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In quelle tenebre (Gitta Sereny)

Franz Stangl è stato il comandante di Treblinka, uno dei quattro campi di sterminio polacchi.

Leggendo questo libro ho scoperto un fatto che non mi era molto chiaro: i campi di sterminio nazisti, in cui si andava esclusivamente a morire, erano solo quattro. Gli altri erano campi di concentramento: anche in questi era molto facile morire, ma era solo un evento, per quando orripilante, accessorio al lavoro e alle condizioni in cui gli internati vivevano.

Da un campo di concentramento c’era qualche possibilità di uscire vivi; dal campo di sterminio, no. Gli unici sopravvissuti (parliamo di poche decine di persone) sono stati alcuni lavoratori addetti all’uccisione e al mantenimento del campo.

Gitta Sereny ha intervistato Stangl e molte altre persone che lo hanno conosciuto in vita, ed è un’esperienza molto istruttiva vedere come quest’uomo abbia reagito alle domande che la giornalista gli poneva.

E’ stato uno dei rari nazisti che ha svolto un ruolo attivo nello sterminio e che non ha mostrato solo superba insofferenza. A differenza di altri che hanno sempre rifiutato ogni tipo di colpa, lui ha mostrato in più di un’occasione che le migliaia di morti che ha causato non gli erano… indifferenti.

Questo non vuol dire che si sia dimostrato apertamente dispiaciuto, ma almeno non ha giustificato lo sterminio di donne e bambini come altri gerarchi nazisti hanno continuato a fare anche una volta messi davanti al fatto.

Stangl era un poliziotto austriaco, che, prima dell’Anschluss del 1938, era pure antinazista (a suo dire); appena dopo l’Anschluss, è stato addetto al progetto Eutanasia: dirigeva un programma di eutanasia di malati fisici e psichici. Lui autorizzava l’uccisione in base ai referti dei medici, e qui si è sempre difeso adducendo come scusa, da un lato, la gravità delle malattie e, dall’altro, una sorta di clemenza.

Questa esperienza è stata probabilmente decisiva per adibirlo al comando dei campi di sterminio (prima Sobibor e poi Treblinka).

Durante l’intervista, che è durata molti mesi, la sua versione ufficiale è stata che, una volta capito cosa stava davvero succedendo, non poteva più tirarsi indietro se non a rischio della vita, sua e della sua famiglia.

Alla moglie non ha mai detto cosa succedeva in quel campo e quando lei ha sentito delle chiacchiere in giro, lui ha sempre negato. Bisogna anche dire che Stangl, che di solito a casa era morigerato, ogni sera al campo annegava i pensieri nell’alcool. Ciò non toglie che il suo lavoro è sempre stato impeccabile, preciso, non ha mai ritardato o saltato il programma dei gasaggi. Ogni mattina, nel periodo di maggior affluenza, arrivavano da uno a cinque treni: migliaia di persone che alla sera non esistevano più.

E’ un libro di quasi 500 pagine, ho riportate qui solo alcune delle tante impressioni che ha suscitato.

Se resta un mistero come abbia potuto succedere una tragedia del genere, è perché gli uomini stessi che l’hanno compiuta sono rimasti un mistero, nonostante tutti gli studi e le inchieste e i processi che li hanno presi in esame.

Erano persone come noi, cerchiamo di non dimenticarcelo.

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Termine di un viaggio di servizio – Heinrich Boell

Siamo in Germania, nel 1962.

Il processo Gruhl deve svolgersi in fretta e in sordina. I Gruhl padre e figlio hanno dato fuoco a una jeep americana: niente di grave, nessuno si è fatto male, sembra, ma qualcuno vuole che non venga data rilevanza al fatto.

Perché lo hanno fatto?

C’è stata premeditazione, su questo non c’è dubbio, e i due imputati sono sani di mente, ci sono le perizie. E allora?

Mentre seguiamo il processo, presieduto da un giudice che è al suo ultimo incarico e che è famoso per la benevolenza nei confronti degli imputati in generale (tanto più in questo caso, visto che in provincia tutti si conoscono fin da bambini), vediamo tutti i casi umani che girano attorno ai due Gruhl.

Ne salta fuori un pezzo di storia tedesca: non di gerarchi, non di fuehrer, ma di piccola manovalanza, piccoli artigiani, casalinghe, prostitute, piccola e media borghesia.

Non so come va a finire, ho esercitato il mio diritto di sospendere la lettura (a pag. 102 su 231): la scrittura è troppo ironica. Forse un giorno lo riprenderò, ogni libro ha il suo momento.

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Consigli di lettura

Ora che mi hanno sistemato il computer, cerco di rimettermi in linea coi libri letti.

Son stata fortunata nelle ultime settimane, perché mi son capitati romanzi appassionanti.

DAI TUOI OCCHI SOLAMENTE, DI FRANCESCA DIOTALLEVI

Romanzo biografico della fotografa americana Vivian Maier, morta appena prima di venir rivelata al mondo grazie a uno straccivendolo che ha acquistato un magazzino di cui non veniva più pagato l’affitto.

La Maier del romanzo ne esce cupa, ma integra nel suo bisogno di scattare foto e di dichiararsi al mondo attraverso la macchina fotografica. Una persona chiusa, con un passato da cui non riesce a liberarsi, ma con una capacità di osservazione tutta da imitare.

IL GUSTO PROIBITO DELLO ZENZERO, DI JAMIE FORD

A metà tra il romanzo storico e il romanzo rosa (ma molto più pendente verso lo storico), ci racconta della fobia americana contro i giapponesi allo scoppio della seconda guerra mondiale. Gente con gli occhi a mandorla ma nati sul suolo americano, spesso incapaci di parlare la lingua dei propri genitori, e che è costretta a subire angherie e vigliaccate da compagni di scuola e vicini di casa.

La storia parte da fatti veri (la scoperta di una cantina in un albergo di Seattle piena di oggetti appartenuti a giapponesi che hanno dovuto abbandonare le proprie case da un giorno all’altro). Ben scritto, mi ha fatto partire l’embolo: perché gli Stati Uniti, con la loro statua della Libertà, si considerano i paladini della giustizia, e invece… l’ennesimo esempio di bullismo e paura a livello nazionale.

LA VARIANTE DI LUENEBURG, DI PAOLO MAURENSIG

Bellissimo. Maurensig ricrea le atmosfere mitteleuropee e ci mette alle calcagna di un ex nazista che – ormai integrato e ricco – si suicida (o no?) nel suo giardino, sulla scacchiera che aveva fatto costruire in ossequio al suo amore per gli scacchi.

Risaliamo indietro nel tempo e scopriamo l’abominio a cui aveva costretto un detenuto del campo in cui lavorava, pur di disporre di un degno avversario nel gioco.

E’ un libro magnifico perché spazia attraverso tanti temi: dalla pazzia, alla passione, all’attenzione, al dolore, alla sopravvivenza eterna.

LA CASA DEGLI INCONTRI, DI MARTIN AMIS

Passiamo dai campi di concentramento nazisti ai gulag sovietici. Il protagonista è uno che è sopravvissuto alla guerra facendosi strada a suon di stupri sulle strade della Germania. Uno che non ci pensa due volte a uccidere. Sembrerebbe il classico cattivo, e invece di classico in questo romanzo non c’è nulla.

Neanche il triangolo amoroso, neanche l’affetto familiare, neanche i riferimenti letterari.

La trama parte dalla seconda guerra mondiale ma sono frequenti i rimandi alla contemporaneità (ricordate la scuola in Ossezia?) e le dichiarazioni di amore e odio verso la Madre Russia.

E la domanda alla fine è: cosa resta, di un essere umano, dopo esperienze così drastiche?

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La guardarobiera, @pmcgrathnovels, @lanavediteseoed

Non dovete leggere questo romanzo aspettandovi la stessa morbosità di “Follia”, “Il morbo di Haggard” o di “Grottesco”. E’ qualcosa di diverso, molto più sottile, con meno accadimenti drammatici, meno macabri, (forse) meno passionalità. Eppure è un libro che merita di esser letto.

Joan, capo guardarobiera di teatro, è appena rimasta vedova del marito, famoso e affascinante attore. Siamo nella Londra del 1947, in un inverno freddissimo: è difficile trovare viveri e riuscire a scaldarsi, ci sono, qui e là, episodi di rinascente fascismo.

Joan è confusa: si convince che il marito non è morto, che il suo spirito c’è ancora. Lo sente dentro l’armadio, tra i suoi vestiti, e crede di rivederlo in Frank Stone, giovane attore con cui inizia una relazione.

Il romanzo è tutto un gioco di specchi tra realtà e immaginazione (malata): Joan prima sente la mancanza del marito, poi inizia ad odiarlo perché scopre che era un fascista (lei è ebrea); prima odia il genero, credendolo l’assassino del marito, poi ne abbraccia la causa; Frank Stone prima è il recipiente del defunto, poi è un contenitore vuoto (talmente vuoto che passa dalla madre alla figlia con “maschia” velocità).

Interessante la scelta di affidare la narrazione ad un presunto coro femminile, al corrente dei fatti e a volte materialmente presente, eppure non ben definito.

Ciò che sembra, non è; le rivelazioni non sono mai plateali, ma sfumate, si scivola dalla fantasia alla realtà senza fuochi d’artificio, ed è forse questo l’elemento più realistico del romanzo. Per questo non lo definirei “thriller psicologico”, come dicono tante recensioni giornalistiche. E’ un romanzo prima psicologico, e poi storico.

Notevole la capacità di McGrath di immedesimarsi nelle paturnie degli attori di teatro, nelle sfumature dei loro pensieri. Mentre leggevo mi chiedevo come faceva, e poi l’ho scoperto: è sposato con un’attrice…

Insomma, una lettura consigliata non a chi cerca fuoco e fiamme, passioni e tremori, ma sì a chi vuole immergersi in una mente ai… confini.

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La meraviglia della vita – Michael Kumpfmueller

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Nonostante la poca voglia di leggere narrativa in questo periodo, ho scelto questo libro perché parlava di Kafka, dunque in qualche modo l’argomento doveva legarsi all’ambiente dell’arte, il topic delle mie letture in questo periodo.

Già dopo le prime pagine, però, mi sono accorta del granchio: Kafka non viene mai chiamato Kafka. In un paio di passaggi lo si chiama per nome, Franz, ma dalla storia potrebbe essere un qualunque Franz che scrive e che ha la tubercolosi.  Certamente l’autore voleva così, era sua intenzione raccontare l’ultima storia d’amore del grande scrittore come fosse stata la storia d’amore di una coppia qualunque nell’Europa appena prima della seconda guerra mondiale.

Ci può stare.

Però…. però…. insomma! Dai, non puoi ignorare del tutto l’opera di Kafka. Al massimo si trovano degli accenni ai “fantasmi” che lo tormentano, ma senza mai scendere nello specifico.

La sua donna, poi, Dora Diamant: non legge neanche le sue opere, e se le legge ammette di non capirci molto, quando addirittura non si preoccupa. Ma come fa uno scrittore come Kafka a innamorarsi di una così? Allora, istituiamo una regola: le donne devono finirla di essere intellettualmente inferiori ai loro uomini. Voglio la parità anche in questo!

La storia in sé dura pochi mesi: inizia quando i due si conoscono in villeggiatura e finisce quando lui muore tra le sue braccia. Non succede quasi nulla, e gli accenni all’antisemitismo incalzante e a Hitler sono, appunto, solo accenni. Si parla di più dell’inflazione galoppante di Berlino, e di come tutti debbano muoversi a fare le spese appena ricevuto lo stipendio perché il giorno dopo i prezzi saranno già saliti. Ci sono solo vari cambi di ambiente perché lui, ormai alla fine, deve spostarsi da un sanatorio all’altro.

Qui è pura storia d’amore, con lei che pensa a lui e lui che pensa a lei (e al fatto che dovrà morire presto).

Mi direte: va bene così, perché biografie su Kafka scrittore ce ne sono già tante in giro (davvero?), mentre mancava un romanzo su questa storia.

Allora non mi è piaciuto?

Non ho detto questo.

Sono poco portata per le sdolcinature, ma siamo comunque in un altro tempo e in un altro luogo, a contatto con dei personaggi storici che ci appaiono nella loro veste umana.

Insomma, sono arrivata alla fine. E sono anche riuscita ad appassionarmi e a prendermela per come Kafka è psicologicamente sottomesso al padre e per la fatica che ha fatto a parlare di Dora alla famiglia. Me la sono presa per la sua paura, insomma.

Una paura che, nonostante tutto, non gli ha impedito di diventare uno degli scrittori più famosi del secolo.

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