancora meglio.

Non si disdegnano le bustarelle alla polizia per avere le informazioni più succose sugli omicidi, e neanche le finte telefonate dei lettori, inscenate da redattori rifugiati nell’altra stanza.

Un esempio di notizia inventata: a Majorca c’è un’ondata eccezionale di freddo. Non importa che Wallraff, all’aeroporto, incontri solo gente abbronzata che dice di aver sopportato a fatica il calore: se la Bild decide che sull’isola c’è il freddo polare, così deve essere.

Un altra notizia inventata riguarda una vigilessa così dedita al lavoro che mette la multa al proprio marito. Non è vero, questa vigilessa non esiste. Eppure basta il nome Bild, e il comando dei vigili la trova…

Si riattualizzano notizie di anni prima, o si fa, di un operaio sottopagato, un barbone felice che vive nei sotterranei della città. Le notizie, insomma, si creano da zero se non ci sono, e si esagerano i fatti se la realtà non è abbastanza sanguinosa o commovente o sentimentale.

E’ esemplare il caso della morte di un bambino per un fulmine: un giornalista è stato spedito a casa dei genitori in lutto per recuperare la fotografia. Al rifiuto opposto da padre e madre, il giornalista minaccia di pubblicare una foto scattata all’obitorio.

Insomma, il più bieco giornalismo.

Tutto ruota attorno ai sentimenti estremi, spadellati con una prova priva di frasi secondarie e conditi con decine di esagerazioni e slogan, l’importante è non disturbare la coscienza dei lettori facendo loro pensare alla crisi economica, alla mancanza di alloggi, allo strapotere degli industriali sugli operai.

Si possono fomentare gli odi razziali e individuare terroristi anche dove non ci sono, basta mantenere lo status quo, individualizzare i casi che hanno cause sociali e creare paura.

Wallraff si accorge che nei quattro mesi in cui rimane alla Bild da infiltrato, anche il suo atteggiamento cambia: è meno interessato ai rapporti interpersonali e analizza ogni evento alla ricerca di una possibile notizia adatta al giornale.

I suoi colleghi, la metà dei quali lavorano senza contratto, non legano tra loro. Girano barzellette sull’analfabetismo dei lettori, e con quei ritmi di lavoro (non ci sono pause né giorni liberi fissi) è impossibile frequentarsi fuori dell’ufficio.

Questo reportage, uscito in Germania nel 1977, è ancora attuale perché anche in Italia molti mass media lavorano così: notizie sensazionalistiche, omicidi, suicidi, gattini abbandonati, previsioni del tempo, donne nude o seminude… tutto quello che non ti fa riflettere sul sistema più ampio, ma che vende.

I giornali formano (o dovrebbero formare) la società trasmettendo la verità e analisi sincere.

Wallraff ci crede ancora.

Questo giornalista è famoso per il suo modo di fare i reportage. Non è la prima volta che lavora in incognito (lo ha fatto in un ospedale psichiatrico e in una fabbrica di armi proibite), né è la prima volta che finisce davanti al giudice per ciò in cui crede. E, solo per farvi capire chi è, sappiate che è stato imprigionato e torturato per diversi mesi dal governo fascista greco negli anni Settanta.

Dopo l’uscita di questo saggio, che è stato manipolato e sottoposto a censura, la sua famiglia e i suoi amici sono stati pedinati e importunati da reporter in cerca di marcio che lo hanno definito comunista e terrorista, e che si sono presentati a casa di sua madre spacciandosi per giornalisti dello Spiegel.

Ai vicini di casa dei genitori, hanno addirittura chiesto se Wallraff da piccolo rubava le mele o se era uno da zuffe.

Siamo così abituati alle nostre comodità: la spesa al supermercato, il tragitto per andare in ufficio, il panettone a Natale, e ci dimentichiamo che le libertà di cui godiamo non sono date una volta per tutte.

Per questo ringrazio Wallraff e chi, come lui, rischia di suo per salvaguardare ciò in cui crede.

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Hotel Shanghai – Vicki Baum

Vicki Baum è una di quelle scrittrici del Novecento che andrebbero tirate fuori dagli scaffali (difficile anche trovare recensioni online su questo libro).

Nata nel 1888 a Vienna da una famiglia facoltosa, studia musica, ma i suoi anni giovanili sono segnati dalla lunga malattia della madre. Quando quest’ultima muore, la Baum sposa un giornalista, da cui divorzia poco dopo; diventa battista e si sposta con un direttore d’orchestra. Naturalizzata americana nel 1938, ha iniziato da quell’anno a scrivere in inglese.

Muore in California nel 1961.

Non è il suo unico romanzo di genere “alberghiero”. Gli hotel le danno la possibilità di presentare più personaggi diversi e di vedere come si comportano quando si incontrano.

E’ quello che è successo in questo libro, ambientato a Shanghai nel 1937, appena prima dell’attacco giapponese (o cinese? Resta il dubbio).

I personaggi sono molti e di provenienza diversa.

Il dottor Yutsin è un cinese idealista e comunista, figlio di un ex coolie, ora diventato un ricchissimo banchiere. Ha sposato una straniera che non può dargli figli e il padre lo costringe (ma neanche insistendo tanto) a prendersi una bellissima concubina.

Il Dottor Hain, invece, è un ebreo tedesco scappato dal proprio paese a causa della persecuzione nazista: vive nella speranza di riunirsi alla moglie Irene, ma qualcosa andrà storto…

Helen e Bertrand Russell, marito e moglie: lei bellissima ed elegante. Lui ricchissimo, imparentato con politici influenti, ma razzista, alcolizzato e violento. Ho capito dopo un pezzo, praticamente alla fine del romanzo, che non si trattava del filosofo Bertrand Russell… (eh, non sono tanto sveglia, lo so, ma per praticamente 700 pagine non ho fatto altro che cercare online, senza trovarle, informazioni sul vero Bertrand Russell e questa intrigante moglie).

Helen Russell inizia una relazione con l’americano Frank Taylor, che sta aspettando la fidanzata. Salta fuori che questa Helen in realtà è russa e ha avuto un passato turbolento a Parigi, sempre alla ricerca di un marito facoltoso che la mantenesse come una regina.

C’è Yen, un coolie poverissimo, oppiomane e sempre indebitato, che si indebita ulteriormente per far bella figura col figlioletto che sta per arrivare a Shanghai.

E c’è Yoshio Murata, giornalista giapponese con una penna più letteraria che giornalistica. I giapponesi non sono certo i benvenuti, dopo che hanno occupato la Manciuria e riempito i mari cinesi di navi da guerra… Murata viene incaricato di un compito delicato che lo fa scivolare nello spionaggio.

Tutti i personaggi ruotano attorno all’hotel Shanghai, situato nella zona internazionale: zona che, a dire di tutti, non sarà bersagliata dalle bombe giapponesi.

Ho iniziato il libro il 27 aprile del 2003 e l’ho finito oggi, 9 agosto 2019. Credo sia il libro che mi ha richiesto più tempo e più interruzioni, complice anche la lingua francese, che non è la mia preferita; tuttavia, una volta entrati nelle storie di ognuno dei personaggi, ci si lascia trascinare.

E mi è rimasta ancora voglia di leggere libri ambientati in Cina.

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Nel ventre della balena e altri saggi (G. Orwell) e alcune riflessioni sulla politica italiana

C’era una volta, tanti, tanti anni fa, Repubblica Romana: quando i consoli non erano in grado di gestire una situazione di crisi, nominavano un dittatore che aveva poteri assoluti e restava in carica sei mesi. Solo sei mesi. Poi basta.

La dittatura non possedeva quell’alone negativo che possiede oggi.

Oggi, il problema italiano sono i politici “democraticamente” eletti. Non se ne vanno più. E se ne arrivano di nuovi (vedi Movimento 5 Stelle e Lega ora al governo), dopo poco, diventano come i politici che hanno sostituito: dimenticano le promesse elettorali, mettono radici, e tutto ciò che fanno lo fanno solo per mantenere la sedia.

In una situazione del genere, ti viene il pensiero che sia meglio una rivoluzione di qualche tipo, e che l’unica soluzione sia uno tsunami politico che spazzi via parlamento e le tenie che ci sono dentro… anche se sei pacifista, questo pensiero si insinua nel cervello. Perché qui, in Italia, non si salva nessuno, dei politici (e quindi, neanche noi).

Poi prendi in mano un libro di Orwell e leggi

Non è solo il fatto che “il potere corrompe”, ma sono anche i modi stessi di conseguirlo.

E allora neanche l’idea della rivoluzione funziona più.

Resta l’emigrazione…?

Ma torniamo a Orwell.

I saggi di questo libro sono vari: si passa dalla lettura, alla politica, ai ricordi di scuola e di guerra.

Dico subito che alcune sue affermazioni, alla luce del tempo, si sono rivelate errate. Ad esempio, quando dice:

I libri americani interessano sempre meno.

(…) Neppure i supermarket riescono a soffocare il piccolo librario indipendente come hanno soffocato il droghiere e il lattivendolo.

Ma mi fa anche riflettere sulla mia voglia di lavorare tra i libri quando dice

(…) il vero motivo per cui non mi piacerebbe fare il libraio di mestiere è che, mentre lavoravo in una libreria, persi il mio amore per i libri. Un libraio deve mentire sui libri, e questo glieli rende antipatici. Anche peggiore è il fatto che passa il suo tempo a spolverarli e a spostarli di qua e di là.

E io che pensavo che il libraio fosse il mio lavoro ideale!

Orwell combatte contro tutti i totalitarismi, sia di destra che di sinistra, ma è sospettoso anche nei confronti della democrazia quando l’opinione pubblica prende il sopravvento:

(…) l’opinione pubblica, a causa della fortissima tendenza al conformismo degli animali gregari, è meno tollerante di ogni altro sistema di legge.

E che dire della chiesa romana?

(…) Durante un periodo di 300 anni, quante persone sono state contemporaneamente buoni cattolici e buoni romanzieri?

(…) le chiese cristiane forse non sopravvivrebbero solo sui loro meriti se le loro basi economiche fossero distrutte.

Più in generale, sulla libertà di pensiero ed espressione, Orwell sottolinea spesso quanto l’intellighenzia (o quella che vorrebbe farsi chiamare “intellighenzia”) ricorre all’autocensura:

L’immaginazione, come alcuni animali selvaggi, diventa sterile sotto cattività.

Il grande nemico di un linguaggio chiaro è l’insincerità. Quando esiste uno scarto tra lo scopo reale e quello dichiarato, ci si rivolge istintivamente ai paroloni e a vecchi luoghi comuni.

I buoni romanzi sono scritti da gente che non ha paura.

Alcune di queste riflessioni si sono rivelate profetiche.

Guardiamoci oggi: teoricamente godiamo dei diritto di libera stampa e riunione ma

Ciò che è realmente in questione è il diritto di riportare gli eventi contemporanei in maniera veridica, o almeno tanto veridicamente quanto lo consenta l’ignoranza, il pregiudizio e le autoconvinzioni di cui ogni osservatore necessariamente soffre.

Quanti giornalisti davvero liberi abbiamo in Italia oggi? E romanzieri? Abbiamo ancora intellettuali impegnati politicamente che non siano accecati da pregiudizi e autoconvinzioni? O, più semplicemente, romanzieri che tocchino, anche di striscio, la situazione politica italiana nelle loro opere?

Ogni scrittore e giornalista che voglia salvaguardare la propria integrità si trova impedito più dall’andamento generale della società che da un’attiva persecuzione.

Quando mi siedo a scrivere un libro, non mi dico: “Adesso farò un capolavoro”. Lo scrivo perché c’è qualche menzogna che voglio denunciare, qualche fatto sul quale voglio attirare l’attenzione (…).

Scrivere un libro è una lotta orribile ed estenuante, come un lungo periodo di dolorosa malattia. Nn bisognerebbe mai intraprendere un’attività del genere a meno di non essere guidato da un qualche demone incomprensibile al quale non si può resistere.

Non c’è altro da aggiungere.

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Giustizia, non vendetta – Simon Wiesenthal

Wiesenthal è salito alla ribalta col soprannome di “cacciatore di nazisti”. E’ un soprannome che evoca più avventura di quella che in realtà c’è stata: Wiesenthal era più un uomo spinto dalla voglia di dare giustizia a tutti i morti della Shoah, non era una spia che scivolava nei vicoli bui del Sudamerica in cerca di mozziconi di frasi tedesche. Il suo lavoro consisteva più che altro nella raccolta di informazioni, documenti, foto.

Avventurose, però, sono le vicissitudini di quelli che lo fuggivano (anche se i casi di chirurgia plastica sono stati, a detta di Wiesenthal, dei miti).

Le parti che mi hanno indignato di più, comunque, non sono state quelle in cui venivano descritte le ingiustizie sopportate nei campi di sterminio: sono i resoconti di tutti i colpevoli che sono sfuggiti alla giustizia.

Le fughe, nella stragrande maggioranza dei casi, erano favorite per motivi politici, e in questo gli alleati, così presi dalla guerra fredda, hanno avuto grandi responsabilità.

E poi, dove li mettiamo tutti gli assassini, diretti o indiretti, che hanno le competenze necessarie per mandare avanti gli apparati burocratici tedeschi e austriaci? Se li togliamo tutti dalla circolazione, c’è il blocco totale, soprattutto nelle scuole, in polizia e nella giustizia.

Ergo: li teniamo. Li mettiamo a capo di un’amministrazione, li promuoviamo presidi, giudizi, capi di polizia, procuratori ecc… L’Austria, paese in cui Wiesenthal viveva, si è comportata in modo particolarmente vergognoso (più vergognoso della Germania), cercando di screditarlo e di mettergli i bastoni tra le ruote ad ogni passo.

Una cosa ci tiene a sottolineare Wiesenthal: non esistono le colpe collettive. Non è la Germania in blocco ad aver ammazzato milioni di ebrei e zingari. Sono stati i singoli, che hanno preso singole scelte.

E lo stesso vale per i miliardi rubati: soldi, pietre preziose, oggetti d’arte… non era Hitler a ordinare ai singoli gerarchi di intascarsi una parte (consistente, molto consistente) dei valori che confiscavano (Hitler, nel suo delirio, voleva che entrasse tutto a far parte della nuova Germania). Probabilmente ci sono ancora tesori nascosti sepolti sul fondo di laghi di mezza Europa.

E le istituzioni (fatte di singoli) sono colpevoli di dolo. Un esempio?

Per restituire opere d’arte confiscate durante la guerra, i competenti uffici chiedevano ai precedenti proprietari una descrizione particolareggiata dell’oggetto

(…) era attribuita una particolare importanza alle misure lineari precise – quasi che, prima di essere arrestati, la maggior parte degli ebrei si aggirasse per casa col metro pieghevole a misurare i quadri. Ciò consentì all’Austria ulteriori angherie: così non fu restituito un prezioso dipinto di Klimt – è ora esposto all’Albertina – perché le misure fornite dalla famiglia dei proprietari si discostavano di due centimetri e mezzo da quelle reali.

In generale, comunque

(…) nel caso degli oggetti d’arte “senza proprietario” solo una parte dei quadri fu rivendicata, perché soltanto una parte degli interessati ne era stata informata. I più bei dipinti della raccolta erano finiti nel frattempo nelle ambasciate e nei musei austriaci.

Complimenti a tutti, ma non dimentichiamocele, queste cosette.

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Termine di un viaggio di servizio – Heinrich Boell

Siamo in Germania, nel 1962.

Il processo Gruhl deve svolgersi in fretta e in sordina. I Gruhl padre e figlio hanno dato fuoco a una jeep americana: niente di grave, nessuno si è fatto male, sembra, ma qualcuno vuole che non venga data rilevanza al fatto.

Perché lo hanno fatto?

C’è stata premeditazione, su questo non c’è dubbio, e i due imputati sono sani di mente, ci sono le perizie. E allora?

Mentre seguiamo il processo, presieduto da un giudice che è al suo ultimo incarico e che è famoso per la benevolenza nei confronti degli imputati in generale (tanto più in questo caso, visto che in provincia tutti si conoscono fin da bambini), vediamo tutti i casi umani che girano attorno ai due Gruhl.

Ne salta fuori un pezzo di storia tedesca: non di gerarchi, non di fuehrer, ma di piccola manovalanza, piccoli artigiani, casalinghe, prostitute, piccola e media borghesia.

Non so come va a finire, ho esercitato il mio diritto di sospendere la lettura (a pag. 102 su 231): la scrittura è troppo ironica. Forse un giorno lo riprenderò, ogni libro ha il suo momento.

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Lo scrittore fantasma – Philip Roth

La trama è quasi inconsistente: un giovane aspirante scrittore, Nathan Zuckerman, va a trovare il suo idolo letterario, tale Lonoff, nella sua isolata casa sulle colline del New England.

L’incontro è cordiale: Lonoff si rivela essere uno scrittore maniacale, abitudinario, senza niente che possa rendere interessante una sua biografia, se mai a qualcuno venisse in mente di scriverla.

Gli unici eventi che possono smuovere questo elettroencefalogramma piatto, sono legati alla presenza di una giovane dal passato misterioso: è una ex studentessa di Lonoff, e nel corso della lettura si scopre che lei e il suo prof hanno una relazione.

La moglie di Lonoff, Hope, lo sa, e fa un paio di scenate a cui Zuckerman assiste attonito.

Il romanzo finisce con la ragazza che se ne va e Hope che si incammina a piedi, in mezzo alla neve, brontolando che non vuol saperne di tornare a casa: Lonoff la segue.

Raccontato così, sembra di una noia mortale, ma non lo è, ve lo assicuro: il bello del romanzo è dato da tutti i temi sollevati: la sopravvivenza al nazismo, la vita dello scrittore e il suo rapporto con la famiglia, il jet-set letterario, l’ebraismo ai giorni nostri, il senso di colpa…

Ad esempio: Nathan Zuckerman è in rotta col padre per via di un racconto che ha scritto basandosi su una storia familiare. Il racconto non è piaciuto a nessun parente perché sembra che gli ebrei siano descritti nel modo più classico possibile, come avari e imbroglioni. Questo piccolo episodio gira tutto intorno al modo in cui gli ebrei di oggi percepiscono se stessi, con la paura di venir giudicati per via della loro appartenenza e non della loro personalità.

Alla fine, davanti agli occhi ho l’immagine di un popolo che si vede diffamato anche quando non lo è (perlomeno io l’ho vista così), perché se il racconto di Zuckerman sia antisemita non è per niente scontato.

Non solo: Zuckerman appena vede la ragazza misteriosa se ne innamora, e fantastica che lei sia in realtà Anna Frank, sopravvissuta in incognito. Se così fosse, Nathan riuscirebbe a giustificarsi col padre: vedi, gli direbbe, credi che io odi la mia ebraicità, ma in realtà mi sposo con nientepopodimenoche Anna Frank!

E questo non è altro che la conferma del suo senso di colpa, perché, se per farsi perdonare dal padre ha bisogno di sposare l’emblema letterario della persecuzione ebraica, bè, qualcosa non va…

Mettetevela via: il romanzo non vi dà soluzioni. Nessuna via di fuga, nessuna rivelazione chiarificatrice, nessuna svolta che possa sistemare le cose, in nessun campo.

Philip Roth mette i problemi e i temi sul piatto, prende le frasi e le gira: tutto il resto spetta al lettore.

Una forma di collaborazione tra scrittore e utente, quasi.

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Gurdjieff, viaggio nel mondo dell’anima – Joe Santangelo

Se prima di leggere questo libro non sapevo chi era Gurdjieff, ora ne so poco di più. E’ un libro-omaggio, ben documentato, scritto con passione e gratitudine, ma il suo scopo non era quello di sviscerare il personaggio: sarebbe impossibile.

Per alcuni Gurdjieff era un maestro di vita, per altri un insegnante di danza, per altri un filosofo, un imbroglione, un mago, un ipnotizzatore… la lista è lunga. Di sicuro era un uomo carismatico, che è riuscito a stringere attorno a se una folta schiera di… studenti? Forse “ricercatori” è la parola più adatta.

Gurdjieff si occupava dell’anima. Ma per far ciò, doveva occuparsi dei corpi, delle emozioni, delle vite intere dei suoi seguaci. Seguaci che erano disposti a mollare famiglie e ricchezze pur di seguirlo.

Forse non è preciso dire che Gurdjieff si occupava dell’anima, perché sosteneva sempre che l’uomo ne nasce privo: l’anima bisogna meritarsela. Con la fatica, con la sofferenza (consapevole), con l’autosservazione, con l’ancoraggio nel presente, col controllo delle emozioni negative, silenziando il chiacchiericcio psicologico e risparmiando energia per dedicarsi al Lavoro.

La prima parte del libro è quasi una biografia: ma scordatevi di trovarci episodi eclatanti, scabrosi o esoterici. Ce ne sono solo accenni, di sfuggita, e non sono quelli che contano. Ciò che conta è la Verità e la guerra agli automatismi, alle abitudini, allo spreco di energia.

Non è un Lavoro per tutti: solo in pochi riescono a sopportarne la tensione, ma la ricompensa è l’Anima.

In realtà di “magico” il Sistema non offre nulla. Per il Sistema l’unica, autentica magia consiste nel “potere di fare” (…).

Questo è un libro molto lontano da un manuale: non ci sono consigli pratici, non ti dice fai questo, fai quello. Si legge di alcuni esercizi che Gurdjieff affibbiava ai suoi studenti: ad esempio, scavare, in un ben definito lasso di tempo, buche di dimensioni ben precise, per poi riempirle fino a renderle invisibili.

Lo stesso viaggio che ha fatto fare ai suoi studenti attraverso l’Europa in cerca di un luogo dove piantare la propria scuola è stato un esercizio: attraverso guerre, massacri, morte. Ma loro sono passati indenni, e ancora non si capisce bene come. Chi parlava di preveggenza, chi di magnetismo animale, chi di ipnosi… fatto sta, che quando sono arrivati, erano diversi da come erano partiti.

Insomma, quando ho messo giù il libro dopo aver chiuso l’ultima pagina, mi è rimasta la domanda: ma chi era Gurdjieff?

E’ però una domanda che potrebbe applicarsi a chiunque, perché abbiamo sempre bisogno di etichette: è più facile che dedicarsi all’Essenza di una persona.

Allora prendo solo un periodo, tra i tanti che mi sono rimasti impressi del libro, e ve lo riporto qui, perché leggendolo mi è sembrato di vedere tutta la schiera di persone (persone!) che passa ore e ore davanti agli schermi dello smartphone o davanti a schermi ultrapiatti da cui fuoriescono notizie inutili e dannose:

E’ necessario soltanto che egli impari a economizzare, in vista di un lavoro utile, l’energia di cui dispone, e che, per la maggior parte del tempo, dissipa in pura perdita. L’energia viene soprattutto spesa in emozioni inutili e sgradevoli, nell’ansiosa attesa di cose spiacevoli possibili e impossibili, consumata dai cattivi umori, dalla fretta inutile, dal nervosismo, dall’irritabilità, dall’immaginazione, dal sognare a occhi aperti e così via. (…)dalla tensione inutile dei muscoli, sproporzionata rispetto al lavoro compiuto; dal perpetuo chiacchierare, che ne assorbe una quantità enorme, dall’interesse accordato ininterrottamente alle cose che non meritano nemmeno uno sguardo; dallo spreco senza fine della forza di attenzione; e via di seguito.

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Quel che resta del giorno – Kazuo Ishiguro

Era da un po’ che non provavo più un tale piacere nella lettura. In questo libro, Ishiguro usa una prosa splendida! Splendida, ho detto!

Il maggiordomo Stevens, durante una vacanza in auto (la sua prima vacanza), ripercorre i ricordi della sua vita. Stevens è completamente dedito al suo lavoro, ossessionato dall’obiettivo di raggiungere una non meno identificata dignità professionale.

Al suo ruolo ha sacrificato tutto: non è stato presente alla morte del padre, anch’esso maggiordomo; non ha intessuto nessun legame sentimentale; non si è mai fatto domande sull’attività dei suoi padroni.

Un suo precedente titolare era filonazista? Non importa, lui lo ha servito senza mai metterlo in dubbio, neanche quando gli ha fatto licenziare due cameriere solo perché erano ebree.

La governante cerca di attirare la sua attenzione donandogli fiori? Non importa, lui non può permettersi di mostrare lati deboli, non starebbe bene.

E quello che più colpisce, è la sua capacità di autogiustificarsi e di nascondere a se stesso che anche lui è un essere umano, che anche lui soffre, che anche lui potrebbe amare. La sua maschera gli si è incancrenita addosso, e se alla fine Stevens esprime il desiderio di imparare a far battute ironiche, è solo perché potrebbe dar piacere al suo nuovo padrone.

Da leggere, da leggere!!!

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