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Donne che mangiano troppo, Renate Gockel @FeltrinelliEd

Parliamo di bulimia. L’autrice è una psicologa e affronta l’argomento tramite la storia di una sua paziente, Anna, che è significativa perché presenta quasi tutti i sintomi di questa malattia.

Intanto, Anna non è visibilmente grassa: questo perché, dopo essersi lasciata andare e aver mangiato dolci e dolcetti, di solito va a vomitare. Anna ricorre al cibo ogni volta che si sente tesa, attaccata, in ansia.

A far scattare l’attacco di fame può essere semplicemente un invito, un commento apparentemente banale di un collega, o un eccesso di lavoro a cui non riesce a dire di no.

Anna ci tiene tantissimo a dare un’immagine perfetta di sé: brava moglie, brava insegnante, brava figlia… cerca continuamente di corrispondere alle aspettative altrui (o a quelle che lei crede siano le aspettative altrui).

Anna ha sempre obiettivi da raggiungere, e il suo motto è “prima il dovere e poi il piacere”. Per lei è inconcepibile venir amata senza dare qualcosa in cambio, solo per quello che è.

Anna ragiona in termini di aut-aut: o tutto o niente, non c’è mai una terza via, ci sono solo due estremi che si escludono a vicenda.

La psicologa affronta la sua malattia attraverso il training autogeno e gli esercizi di visualizzazione.

Alla fine del libro, Anna guarisce?

No.

Da malattie del genere non si guarisce mai del tutto: quello che è importante è prendere coscienza delle ragioni che stanno sotto agli attacchi di fame (di solito legate a un rapporto sbilanciato con la propria madre).

La cosa interessante è che quando Anna incomincia ad accorgersi di come è remissiva e sottomessa, incomincia a cambiare atteggiamento, e le persone che la circondano, che fino a quel momento non si sono lamentate, all’improvviso iniziano a storcere il naso.

E’ bello leggere un libro su una disfunzione psicologica e accorgersi di non rientrare nello schema… 🙂

L’approccio del saggio, però, è un po’ psicanalitico: è il passato a determinare il presente. Leggere un’opera del genere ti fa pensare che sotto a qualunque gesto o sentimento ci sia sempre una ragione recondita nel nostro inconscio. Nessuna vera spontaneità.

E’ davvero così?

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Di bene in peggio – Paul Watzlawick @Feltrinellied

Siete “in cerca di garanzie, di certezze, di realizzazione e di conseguente, definitiva felicità”?

Allora, probabilmente, siete dei costruttori di ipersoluzioni, ovverosia, soluzioni le cui conseguenze sono altrettanto nefaste dei problemi che vogliono risolvere.

Cercate un assoluto? Il senso della vita? Allora probabilmente, a forza di pensarci, cadrete nell’inerzia.

Credete che se una cosa è buona, allora aumentandone la quantità riuscirete ad aumentare anche la sua qualità? Allora siete caduti in una fata morgana.

Siete convinti che il contrario del male sia sempre il bene? Che non esista una terza via? Siete convinti di sapere sempre cosa pensa chi avete di fronte? Che chi è in possesso della verità debba trasmetterla agli ignari, se necessario, anche contro la loro volontà?

Beh, allora ricordatevi, quando sarete convinti di aver trovato l’ipersoluzione che fa per voi, che il grande è celato nel piccolo.

Non è un manuale, questo: nessun suggerimento concreto. Solo un ragionamento al contrario, con molta, molta ironia, che ci fa capire come siamo bravi a rovinarci la vita.

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Cicerone guardava la TV?

Se ad ogni ora siamo costretti ad assistere ad avvenimenti raccapriccianti, alla fine noi tutti, anche coloro che per natura sono più sensibili, a causa del costante susseguirsi di dolorose impressioni, perdiamo ogni sentimento per l’umanità.

Cicerone (da “Di bene in peggio”, P. Watzlawick)

 

Io già sono insensibile di mio… se avessi pure la TV in casa, uscirei a sgozzare tutti quelli che parcheggiano di traverso nei parcheggi.

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Hotel Shanghai – Vicki Baum

Vicki Baum è una di quelle scrittrici del Novecento che andrebbero tirate fuori dagli scaffali (difficile anche trovare recensioni online su questo libro).

Nata nel 1888 a Vienna da una famiglia facoltosa, studia musica, ma i suoi anni giovanili sono segnati dalla lunga malattia della madre. Quando quest’ultima muore, la Baum sposa un giornalista, da cui divorzia poco dopo; diventa battista e si sposta con un direttore d’orchestra. Naturalizzata americana nel 1938, ha iniziato da quell’anno a scrivere in inglese.

Muore in California nel 1961.

Non è il suo unico romanzo di genere “alberghiero”. Gli hotel le danno la possibilità di presentare più personaggi diversi e di vedere come si comportano quando si incontrano.

E’ quello che è successo in questo libro, ambientato a Shanghai nel 1937, appena prima dell’attacco giapponese (o cinese? Resta il dubbio).

I personaggi sono molti e di provenienza diversa.

Il dottor Yutsin è un cinese idealista e comunista, figlio di un ex coolie, ora diventato un ricchissimo banchiere. Ha sposato una straniera che non può dargli figli e il padre lo costringe (ma neanche insistendo tanto) a prendersi una bellissima concubina.

Il Dottor Hain, invece, è un ebreo tedesco scappato dal proprio paese a causa della persecuzione nazista: vive nella speranza di riunirsi alla moglie Irene, ma qualcosa andrà storto…

Helen e Bertrand Russell, marito e moglie: lei bellissima ed elegante. Lui ricchissimo, imparentato con politici influenti, ma razzista, alcolizzato e violento. Ho capito dopo un pezzo, praticamente alla fine del romanzo, che non si trattava del filosofo Bertrand Russell… (eh, non sono tanto sveglia, lo so, ma per praticamente 700 pagine non ho fatto altro che cercare online, senza trovarle, informazioni sul vero Bertrand Russell e questa intrigante moglie).

Helen Russell inizia una relazione con l’americano Frank Taylor, che sta aspettando la fidanzata. Salta fuori che questa Helen in realtà è russa e ha avuto un passato turbolento a Parigi, sempre alla ricerca di un marito facoltoso che la mantenesse come una regina.

C’è Yen, un coolie poverissimo, oppiomane e sempre indebitato, che si indebita ulteriormente per far bella figura col figlioletto che sta per arrivare a Shanghai.

E c’è Yoshio Murata, giornalista giapponese con una penna più letteraria che giornalistica. I giapponesi non sono certo i benvenuti, dopo che hanno occupato la Manciuria e riempito i mari cinesi di navi da guerra… Murata viene incaricato di un compito delicato che lo fa scivolare nello spionaggio.

Tutti i personaggi ruotano attorno all’hotel Shanghai, situato nella zona internazionale: zona che, a dire di tutti, non sarà bersagliata dalle bombe giapponesi.

Ho iniziato il libro il 27 aprile del 2003 e l’ho finito oggi, 9 agosto 2019. Credo sia il libro che mi ha richiesto più tempo e più interruzioni, complice anche la lingua francese, che non è la mia preferita; tuttavia, una volta entrati nelle storie di ognuno dei personaggi, ci si lascia trascinare.

E mi è rimasta ancora voglia di leggere libri ambientati in Cina.

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Giustizia, non vendetta – Simon Wiesenthal

Wiesenthal è salito alla ribalta col soprannome di “cacciatore di nazisti”. E’ un soprannome che evoca più avventura di quella che in realtà c’è stata: Wiesenthal era più un uomo spinto dalla voglia di dare giustizia a tutti i morti della Shoah, non era una spia che scivolava nei vicoli bui del Sudamerica in cerca di mozziconi di frasi tedesche. Il suo lavoro consisteva più che altro nella raccolta di informazioni, documenti, foto.

Avventurose, però, sono le vicissitudini di quelli che lo fuggivano (anche se i casi di chirurgia plastica sono stati, a detta di Wiesenthal, dei miti).

Le parti che mi hanno indignato di più, comunque, non sono state quelle in cui venivano descritte le ingiustizie sopportate nei campi di sterminio: sono i resoconti di tutti i colpevoli che sono sfuggiti alla giustizia.

Le fughe, nella stragrande maggioranza dei casi, erano favorite per motivi politici, e in questo gli alleati, così presi dalla guerra fredda, hanno avuto grandi responsabilità.

E poi, dove li mettiamo tutti gli assassini, diretti o indiretti, che hanno le competenze necessarie per mandare avanti gli apparati burocratici tedeschi e austriaci? Se li togliamo tutti dalla circolazione, c’è il blocco totale, soprattutto nelle scuole, in polizia e nella giustizia.

Ergo: li teniamo. Li mettiamo a capo di un’amministrazione, li promuoviamo presidi, giudizi, capi di polizia, procuratori ecc… L’Austria, paese in cui Wiesenthal viveva, si è comportata in modo particolarmente vergognoso (più vergognoso della Germania), cercando di screditarlo e di mettergli i bastoni tra le ruote ad ogni passo.

Una cosa ci tiene a sottolineare Wiesenthal: non esistono le colpe collettive. Non è la Germania in blocco ad aver ammazzato milioni di ebrei e zingari. Sono stati i singoli, che hanno preso singole scelte.

E lo stesso vale per i miliardi rubati: soldi, pietre preziose, oggetti d’arte… non era Hitler a ordinare ai singoli gerarchi di intascarsi una parte (consistente, molto consistente) dei valori che confiscavano (Hitler, nel suo delirio, voleva che entrasse tutto a far parte della nuova Germania). Probabilmente ci sono ancora tesori nascosti sepolti sul fondo di laghi di mezza Europa.

E le istituzioni (fatte di singoli) sono colpevoli di dolo. Un esempio?

Per restituire opere d’arte confiscate durante la guerra, i competenti uffici chiedevano ai precedenti proprietari una descrizione particolareggiata dell’oggetto

(…) era attribuita una particolare importanza alle misure lineari precise – quasi che, prima di essere arrestati, la maggior parte degli ebrei si aggirasse per casa col metro pieghevole a misurare i quadri. Ciò consentì all’Austria ulteriori angherie: così non fu restituito un prezioso dipinto di Klimt – è ora esposto all’Albertina – perché le misure fornite dalla famiglia dei proprietari si discostavano di due centimetri e mezzo da quelle reali.

In generale, comunque

(…) nel caso degli oggetti d’arte “senza proprietario” solo una parte dei quadri fu rivendicata, perché soltanto una parte degli interessati ne era stata informata. I più bei dipinti della raccolta erano finiti nel frattempo nelle ambasciate e nei musei austriaci.

Complimenti a tutti, ma non dimentichiamocele, queste cosette.

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UN GENITORE QUASI PERFETTO – Bruno Bettelheim

Sono quasi 600 pagine, ma scritte in modo molto amichevole e, soprattutto, senza tecnicismi ne’ estremismi: solo buon senso! Lo consiglio a tutti i genitori (anche ai papà, che di solito sono meno portati alla lettura di testi del genere).

Il principio è che per essere genitori passabili (la ricerca della perfezione in questo campo rischia di fare più male che bene) bisogna avere fiducia nella propria capacità e nelle capacità (mentali ed emotive) del proprio figlio. Non guasta inoltre una certa capacità di immedesimazione nei panni dei bambini, per quanto possa essere difficile ricordare come ci sentivamo trenta o quarant’anni fa.

Il succo è sempre quello: inutile fare grandi discorsi, perché i figli sono più impressionati dalle emozioni provate dal genitore che dalle sue intenzioni coscienti; e anche se non sanno verbalizzare, captano le nostre insicurezze meglio di un radar. Dunque… prima di fare un figlio: tutti dallo psicologo!!

Scherzo. Ma non tanto.

Il libro è diviso in capitoli per argomento. Ho trovato particolarmente interessante quello che riguarda le punizioni, perché spiega nel dettaglio perché sono inutili e come possono diventare controproducenti.

Inoltre, bisogna stare attentissimi alle critiche:

(…) muovendo delle critiche a un bambino, nonché imponendogli quello che deve fare, si riduce il suo rispetto di sé perché si richiama la sua attenzione sulle sue carenze. Allora, anche se ubbidisce, in realtà non ha imparato nulla di utile, perché non viene incoraggiata la formazione di una personalità autonoma.

E pensare che anche oggi non mi rivolge la parola se non per criticare qualcosa!

Il fatto è che invece di sgridare i figli o di imporgli di smettere quello che stanno facendo, bisogna spiegargli il PERCHE’. Dunque, se al supermercato il piccolo tocca tutto, col rischio di far cadere la montagna di lattine o i vasetti di vetro dei sottaceti, non basta dirgli “non toccare!”, bisogna farlo ragionare su come ci sentiamo quando lui si comporta così, o su quello che può pensare il proprietario del supermercato se lo vede toccare i suoi prodotti in quel modo.

Infine, tra le tante dritte che questo libro può dare (raccomando anche il capitolo incentrato sulla scolarità), vi lascio questa:

Le biografie dei grandi uomini del passato sono piene di riferimenti alle lunghe ore trascorse da giovinetti in riva al fiume immersi nei propri pensieri, o a vagare per i boschi in compagnia del cane fedele a sognare i propri sogni. (…) Nelle classi borghesi, la giornata di ogni bambino è densa di attività organizzate: riunioni dei boy scout o delle guide, lezioni di musica o di danza, attività sportive; questi bambini quasi non hanno il tempo per esser semplicemente se stessi.

In fondo lo diceva Goethe: il genio si nutre nella solitudine. Mi immedesimo in queste frasi: perché mio figlio raramente ha delle ore totalmente vuote. Col risultato che quando gli capita, viene da me e mi chiede: Mamma, che faccio??

La prossima volta gli risponderò: vai nel bosco a fantasticare.

 

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Questi bambini!

O non dovremmo piuttosto dire… Questi adulti!? E mi ci metto io per prima. Educare e’ difficile perché bisogna dare l’esempio giusto, non perché bisogna parlare nel modo giusto.

Da “Un genitore quasi perfetto” di Bruno Bettelheim:

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