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I ‘figli’ di Hitler (a cura di K. Ericsson, E. Simonsen)

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I figli nati da rapporti tra donne dei popoli occupati e soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale furono migliaia e migliaia.

Il Reich ebbe un atteggiamento ben definito nei loro confronti: bisognava tutelare solo quelli la cui madre era di razza superiore, e siccome consideravano di buona razza solo i popoli norvegesi, svedesi e di alcune zona francofone, solo a queste donne e ai loro figli furono garantiti (almeno in via di principio) sussidi e tutele.

Venne fondata un’organizzazione apposita, la Lebensborn (= fonte di vita) che si occupava di riconoscere e gestire i casi meritevoli di aiuti.

Lo scopo? Era sempre quello: arianizzare. Senza dimenticare il fatto che, soprattutto verso la fine della guerra, la Germania era rimasta a corto di soldati e che, già da anni, il tasso di nascite nel paese era molto basso. Dunque serviva sangue nuovo.

Ma come vivevano le donne e i bambini coinvolti?

Le donne venivano stigmatizzate: moltissime cercarono di tener nascosta la paternità del proprio figlio per evitare di venir ripudiate dalla famiglia di origine (il segreto spesso si protrasse per decenni).

Dopo la fine della guerra, vennero punite pubblicamente, in un modo o nell’altro (il taglio dei capelli era una delle punizioni più frequenti).

Una donna che avesse intrattenuto rapporti con un tedesco, un invasore, era comunque vista come una traditrice: non solo dell’eventuale marito, che magari era anche morto in guerra, ma soprattutto della patria. Il corpo delle donne era quasi considerato una proprietà nazionale, perché serviva a fornire cittadini. Non interessava a nessuno se quei rapporti fossero stati di amore o mercenari o semplici incontri casuali: chi frequentava il nemico era una “puttana dei tedeschi”.

Le madri si adattavano spesso a sposare uomini che si confacevano a questa loro condizione di svantaggio. Altre sembravano essere convinte di dover sopportare molto dai mariti in cambio dello status sociale che il matrimonio garantiva loro.

E i bambini?

I casi furono molto diversificati, a seconda del paese e della condizioni sociale delle parti coinvolte.

Nell’Europa dell’Est, i numeri sono ancora sconosciuti, perché il Reich si disinteressò di figli di “bassa qualità”. Ma anche nei paesi giudicati più meritevoli, come in Norvegia, dove questi figli erano considerati una ricchezza, i bambini vissero sempre in condizioni svantaggiate: non solo nel senso economico (anche se spesso venivano da ceti poveri), ma soprattutto in termini di stigmatizzazione sociale.

Quando conoscevano il proprio padre (e non erano molti casi, vista la tendenza delle madri e tener nascosti passati rapporti col “nemico”), avevano una vita dura sia a scuola che in famiglia. Anche quando non ci fu violenza fisica, i bambini si sentivano comunque diversi, figli di un paese che aveva causato massacri e sofferenze in tutta Europa.

Diversi furono gli atteggiamenti statali nei loro confronti: dargli la nazionalità o no? Mandarli in Germania (che era praticamente distrutta) o in Australia o dove?

A complicare le cose ci si mise pure la c.d. scienza: molti medici e psicologi erano dell’idea che le madri e i “figlia della guerra” fossero dei ritardati, confondendo spesso la condotta “morale” con la salute mentale.

Decine e decine di migliaia di casi.

C’è ancora gente in vita che non sa di avere avi tedeschi in famiglia.

 

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Dannati – Glenn Cooper

Sulle copertine dei libri, per correttezza, dovrebbero scrivere se l’opera che hai in mano è parte di una serie… Questo è infatti solo il primo volume di una trilogia che, nonostante mi sia piaciuto l’inizio, non so se leggerò fino alla fine.

L’idea di base è molto buona: a causa di un incidente in un laboratorio che studia le microparticelle, la scienziata Emily si ritrova in un mondo in cui sono tutti morti. Lei pensa subito all’Inferno, ma l’aspetto è quello di un ambiente retrogrado, con poco sole, punteggiato di capanne e alla mercé del più forte.

Non solo: quando Emily, davanti agli occhi di tutti, è scomparsa dal laboratorio, al suo posto è comparso (e subito scappato) uno degli abitanti di quel mondo sconosciuto, un pluriomicida che è necessario riprendere se si vuole far tornare la scienziata nel suo mondo.

Il ragazzo di Emily, John, ex berretto verde e capo della sicurezza, si fa mandare nell’altra dimensione per andare a prenderla, e lì, sia lei che lui incontrano vari personaggi del passato.

Perché all’inferno sono tutti morti, dunque non muore più nessuno: puoi trovarti davanti Stalin o un uomo di Neanderthal, Garibaldi o Cromwell… restano poco chiari i motivi per cui all’inferno si trovino, appunto, un patriota come Garibaldi, o altri personaggi meno conosciuti che sono, tutto sommato, buoni, nei confronti dei protagonisti.

Glenn Cooper, per spiegarlo, fa dire a qualche abitante che le regole dell’inferno non si possono conoscere, ma questo è un escamotage che fa perdere punti al libro.

Dunque l’idea di fondo è buona. E’ interessante anche l’interazione tra personaggi di diverse epoche storiche, o che si sono conosciuti in vita e i cui rapporti erano pessimi. Particolare anche l’idea delle camere di decomposizione (non vi dico a cosa servono, sennò spoilero).

La trama, però, a parte la buona idea iniziale, dopo un po’ decade, perché alla fine è sempre John che cerca Emily tra una guerra e l’altra, cercando di districarsi nelle battaglie e aiutando i locali a inventare nuove armi.

Inoltre, il mondo dell’inferno si rivela un mondo normale, solo più incattivito: ci sono ancora i re che lottano tra loro per dominare più paesi possibili, i libri e le arti sono merce rara e le donne sono vendute come schiave perché ne arrivano poche.

Infine, i personaggi sono molto stereotipati: i protagonisti sono sempre bellissimi e intelligentissimi. Se John ha qualche inclinazione per l’alcool, ormai il difetto è trattato in modo da sembrare quasi un lato simpatico del suo carattere… per il resto, John ed Emily sanno tutto: arti marziali, filosofia, scienza applicata, balistica, storia antica ecc.

Ciò non toglie piacevolezza alla lettura: in tre giorni l’ho finito!

Un appunto a Glenn Cooper: leggiti meglio Machiavelli. Quando John lo incontra e lo chiama sporco bastardo, mi son sentita offesa. Il suo era il punto di vista di un militare americano che si è limitato a leggere il bignami “Il principe”… ne deduco che, se lo vede sotto questa luce negativa, neanche Glenn Cooper l’ha letto per intero, e questo, per uno scrittore, è un grosso difetto.

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Giustizia, non vendetta – Simon Wiesenthal

Wiesenthal è salito alla ribalta col soprannome di “cacciatore di nazisti”. E’ un soprannome che evoca più avventura di quella che in realtà c’è stata: Wiesenthal era più un uomo spinto dalla voglia di dare giustizia a tutti i morti della Shoah, non era una spia che scivolava nei vicoli bui del Sudamerica in cerca di mozziconi di frasi tedesche. Il suo lavoro consisteva più che altro nella raccolta di informazioni, documenti, foto.

Avventurose, però, sono le vicissitudini di quelli che lo fuggivano (anche se i casi di chirurgia plastica sono stati, a detta di Wiesenthal, dei miti).

Le parti che mi hanno indignato di più, comunque, non sono state quelle in cui venivano descritte le ingiustizie sopportate nei campi di sterminio: sono i resoconti di tutti i colpevoli che sono sfuggiti alla giustizia.

Le fughe, nella stragrande maggioranza dei casi, erano favorite per motivi politici, e in questo gli alleati, così presi dalla guerra fredda, hanno avuto grandi responsabilità.

E poi, dove li mettiamo tutti gli assassini, diretti o indiretti, che hanno le competenze necessarie per mandare avanti gli apparati burocratici tedeschi e austriaci? Se li togliamo tutti dalla circolazione, c’è il blocco totale, soprattutto nelle scuole, in polizia e nella giustizia.

Ergo: li teniamo. Li mettiamo a capo di un’amministrazione, li promuoviamo presidi, giudizi, capi di polizia, procuratori ecc… L’Austria, paese in cui Wiesenthal viveva, si è comportata in modo particolarmente vergognoso (più vergognoso della Germania), cercando di screditarlo e di mettergli i bastoni tra le ruote ad ogni passo.

Una cosa ci tiene a sottolineare Wiesenthal: non esistono le colpe collettive. Non è la Germania in blocco ad aver ammazzato milioni di ebrei e zingari. Sono stati i singoli, che hanno preso singole scelte.

E lo stesso vale per i miliardi rubati: soldi, pietre preziose, oggetti d’arte… non era Hitler a ordinare ai singoli gerarchi di intascarsi una parte (consistente, molto consistente) dei valori che confiscavano (Hitler, nel suo delirio, voleva che entrasse tutto a far parte della nuova Germania). Probabilmente ci sono ancora tesori nascosti sepolti sul fondo di laghi di mezza Europa.

E le istituzioni (fatte di singoli) sono colpevoli di dolo. Un esempio?

Per restituire opere d’arte confiscate durante la guerra, i competenti uffici chiedevano ai precedenti proprietari una descrizione particolareggiata dell’oggetto

(…) era attribuita una particolare importanza alle misure lineari precise – quasi che, prima di essere arrestati, la maggior parte degli ebrei si aggirasse per casa col metro pieghevole a misurare i quadri. Ciò consentì all’Austria ulteriori angherie: così non fu restituito un prezioso dipinto di Klimt – è ora esposto all’Albertina – perché le misure fornite dalla famiglia dei proprietari si discostavano di due centimetri e mezzo da quelle reali.

In generale, comunque

(…) nel caso degli oggetti d’arte “senza proprietario” solo una parte dei quadri fu rivendicata, perché soltanto una parte degli interessati ne era stata informata. I più bei dipinti della raccolta erano finiti nel frattempo nelle ambasciate e nei musei austriaci.

Complimenti a tutti, ma non dimentichiamocele, queste cosette.

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