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Giovanni Paolo II – Il segreto di Karol Wojtyla (Andreas Englisch)

Tranquilli, non sono regredita alle mie giovanili credenze cattoliche, ma dovevo leggere un libro in tedesco, mi serviva una extensive reading (Stephen Krashen docet) e non ho sempre testi di mio gusto in libreria. Dunque, come faccio spesso (forse troppo spesso) nella vita, mi sono accontentata.

E poi inutile negarlo: fino ai vent’anni sono stata una cattolica immersa in un ambiente cattolico, ero convinta che i cattolici fossero almeno un poco migliori dei non cattolici, e più messe mi sorbivo (pur pensando ai cavolacci miei) più a posto con la coscienze mi sentivo. Dunque, Giovanni Paolo II è stato il mio papa, e leggere di lui mi ha riportato indietro nel tempo.

Ma questa non è una biografia classica.

Andreas Englisch è un giornalista che ha fatto parte per molti anni del pool che accompagnavano il papa nei suoi viaggi: saliva sugli aerei con i colleghi, fumava, litigava per afferrare una frase papale in più degli altri, correva a telefonare alla propria redazione per informarla se il pontefice aveva fatto una battuta o se era inciampato nella tonaca.

E a differenza delle biografie che piacciono a me, quelle con dettagli intimi trasmessi di prima mano, l’autore non è mai riuscito a fare una vera intervista a quattr’occhi col papa. Englisch scrive di quello che vede, di quello che legge, e di quello che pensa. E anche di com’è difficile la vita del giornalista al seguito del pontefice, che forse è la parte più interessante, per i non credenti, come quando sono venuta a sapere che è usanza, tra quei professionisti così compiti, portarsi a casa più souvenirs possibili, che siano portatovaglioli in argento con lo stemma papale o fogli di carta scritti a mano dal pontefice e recuperati dal cestino; molti di questi souvenirs si trovano anche oggi nei mercatini dell’usato in giro per l’Italia e sono venduti a prezzi folli.

Andreas Anglisch non è cattolico. Quando ha iniziato a seguire il pontefice nei suoi viaggi, non nascondeva a nessuno i suoi dubbi nei confronti della chiesa cattolica: dalle enormi ricchezze, agli scandali finanziari, alla pedofilia, al mancato aiuto agli ebrei durante la seconda guerra mondiale, al divieto di utilizzare protezioni durante i rapporti sessuali anche in periodo di AIDS ecc…

Ma questa esperienza doveva metterla per iscritto se non altro per farci sapere com’è la vita dietro le quinte di un giornalista (e comunque, i libri sul papa vendono sempre piuttosto bene).

Andreas Englisch, durante gli anni, ha visto il papa come un soldato che si poneva dei compiti da assolvere. Ogni volta che ne aveva compiuto uno, Englisch pensava che il papa avesse perso il suo obiettivo, e invece Woytila lo sorprendeva sempre con una nuova battaglia.

All’inizio si trattava di combattere il blocco sovietico, poi di unire i cristiani (evangelici, ortodossi…), poi di unire tutte le religioni monoteiste, poi di riappacificarsi con ebrei, poi di riappacificarsi con i musulmani, poi ammettere le colpe della chiesta nel caso Galilei, poi di chiedere scusa per l’inquisizione…

Insomma, un lavoro non indifferente per un uomo che aveva i suoi acciacchi di salute.

L’autore non cambia idea su certi argomenti: il rifiuto degli anticoncezionali in India e in altri paesi ad alti tassi di AIDS è un punto su cui la chiesa non ammette deroghe, così come sul ruolo delle donne, sul celibato, sull’aborto. Ma negli anni ha imparato ad apprezzare la resilienza del papa, la sua capacità di andare avanti anche se chi gli stava attorno non approvava (vedi Ratzinger in merito ai miracoli di padre Pio).

Mi ha colpito un episodio che non ricordavo.

Il Papa non ha mai accettato l’affermazione statunitense secondo cui Dio è dalla parte degli USA anche (e soprattutto) se attaccano militarmente altri paesi. Quando Woytila è andato in visita in America, Clinton, per affermare la supremazia dell’idea americana su quella del pontefice, ha fatto qualcosa che nessun altro capo di stato aveva mai osato.

Con il peggioramento della salute di Woytila, i presidenti, all’arrivo dell’aereo papale, si presentavano subito davanti alla scaletta, per evitare al papa di camminare troppo, visto che era molto affaticato e dolorante. Clinton no. Ha fatto preparare un lungo tappeto rosso che univa la scaletta alla tenda sotto cui lui è rimasto ad aspettare, costringendo il vecchio a trascinarsi fino a lì.

Perché non mi ricordavo questo episodio?

Non mi pare di aver trovato traduzioni in italiano di questo libro e credo che non farebbe comunque successo. Non svela nulla di nuovo, non si lascia andare a teorie complottiste né a improperi verso i grandi peccati vecchi e attuali della chiesa cattolica. Non sappiamo davvero cosa pensasse Woytila in certi frangenti, sappiamo solo cosa ne pensa Andreas Englisch (che, per la cronaca, continua a pubblicare in Germania libri sulla chiesa romana).

Manca insomma quell’elemento piccante che attira le grandi folle di lettori in Italia.

Ma qualche punto interessante ce l’ha, per lo meno per me che fino a una certa età nella vita ho sempre accettato pedissequamente come vero e giusto quello che mi dicevano i miei genitori.

Nella vita, non si dovrebbe mai rinnegare niente ma sfruttare tutto, almeno come lezione.

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Poveri e semplici (Anna Maria Ortese)

Lo avevo iniziato e interrotto dieci anni fa, ma stavolta mi sono imposta di arrivare alla fine; mi son detta: se è brava da prendere un premio strega, qualcosa deve avere anche per me. E invece no (almeno con questo romanzo).

La trama è quasi inconsistente: quattro amici squattrinati vivono in un appartamento a Milano. Le loro giornate trascorrono senza grandi eventi. Sono permeati di ideali comunisti, sono dei sognatori, e sperano di portare nel mondo – attraverso la loro arte – un miglioramento morale ed economico.

Ma non riescono neanche a sbarcare il lunario: sono sempre in debito con qualcuno, e quando Bettina, la voce narrante, vince un premio letterario, pur mettendo in comune tutto il ricavato, riesce a malapena a coprire i debiti contratti fino ad allora (che includono sigarette e trattoria…).

Andrea e Sonia sono sposati. O così sembra…

Bettina si innamora di Gilliat, un giornalista, ma vi rinuncia perché pensa che anche Sonia ne sia innamorata. Poi le cose si capovolgono, e si scopre che Gilliat è innamorato di Bettina.

L’unica che lavora, Ziuccia, sembra bipolare, visti i suoi sbalzi di umore.

La padrona di casa, pure lei, non ci sta tanto con la testa, ma la sua malattia si esprime solo in richieste di anticipo dell’affitto per comprarsi i lussi che le sono necessari.

Poi muore il padre di Bettina. Poi muore la madre di Gilliat. Poi vanno a trovare la mamma di Sonia, povera pure lei.

Insomma, non c’è una vicenda centrale, non c’è una trama composta da cause ed effetti forti.

Tutto gira attorno alla presunta bontà dei protagonisti, e alla loro semplicità di carattere, che a volte sconfina nella banalità.

Ma quello che mi ha veramente innervosita durante la lettura, e che è il risultato di un pietismo molto forte nei confronti dei personaggi, è l’uso smodato dei vezzeggiativi: ziuccio, pennuccia, tavoluccia, boccuccia, pennuccia, casuccia, stanzuccia, quadrucci, alberguccio, abituccio… e vai di questo passo.

Ogni pagina gronda di vezzeggiativi, pietà e di una lacrimazione di fondo che al giorno d’oggi sono proprio fuori posto.

L’edizione che ho io contiene una presentazione di Alfonso Gatto, scritta in una maniera che è un modo per dire: se non sei abituato a leggere, metti giù questo libro, perché a noi non importa diffondere il piacere della lettura, ci basta solo mostrare quanto siamo bravi a usare le parole.

Alfonso Gatto dice:

L’opera della Ortese è un’opera buona. Un lettore che si creda provveduto di malizia e di disincanto, per quest’opera, deve fare i conti con la sua miseria morale, con la sua sterilità orgogliosa, con i suoi sensi spenti.

Accetto il rimbrotto e confermo che questo libro non fa per me.

Vi anticipo però che sto leggendo un altro libro della Ortese, più recente, e la scrittura è tutt’altra cosa… Ci vediamo presto.

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I peggiori anni della nostra vita (Oreste del Buono) @EinaudiEditore

Il protagonista del libro è Oreste, non so se è autobiografico o se è un io fittizio: non l’ho capito, Del Buono è uno scrittore che leggo per la prima volta e lo stile risente molto degli anni in cui è stato pubblicato (1971).

Oreste si definisce come un giornalista che scrive di ciò che non conosce: subito, all’inizio del libro, mette le mani avanti per farci capire che a lui del suo lavoro non interessa più niente, che vorrebbe cambiarlo, che resta là solo per via della tessera di partito.

Oreste ha una moglie incinta, ma quando partorisce lui pensa solo a dormire e a non stare troppo tra i piedi di consorte e suocera: ne viene fuori il ritratto di un uomo senza passioni, neanche domestiche. Leggi come si muove, cosa pensa, e ti verrebbe da dirgli: “Dai, smuoviti, un po’ di vita!”

Poi il racconto torna indietro negli anni, e scopriamo che viene da una famiglia fascista e che il padre era dirigente di una fabbrica: la loro identità crea non pochi problemi dopo l’armistizio, ma Oreste, che ha fatto la guerra ed è stato prigioniero, non ha il coraggio di dire ai suoi di aver cambiato idea, di non pensarla più come quando era piccolo.

In realtà, Oreste non si esprime: inizia le frasi e lascia che le finiscano gli altri.

I capitoli, brevi, forniscono flash della vita del protagonista ma lasciano molti buchi, che il lettore deve riempire con indizi seminati qua e là: la morte di un amico, i genitori che invecchiano, il divorzio, il tentativo di recuperare il rapporto con la figlia.

In una scala da 1 a 5, gli darei un 2-.

Non fraintendetemi: Del Buono sa scrivere, ci sono frasi che mi sono sottolineata per la capacità di uscire dagli schemi letterari; tuttavia il suo stile rimane troppo elegiaco, e nonostante l’uso frequente degli aggettivi, le descrizioni rimangono sempre ambigue, sia che si parli di persone che di situazioni.

Forse era un effetto voluto: anche Oreste è ambiguo, non prende posizione, e quando la prende non se ne assume la responsabilità fino in fondo; ma non posso dire che sia un libro da consigliare a un lettore di oggi.

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Homo deus – Yuval Noah Harari

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Quello che mi piace dei libri di Harari è che, per quanto lunghi siano, ogni pagina concorre a rinforzare la tesi di fondo. Harari non solo ha una conoscenza e una curiosità profonde in ogni campo, ma anche buone capacità comunicative, attributi che fanno dei suoi libri un passatempo piacevole e costruttivo.

In Homo Deus, l’obiettivo è capire come si svilupperà il genere umano, o almeno individuare alcune possibili linee di sviluppo.

In passato le preoccupazioni principali dell’umanità erano le guerre, le epidemie e le carestie, tutti problemi che non sono più eventi ineluttabili, né sono più considerati come vendette divine o maligne.

Liberati (o quasi) da questi fardelli, gli uomini ora cosa fanno? Mirano non più alla mera sopravvivenza, ma all’immortalità e alla felicità.

E’ possibile?

Per tentare di rispondere a questa risposta, Harari parte dal confronto tra uomini e animali. Cosa ci distingue davvero dagli animali?

Non l’intelligenza né la sensibilità, bensì la capacità di organizzazione su larga scala.

Un governo, statale o mondiale che sia, organizza enormi masse di persone che non si conoscono  tra loro, mentre un gruppo di scimpanzé collabora al massimo all’interno del proprio gruppo.

E’ la cooperazione che ha reso grande l’essere umano.

Ogni volta che facciamo qualcosa che va contro la cooperazione, riportiamo indietro la storia umana.

E come si fa ad organizzare le grandi masse?

Con le storie.

Gli animali non inventano storie.

E’ lo story telling la grande invenzione umana; col suo importantissimo corollario: la scrittura, che ha fatto viaggiare le storie nel tempo e nello spazio.

Ma questa evoluzione ha avuto i suoi lati oscuri.

La modernità ha fatto una scelta: ha scelto il potere (sulla natura, sul mondo, sugli animali) a scapito del senso.

Il senso una volta ce lo davano le grandi storie: il comunismo, il liberismo, il cattolicesimo… Ora parliamo di umanesimo, cioè di una storia che attribuisce il valore supremo all’uomo, ai suoi sentimenti e alle sue sensazioni.

Tutto ciò che fa star bene l’uomo, l’uomo deve essere libero di sceglierlo.

O no?

Siamo davvero liberi oggi?

Questa è la domanda che rimane parzialmente inesplorata alla fine del libro, anche se Harari ci fa capire il suo punto di vista parlandoci del datismo e della somma importanza data alla circolazione dei dati (senza alcun valore etico).

Ma mi fermo qui, non posso riassumere un libro di 485 pagine in un solo post.

Leggetelo, non ne resterete delusi.

 

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Una morte irregolare – Béatrix Beck

 

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Barny, una giovane intellettuale, ha sposato Chaim, apolide di origini russe, ebreo e militante comunista che viene arruolato nell’esercito francese. Hanno una figlia di pochi anni, France. Lei e la figlia vivono dei lavoretti sporadici che Barny riesce a trovare nel paesetto alpino dove aspettano il marito e padre.

Ma un giorno arriva la fatidica lettera con cui si comunica a Barny che Chaim è morto.

Come?

Non si sa. Ma di sicuro è morto senza che la Francia gli riconoscesse i suoi onori, tanto che Barny e sua figlia devono affrontare diversi problemi burocratici.

Il libretto è breve, appena 119 pagine. In queste poche pagine ruota tutto attorno alle difficoltà economiche di Barny, a pochi personaggi che la aiutano o la criticano, e al mistero della morte del marito.

Verrà svelato, alla fine, questo mistero, ma ci resterà sempre il dubbio: un ebreo apolide e comunista che non è riuscito ad integrarsi, nonostante i suoi sforzi, è davvero morto in quel modo?

Non è un libro avventuroso, e neanche dal punto di vista psicologico l’ho trovato molto avvincente.

Forse non l’ho capito io, che ho dovuto spesso ricorrere al dizionario per tradurre dal francese. Se sono arrivata alla fine è solo perché mi ero imposta di finire un libro in lingua per fare esercizio!!

Il libro è parzialmente autobiografico: anche la Beck ha sposato un uomo che è stato ucciso in guerra; con la vedovanza, ha conosciuto dei giorni piuttosto difficili, rassegnandosi ad accettare i lavori che le venivano offerti nel dopoguerra (operaia, modella in una scuola di disegno, operaia a domicilio, impiegata in una scuola per corrispondenza, cameriera…).

Questo breve romanzo è stato pubblicato dalla Gallimard nel 1950.

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Sono stato imperatore (Pu Yi) @LibriBompiani

Non sono riuscita a leggere questa autobiografia senza fare il confronto, episodio per episodio, col film “L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci.

Per capire le numerose differenze, bisogna tenere a mente che l’autobiografia di Pu Yi è stata scritta in piena epoca Mao (la pubblicazione è avvenuta nel 1964).

Pu Yi non era una grande personalità: era debole di carattere, e i lussi in cui è vissuto gran parte della sua vita non hanno fatto altro che indebolirlo ulteriormente e incancrenire altri suoi difetti, tra i quali la crudeltà aveva un ruolo importante.

Nella biografia, Pu Yi parla del suo vecchio sè con rammarico e vergogna ma ci resterà sempre il dubbio di cosa pensasse davvero: di quanto fosse all’oscuro delle mire giapponesi durante l’occupazione del Manchukuo, dello sfruttamento bestiale del popolo cinese e della situazione internazionale.

La parte più interessante dell’autobiografia a mio parere inizia dopo la costituzione del Manchukuo, lo stato fantoccio: si vede un Pu Yi che pensa continuamente alla sua restaurazione come imperatore, si illude e poi cade, più volte, nella disperazione e nel terrore di venire ucciso, e allora si dà alla pratica del buddhismo e alle superstizioni (arrivando al punto di vietare ai servi di uccidere le mosche).

Quando il Giappone perde la guerra e il Manchukuo cade, Pu Yi finisce per cinque anni in un carcere russo, e, infine, in uno cinese.

Era pronto ad essere maltrattato, deriso, torturato e ucciso e invece… oh! Miracolo! Il comunismo è magnanimo!

E qui lo sbrodolamento inzuppa le pagine: tutti, anche i sopravvissuti a terribili massacri, lo perdonano; tutti si preoccupano solo della sua reintroduzione nella nuova società; la nuova società non è interessata ai suoi numerosi gioielli, e in carcere diventa un vero uomo. Così dice.

Negli ultimi anni avevo appreso qualcosa circa il mio effettivo valore dai miei tentativi di lavarmi gli abiti e fabbricare astucci per matite.

All’inizio avevo detestato il partito comunista, il governo del popolo e le autorità carcerarie, mentre ora non avevo motivo di avercela con loro, e più che mai sentivo che, se le cose stavano a quel modo, era per colpa mia.

La magnanimità dei contadini che avevo ritenuto rozzi, ignoranti e pronti a trar vendetta senza curarsi affatto della politica di clemenza e rieducazione. Adesso erano padroni del proprio destino, e dietro di loro stavano un potente governo e un esercito guidato dal partito comunista.

Una cosa era chiarissima nella mia mente: il partito comunista si serviva della ragione per conquistare la gente.

Mi fermo qui, ma avete colto il senso.

Impossibile sapere quanto Pu Yi fosse davvero convinto di queste lodi e quanto forte fosse la paura, ma anche se si resta col dubbio sulla sua sincerità (quanto ha esagerato i suoi crimini? Quanto ha esagerato la magnanimità del comunismo? Quanto ha taciuto?), questo è un libro che ho letto con piacere.

Voto: 3 su 5.

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L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Walter Benjamin

Trentotto pagine che ti fanno riflettere.

Siamo abituati a pensare all’arte come qualcosa dotata di AURA, di un misterioso alone luminoso, che non è in realtà niente altro che UNICITA‘. Non bisogna invece confondere la sua unicità con la sua irriproducibilità.

Perché le opere d’arte, fin dall’inizio, sono sempre state riproducibili: si pensi alle gazzelle disegnate sulle pareti delle grotte preistoriche, o ai dipinti degli allievi che ripetevano fino allo sfinimento i quadri e le tecniche dei loro maestri.

Certo, una cosa è la riproducibilità manuale, e un’altra cosa è la riproducibilità tecnica.

Quanto influisce il mezzo di riproduzione sull’aura? Una sinfonia di Beethoven ascoltata nel 2019 attraverso un MP4 perde la sua aura per il fatto che è riprodotta a secoli di distanza dalla morte del suo artista?

Benjamin non dà risposte: non potrebbe, visto che la tecnica è sempre in evoluzione e non si arriva mai ad un punto fermo. Però ci fa riflettere.

La riproducibilità tecnica, ad esempio, è stata sfruttata per portare l’arte alle masse. Una volta non era così: l’arte veniva presentata a un pubblico scelto, e la fruibilità era mediata dall’alto, gerarchicamente (si pensi all’esposizione di quadri nelle chiese e nei monasteri), allo scopo di controllare la reazione del fruitore.

Oggi l’arte si presenta alle masse: è diventata trasportabile e riproducibile. Questo riduce la possibilità di influire sulla reazione del pubblico, spesso culturalmente impreparato o semplicemente distratto, ma oggi verrebbe considerato come un aspetto positivo, democratico.

Un’altra conseguenza della riproducibilità tecnica è la scomparsa dell’elemento rituale.

L’arte è nata come un rituale magico (e poi religioso), ma il rito non è più necessario quando l’arte viene riprodotta: viene meno il luogo e vengono meno le formule che prima erano elemento transustanziale dell’oggetto artistico.

Oggi l’arte ha un valore di esponibilità che è superiore a quello cultuale.

Il breve saggio finisce con una postilla sul confronto tra fascismo e comunismo dal punto di vista del loro atteggiamento verso l’arte.

Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti).

Quando ho letto questa frase mi sono subito venuti in mente i social, in cui tutti si sfogano senza (quasi) mai combinare niente.

La guerra, e la guerra soltanto, rende possibile fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà.

Un testo che dovevo leggere.

Così stanno le cose riguardo all’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte.

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Giustizia, non vendetta – Simon Wiesenthal

Wiesenthal è salito alla ribalta col soprannome di “cacciatore di nazisti”. E’ un soprannome che evoca più avventura di quella che in realtà c’è stata: Wiesenthal era più un uomo spinto dalla voglia di dare giustizia a tutti i morti della Shoah, non era una spia che scivolava nei vicoli bui del Sudamerica in cerca di mozziconi di frasi tedesche. Il suo lavoro consisteva più che altro nella raccolta di informazioni, documenti, foto.

Avventurose, però, sono le vicissitudini di quelli che lo fuggivano (anche se i casi di chirurgia plastica sono stati, a detta di Wiesenthal, dei miti).

Le parti che mi hanno indignato di più, comunque, non sono state quelle in cui venivano descritte le ingiustizie sopportate nei campi di sterminio: sono i resoconti di tutti i colpevoli che sono sfuggiti alla giustizia.

Le fughe, nella stragrande maggioranza dei casi, erano favorite per motivi politici, e in questo gli alleati, così presi dalla guerra fredda, hanno avuto grandi responsabilità.

E poi, dove li mettiamo tutti gli assassini, diretti o indiretti, che hanno le competenze necessarie per mandare avanti gli apparati burocratici tedeschi e austriaci? Se li togliamo tutti dalla circolazione, c’è il blocco totale, soprattutto nelle scuole, in polizia e nella giustizia.

Ergo: li teniamo. Li mettiamo a capo di un’amministrazione, li promuoviamo presidi, giudizi, capi di polizia, procuratori ecc… L’Austria, paese in cui Wiesenthal viveva, si è comportata in modo particolarmente vergognoso (più vergognoso della Germania), cercando di screditarlo e di mettergli i bastoni tra le ruote ad ogni passo.

Una cosa ci tiene a sottolineare Wiesenthal: non esistono le colpe collettive. Non è la Germania in blocco ad aver ammazzato milioni di ebrei e zingari. Sono stati i singoli, che hanno preso singole scelte.

E lo stesso vale per i miliardi rubati: soldi, pietre preziose, oggetti d’arte… non era Hitler a ordinare ai singoli gerarchi di intascarsi una parte (consistente, molto consistente) dei valori che confiscavano (Hitler, nel suo delirio, voleva che entrasse tutto a far parte della nuova Germania). Probabilmente ci sono ancora tesori nascosti sepolti sul fondo di laghi di mezza Europa.

E le istituzioni (fatte di singoli) sono colpevoli di dolo. Un esempio?

Per restituire opere d’arte confiscate durante la guerra, i competenti uffici chiedevano ai precedenti proprietari una descrizione particolareggiata dell’oggetto

(…) era attribuita una particolare importanza alle misure lineari precise – quasi che, prima di essere arrestati, la maggior parte degli ebrei si aggirasse per casa col metro pieghevole a misurare i quadri. Ciò consentì all’Austria ulteriori angherie: così non fu restituito un prezioso dipinto di Klimt – è ora esposto all’Albertina – perché le misure fornite dalla famiglia dei proprietari si discostavano di due centimetri e mezzo da quelle reali.

In generale, comunque

(…) nel caso degli oggetti d’arte “senza proprietario” solo una parte dei quadri fu rivendicata, perché soltanto una parte degli interessati ne era stata informata. I più bei dipinti della raccolta erano finiti nel frattempo nelle ambasciate e nei musei austriaci.

Complimenti a tutti, ma non dimentichiamocele, queste cosette.

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La porta proibita, Tiziano Terzani @illibraio

Nel 1984 Tiziano Terzani, che viveva in Cina con la famiglia già da quattro anni, è stato arrestato, interrogato, costretto a fare autocritica e infine espulso dal paese, con l’accusa di offesa al presidente Mao e di contrabbando di tesori nazionali.

Questo succede quando si dà fastidio a certi poteri, dicendo come stanno le cose: inventare accuse non è mai stato difficile, per certi poteri.

Leggendo il libro, mi sarei meravigliata se un governo autoritario non lo avesse espulso!

Il leit motiv di Terzani è che il comunismo, nella sua ansia di rinnovare l’uomo, ha distrutto il patrimonio culturale della Cina. Templi di immenso valore e bellezza, statue, lingue, minoranze…

Negli ultimi anni in cui il giornalista si trovava nel paese, sotto la direzione di Deng Xiaoping, il vento stava cambiando: ex guardie rosse che si accorgevano dello scempio si dichiaravano pentite, e si ricominciavano a ricostruire templi e palazzi in foggia antica; ma ormai mancavano sia i materiali originali (utilizzati per costruire palazzoni per gli operai) sia le abilità manuali.

Neanche il tempio Shaolin, culla delle arti marziali, era stato risparmiato ai tempi della rivoluzione culturale, e i monaci combattenti, di cui si tramandavano leggende e bravura, si erano lasciati disperdere dalle guardie rosse ed erano finiti a lavorare in qualche fabbrica di Pechino o Shanghai.

La successiva svolta di Xiaoping mirava a salvare la faccia e a far assomigliare la Cina a un paese che tiene alle proprie minoranze e… al turismo!

Questo libro dovrebbe diventare un testo scolastico sulla storia della Cina (anche perché tutti i testi scolastici sulla storia cinese sono stati distrutti…) ma è una lettura piacevolissima, anche se spesso ci fa indignare.

Leggendolo, ho scoperto che l’acqua a Lhasa, in Tibet, bolle a 86 gradi, con la conseguenza che non distrugge i batteri. Gli indigeni, i tibetani, ci sono abituati, ma non lo sono i cinesi (gli Han) che vengono inviati in loco per governare il paese. Se alle malattie intestinali aggiungiamo le difficoltà respiratorie (nonostante gli han abbiano piantato migliaia di alberi per rendere più respirabile l’aria a 4000 metri di altezza), si capisce perché Pechino debba pagare i suoi funzionari il 30% in più per convincerli a rimanere da quelle parti!

Ma il libro è pieno di informazioni a carattere storico e personale (non manca un capitolo scritto dai figli di Terzani sulla scuola cinese).

Leggerlo ti fa capire come una popolazione di un miliardo di esseri umani possa lasciarsi portar via la propria storia (anzi, spesso partecipando alla distruzione).

E mi convince ancora di più dell’importanza dello studio del passato: e se la scuola ce lo rende noioso, bisogna arrangiarsi.

Così come una persona che perdesse completamente la propria memoria perderebbe la propria identità, così succede ai popoli.

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Figlia del fiume, Hong Ying

Questa è l’autobiografia di una scrittrice e poetessa cinese, Hong Ying, nata sulle rive del fiume Yangtse nel 1962, proprio alla fine dei tre anni del “Grande Balzo”.

Il Grande Balzo, nella mente di Mao Zedong, doveva prendere la forma di un enorme progresso tecnologico che avrebbe portato la Cina al passo con gli altri paesi occidentali. Solo che si concluse con un fiasco: lo spostamento di fondi e manodopera dall’agricoltura all’industria fu una delle cause di una carestia senza pari. La gente moriva letteralmente di fame.

Hong Ying nasce in questo periodo. Il padre è un battelliere che ha problemi alla vista e ben presto resta cieco, perdendo il lavoro. La madre si arrangia come può per dar da mangiare ai sei figli. Hong Ying è la Numero Sei, e questo è il suo nome in famiglia.

Ma oltre alla fame, la futura scrittrice deve affrontare anche l’ostilità della famiglia, di cui non riesce a individuare le ragioni. Oltre al disprezzo delle sorelle e alla freddezza della madre, si trova davanti anche la derisione continua dei vicini di casa.

E’ come se tutti tranne lei conoscessero un segreto che le sta scritto in fronte.

A ciò si aggiunge che, da anni, un uomo la segue. Nell’ombra, senza rivelarsi né molestarla.

Posso fare un po’ di spoiler, tanto è difficile che riusciate ancora a trovare questo libro in giro;-)

Bè, l’uomo che la segue in realtà è suo padre. Lui e sua madre l’hanno concepita quando il marito di lei era all’ospedale, e lei non sapeva da che parte girarsi per mettere qualcosa in pancia ai figli.

E’ lo scandalo.

Nella Cina comunista il moralismo in materia sessuale non ha niente da invidiare ai più retrogradi ambienti cattolici. Ma il marito, una volta tornato dall’ospedale, decide che la moglie deve tenere il bambino.

Per evitare ulteriori conseguenze in famiglia, è costretto a denunciare l’amante della moglie. Al processo, questi viene giudicato colpevole di stupro (anche se tutti sanno che il rapporto era stato consenziente), condannato a non rivedere il figlio (la figlia) fino al compimento della sua maggiore età e a passare una somma mensile alla madre per il mantenimento.

Sembra un romanzo, vero?

E invece è vita vissuta.

Di questa autobiografia mi resterà in mente, al di là delle descrizioni della miseria e dei tentativi assurdi per trovare cibo, la mancanza di sentimenti positivi. Non c’è amore nella vita di Hong Ying, né da parte dei suoi, né da parte dell’insegnante di storia, col quale avrà una breve relazione (e che finirà per suicidarsi, così, tanto per mantenere allegra l’atmosfera).

Forse l’unico a cui la sua vita interessa è il suo vero padre, ma lei non gli permette di stringere un vero rapporto padre-figlia.

Il libro l’ho trovato in tedesco, dunque non ho potuto apprezzarne a pieno lo stile, tuttavia, da quel poco che ho captato, la Hong ha una scrittura asciutta ma densa, attenta ai particolari psicologici.

Se vi piace la Cina, vale la pena fare un po’ di fatica per cercare il libro in qualche negozietto di remainders.

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