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L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Walter Benjamin

Trentotto pagine che ti fanno riflettere.

Siamo abituati a pensare all’arte come qualcosa dotata di AURA, di un misterioso alone luminoso, che non è in realtà niente altro che UNICITA‘. Non bisogna invece confondere la sua unicità con la sua irriproducibilità.

Perché le opere d’arte, fin dall’inizio, sono sempre state riproducibili: si pensi alle gazzelle disegnate sulle pareti delle grotte preistoriche, o ai dipinti degli allievi che ripetevano fino allo sfinimento i quadri e le tecniche dei loro maestri.

Certo, una cosa è la riproducibilità manuale, e un’altra cosa è la riproducibilità tecnica.

Quanto influisce il mezzo di riproduzione sull’aura? Una sinfonia di Beethoven ascoltata nel 2019 attraverso un MP4 perde la sua aura per il fatto che è riprodotta a secoli di distanza dalla morte del suo artista?

Benjamin non dà risposte: non potrebbe, visto che la tecnica è sempre in evoluzione e non si arriva mai ad un punto fermo. Però ci fa riflettere.

La riproducibilità tecnica, ad esempio, è stata sfruttata per portare l’arte alle masse. Una volta non era così: l’arte veniva presentata a un pubblico scelto, e la fruibilità era mediata dall’alto, gerarchicamente (si pensi all’esposizione di quadri nelle chiese e nei monasteri), allo scopo di controllare la reazione del fruitore.

Oggi l’arte si presenta alle masse: è diventata trasportabile e riproducibile. Questo riduce la possibilità di influire sulla reazione del pubblico, spesso culturalmente impreparato o semplicemente distratto, ma oggi verrebbe considerato come un aspetto positivo, democratico.

Un’altra conseguenza della riproducibilità tecnica è la scomparsa dell’elemento rituale.

L’arte è nata come un rituale magico (e poi religioso), ma il rito non è più necessario quando l’arte viene riprodotta: viene meno il luogo e vengono meno le formule che prima erano elemento transustanziale dell’oggetto artistico.

Oggi l’arte ha un valore di esponibilità che è superiore a quello cultuale.

Il breve saggio finisce con una postilla sul confronto tra fascismo e comunismo dal punto di vista del loro atteggiamento verso l’arte.

Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti).

Quando ho letto questa frase mi sono subito venuti in mente i social, in cui tutti si sfogano senza (quasi) mai combinare niente.

La guerra, e la guerra soltanto, rende possibile fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà.

Un testo che dovevo leggere.

Così stanno le cose riguardo all’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte.

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La misura del mondo – Daniel Kehlmann

Di solito non mi piacciono i libri ironici, ma stavolta mi sono divertita col romanzo sulle vite dei due scienziati Von Humboldt e Gauss.

Von Humboldt fondò la geografia moderna: di buona famiglia, viaggiò per il mondo, soprattutto nell’allora poco conosciuta America del Sud (siamo alla fine del Settecento), rischiando spesso la vita e trascinandosi dietro un assistente che lo seguì, docile, per anni tra caverne e montagne, vulcani e foreste vergini, veleni, cannibali e allucinazioni.

Humboldt aveva esaminato tutto quanto non avesse piedi e paura a sufficienza per scappare davanti a lui.

Gauss, invece, era di famiglia più modesta. Odiava spostarsi e viaggiare, adorava la madre e le donne. Era un genio: il suo cervello funzionava decisamente in modo diverso dagli altri, tanto che per lui tutti quanti erano troppo… lenti!

Lui e Von Humboldt non si conobbero da giovani, ma fin da giovani sentirono parlare l’uno dell’altro, fino a incontrarsi a Berlino nel 1828 per un congresso scientifico.

Entrambi erano ossessionati dalle proprie passioni, entrambi misuravano e misuravano tutto ciò che capitava sotto i loro occhi: dall’altezza delle colline al magnetismo, dalla larghezza dei fiumi alla lunghezza… delle rette.

Entrambi, dentro di sé, vedevano il futuro: erano capaci di immaginare qualcosa che ancora non c’era, e, se da un lato si rammaricavano di non poter far parte di quel futuro, dall’altro erano orgogliosi per il contributo che davano alla sua costruzione.

Ed entrambi, alla fine della propria vita restano perplessi dell’immensità del lavoro che ancora c’era da fare.

Le scene più umoristiche sono quelle in cui traspare, per entrambi, la totale indifferenza alle piccole magagne quotidiane che al resto dell’umanità sembrano problemi universali: una nave che fa naufragio, una moglie che partorisce, un Bonaparte che mette a ferro e fuoco l’Europa, un ricevimento a cui partecipano re e duchi, sono, per i due scienziati, elementi irrilevanti, se non, addirittura, seccature che si frappongono tra loro e i loro ragionamenti.

Voto: 3 stelle su 5.

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Balzac (Stefan Zweig)

Cento, duecento, trecento pagine: leggendo un libro, dimentichi il mondo reale ed entri in un mondo che non esiste per tre, quattro ore, e poi, con l’ultima riga, saluti con la manina e te ne vai, senza un minimo di riconoscenza.

E’ questo che facciamo di solito: sfruttiamo le capacità evocative e la potenza emotiva di un’opera per sentirci meglio, per diventare migliori (forse), e ci dimentichiamo totalmente di chi ha passato ore, giorni, mesi, anni a buttar giù riga dopo riga quell’opera, come se ci fosse tutto dovuto, come se la vita di uno scrittore fosse un accessorio della nostra.

Molti sostengono che un romanzo debba essere considerato un oggetto separato dal proprio creatore, e che le biografie degli autori non ci diano nulla di più di quello che le loro opera già ci offrono.

Io non sono d’accordo.

Quando leggo un’opera (soprattutto se è una grande opera) voglio capire chi era chi l’ha scritta e come ha fatto a diventare così bravo: cosa l’ha ispirato, impaurito, costretto.

Balzac è stato uno dei più importanti scrittori francesi; un genio letterario, secondo molti. Ma la genialità ha sempre il suo prezzo.

Balzac inizia a pagarlo appena nato: sua madre, semplicemente, non è interessata. Lo dà subito a balia, e poi lo affida a un contadino fino all’adolescenza, così, per non averlo tra i piedi. Balzac, nei suoi primi anni di vita, trascorre nella casa genitoriale sì e no qualche settimana.

Lui rimane un bambino timido e ubbidiente fino ai primi vent’anni quando, deciso a intraprendere la carriera letteraria, abbandona gli studi.

Brivido, terrore e raccapriccio: la famiglia, di solide basi borghesi, aborrisce fin da subito questa decisione balzana, ma, davanti alla testardaggine del giovanotto, accondiscende a mantenerlo (con molta parsimonia) per due anni, dandogli la possibilità, alla scadenza, di sfondare nell’empireo o di tornare con la coda tra le gambe a fare il notaio per tutta la vita.

Balzac, fino a quel momento, non ha mai scritto nulla.

E’ questo il bello: per la prima volta in vita sua si mette tutti contro perché si è incaponito a vivere di letteratura, ma non ha mai scritto poesie, né saggi né romanzi. E il primo giorno che si ritrova nel misero appartamento che sarà il suo rifugio sui tetti di Parigi, la sua prima domanda davanti a una risma di carta nuova di zecca è: e adesso che scrivo?

In un lampo di lucidità, si mette a studiare il mercato. Cosa si vende?

Così inizia a scrivere quello che vuole il mercato: romanzetti rosa, d’avventura, storici, ma anche saggi e opuscoletti, sul tipo di quello che potrebbe essere un odierno “come sposare un milionario”.

Scrive come un matto, di notte, con un ritmo che farebbe impallidire un Charlot alla catena di montaggio. Spesso fa il “negro”, scrive per altri, fa il ghost-writer. Scrive anche schifezze, sì: la priorità è guadagnare, stare sulle proprie gambe, liberarsi dall’influenza della famiglia, e poi, diventare ricco e famoso.

La massa di roba che Balzac ha scritto e pubblicato nei due anni 1830 e 1831, appena il suo nome comincia ad aver risonanza – novelle, romanzi brevi, articoli di giornali, storielle, considerazioni politiche – rimane senza esempio negli annali della letteratura.

E la sua vita sociale?

Per anni non riesce ad averne, a causa della mole di lavoro che tutto inghiotte.

Quando si mette in testa di doversi sposare (con una vedova, piacente e non stupida, non necessariamente troppo giovane ma, quel che importa, molto ricca) incarica addirittura la sorella di cercargli la donna giusta.

Avrà le sue avventure, negli anni (i figli illegittimi dovrebbero essere tre, forse più), ma finirà per sposare, poco prima di morire, la ricchissima contessa Hanska che, mentre lui è moribondo nella nuova casa coniugale, fa shopping e chiacchiera con la figlia di pizzi, merletti e gioielli.

Balzac è stato un vulcano di inventiva e un genio letterario ma… è stato felice?

Innanzitutto, sebbene ad un certo punto abbia iniziato a far molti soldi con la sua penna, è sempre stato perseguitato dai creditori: gli episodi comici nati dal bisogno di sfuggire a panettieri e sarti, non si contano. E’ arrivato al travestimento, alle porticine nascoste, ai nomi falsi sui contratti di affitto. Dire che aveva le mani bucate era un eufemismo.

E poi, riesce a infilarsi in una sfilza di guai dopo l’altra: fa fallire una stamperia, intenta un processo contro l’editore più importante della Francia (quello che oggi sarebbe un opinion-leader), fa fallire un giornale, gli prende fuoco un’officina, si fa otto giorni di prigione perché non vuol prestare servizio nella guardia nazionale, si fa infinocchiare in un affare di miniere in Sardegna, prende un granchio con la costruzione di una mega villa in campagna e fa un buco nell’acqua col teatro.

Insomma: una vita in affanno.

Una persona costantemente in corsa, in cerca di qualcosa che non riesce mai a trovare: ammirazione, supporto, simpatia, gloria, pace.

Amore.

Se la fine di un romanzo ce ne esplicita il senso, la fine di Balzac ci rivela che le velleità umane sono evanescenti come la polvere.

E, chiudendo questa biografia, un grazie lo dobbiamo anche a Stefan Zweig che, raccontandoci di Balzac, ci mette in guardia da noi stessi.

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Scoprire l’assassino…? @LibriCorbaccio

Ho sempre invidiato i lettori che dicono frasi del tipo “ho scoperto l’assassino già quando ero a pagina 4”. Io, se non me lo dice l’autore, l’assassino non lo scopro mai!

In realtà non sono neanche una grande fan dei polizieschi: li leggo più per la loro ambientazione che per la voglia di mettere in gioco le mie capacità divinatorie. Questa volta, ad esempio, avevo voglia di stare per un po’ sulle coste inglesi: pioggia, rocce, pecore, fattorie isolate.

NOBODY – CHARLOTTE LINK

Nobody in realtà si chiama Brian: è un bambino rimasto completamente solo al mondo e durante i bombardamenti tedeschi su Londra, nella confusione materiale e burocratica, si attacca, letteralmente, a Fiona, una bambina spedita in campagna per sottrarla al pericolo (piccola digressione: il trasferimento dei bambini nelle campagne è stata un’operazione ad ampio raggio, organizzata dal governo, per preservare le giovani generazioni: lode agli inglesi).

Ma Brian ha enormi difficoltà intellettuali: fa fatica a parlare e non capisce quello che gli viene detto. Fiona non lo sopporta: ha altri problemi per la testa. Idem per Chad, il ragazzo di cui lei si innamora, e che sogna di andare a combattere Hitler sul continente.

Questo succede negli anni Quaranta.

2008, stessi luoghi: Fiona e Chad sono ormai anziani. Lui è misantropo, lei è inacidita. E in paese avviene un omicidio. Una giovane viene barbaramente uccisa.

Pochi mesi dopo, anche Fiona viene uccisa con modalità apparentemente simili.

Ci sono molti personaggi, nel libro, ognuno col suo bagaglio di passato malato: perché non c’è nessuno che si salvi (come al solito, dovrei dire, nei romanzi polizieschi). Tutti hanno qualcosa da nascondere: è un aspetto che trovo sempre poco realista, nei gialli. La gente non è così: ad un certo punto, se non altro per stanchezza, la verità la devi dire.

Ma vabbè… non mi dispiace leggere del divorzio di Leslie, la nipote di Fiona; soprattutto non mi dispiace leggere di Gwen, l’insignificante figlia di Chad: ai limiti della bruttezza, non ha nessun tipo di formazione, né interesse, né capacità. Eppure, riesce a fidanzarsi col misterioso (e spiantato) Dave, bello e colto. Si capisce subito che lui è interessato solo alla sua fattoria…

Ecco: Gwen è un personaggio realista (salvo le ultime tre pagine). Tante donne sono un po’ Gwen… Se leggerete il libro, capirete. Perché attorno a lei gira anche tutta la storia: attorno alla sua insignificanza, ma anche alla scarsa volontà di aiutarla di chi le sta attorno. In fondo, non ci interessiamo mai davvero a certe persone.

Comunque, torniamo al libro: si legge in un battibaleno. Nonostante la predisposizione anglosassone agli alcolici (ma cavolo, sono tutti che bevono o che pensano a bere…), i dialoghi standardizzati (anche il pecoraio, con tutto il rispetto, parla come un libro stampato) e l’inverosimiglianza di un diario virtuale inviato via mail da una settantenne a un ottantenne, io l’ho letto volentieri.

Si legge in un battibaleno perché comunque la Link conosce le tecniche narrative, bisogna dargliene atto, e le si perdonano anche le ripetizioni e le prevedibilità.

Leggetelo, quest’estate. E ricordatevi: siamo tutte un po’ Gwen.


PS: forse ho comunque scoperto un modo per capire chi è l’assassino. Nei libri come questo, dove il punto di vista cambia da un personaggio all’altro, se fate attenzione, ci sono sempre uno o due personaggi il cui punto di vista non viene mai espresso… bum!

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115 idee per vivere meglio – Vera Birkenbihl (audiolibro)

Sono incappata in Vera Birkenbihl l’anno scorso, cercando dei suggerimenti per lo studio delle lingue. Nei paesi tedescofoni è molto conosciuta per aver suddiviso il processo in quattro fasi (decodificazione – ascolto attivo – ascolto passivo – attività), permettendo agli studenti di imparare con molta meno fatica e in modo naturale.

Solo ieri ho scoperto questo audiolibro che esula dall’insegnamento delle lingue in senso stretto.

Non sono riuscita a trovarlo in Italiano: nel nostro paese la Birkenbihl è poco conosciuta; ho visto solo un suo libro edito dalla Franco Angeli, che però verte sul linguaggio del corpo. Tuttavia, per chi conosce il tedesco, l’audio è comprensibile, non troppo veloce e si capisce (io non sono assolutamente bilingue!!).

L’audiolibro è composto da 115 domande e risposte. Tutto è molto pratico.

Ad esempio:

Come affronto una persona collerica?

Risposta: non lo fai. La collera ha spesso radici nel passato della persona, radici di cui la persona stessa non è consapevole. Se la affronti di petto, non farà altro che prenderti come bersaglio per lo sfogo.

Oppure:

Come ti rivolgi ai tuoi colleghi?

La scelta delle parole che designano i tuoi colleghi/sottoposti/superiori è spesso una profezia che si autoavvera. La Birkenbihl porta un esempio di una ditta di trasporti americana (l’esempio è tratto in realtà da un’opera di Tony Robbins), dove gli errori costituivano un’elevata percentuale dei costi a fine anno.

La soluzione è stata quella di chiamare gli autisti “esperti logistici”.

Nel primo periodo, gli stessi autisti si sono presi un po’ in giro per l’appellativo un po’ altisonante; tuttavia, dopo un mesetto, hanno cominciato a comportarsi davvero come “esperti logistici” e la percentuale di errori è crollata, riducendo di molto i costi.

Ancora:

Come si gestiscono i reclami dei clienti?

La risposta è lunga per riportarla qui, ma i primi due passi sono: ascolta bene e ascolta tutto. Chiedi cosa puoi fare per aiutarlo, e se non riesci a soddisfarlo come vorrebbe lui, allora cerca un compromesso. L’importante è fargli sentire che ti sei preso carico del problema, perché non c’è niente di peggio per un cliente arrabbiato di essere anche… ignorato, o ascoltato solo per finta.

Quello che la Birkenbihl sottolinea è che il cliente insoddisfatto della qualità del prodotto o del servizio non riterrà colpevole l’azienda o il reparto: ma se la prenderà con te. Per il cervello è più facile individualizzare le colpe: il cervello preferisce ragionare su individui, non su collettività.

Questo, da impiegata che si occupa della qualità in un’azienda, ve lo posso garantire: al cliente non frega niente delle politiche aziendali, delle vacanze italiane o delle tue malattie. Se non gli rispondi in modo soddisfacente, qualunque sia la motivazione, darà la colpa a te.

Certo, la Birkenbihl dà anche un altro consiglio: se ti accorgi che la pressione per le lamentele dei clienti è troppo elevata, chiediti se sei nell’azienda giusta. Domanda scomoda…

Gli argomenti affrontati in questo audiolibro spaziano molto (sono solo alla domanda 30, ne ho ancora 85 da ascoltare). Per esempio: cosa fai quando ti accorgi che una persona si… fissa? Sarà capitato anche a te: sei in mezzo a una riunione o a un pranzo di famiglia, e ti fissi su un punto nel vuoto, senza pensare a nulla.

Cosa fare? Niente. Questi momenti di “fissazione” sono messaggi del corpo: ci sta dicendo che abbiamo bisogno di staccare un attimo; sono momenti in cui davvero non si pensa a nulla e il cervello entra in una modalità simile a quella della meditazione. Forse siamo sottoposti a troppo stress, forse il pranzo è orribile ma non possiamo dirlo, forse percepisci che è inutile parlare durante la riunione perché le tue parole sarebbero travisate o rifiutate. Allora, prendiamo atto di questo bisogno, nostro o altrui.

Un altro suggerimento (non me li sono scritti, li riporto così come me li ricordo) è di sorridere quando si è arrabbiati o nervosi: il fatto stesso di sorridere, di portare in su gli angoli della bocca, causa una pressione su dei nervi che interagiscono col cervello per immettere nel corpo alcuni ormoni della positività e questo abbassa i livelli del cortisolo, l’ormone dello stress.

E ancora:

Come fare per impedire che i pensieri negativi ci tolgano il sonno di notte?

Risposta: il cervello non ubbidisce se gli dici di non pensare a qualcosa. Se gli dici di non pensare al colore rosso, inizia a pensare al colore rosso. L’unico modo è sostituire i pensieri negativi con altri positivi, con ricordi di bei momenti.

Infine, vi riporto un aneddoto che mi ha fatto riflettere.

In India, gli elefanti adulti non vengono lasciati in gabbie o legati con catene. Se l’uomo deve allontanarsi un attimo, li lega con una sottile fune a una canna di bambù, e loro stanno fermi. Perché non scappano?

Perché da piccoli venivano legati con delle catene a dei grossi alberi. Col tempo, imparano a restare fermi anche con una lieve sensazione di… legamento. Solo il fuoco li può far scappare strappando corda e canna di bambù.

Spesso le persone si comportano come gli elefanti: le catene sono diventate fili di lana e i baobab sono solo fili d’erba, però continuiamo a star fermi, bloccati.

Non è una bellissima similitudine?

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Cleopatra – Joachim Brambach

Sapete perché ogni tanto leggo libri storici? Per ricordarmi che gli esseri umani sono sempre gli stessi, e dunque è inutile arrabbiarsi quando qualcuno cerca di passarti sopra come un TIR.

Sapete perché non leggo libro storici troppo spesso? Perché mi ci arrabbio lo stesso…

Guardiamo i giorni nostri: se i parenti non si avvelenano e strozzano e pugnalano fra loro come facevano i Tolomei, è solo perché non sono Tolomei, e non godono di alte probabilità di farla franca. Molti assassinii non vengono perpetrati solo per paura della punizione, non per remore morali. Per noi è più facile togliere la parola a uno zio per via di un’eredità o rovinare la reputazione di un amico parlandone male alle spalle.

Gli ammazzamenti di figli, genitori, fratelli non sono prerogative dei monarchi orientali: anche noi abbiamo avuto i nostri. E’ stato Ottaviano a uccidere Cesarione, il figlio di Cesare e Cleopatra, e Ottaviano (l’Augusto) era romano. Non parliamo poi dei Borgia…

Cos’altro ci insegna la storia? Che la religione viene sempre sfruttata a fini di potere: Cleopatra e, prima di lei, Alessandro Magno lo avevano capito benissimo: siamo noi, nel 2019, che siamo ancora convinti che la Religione sia Buona e l’ateismo cattivo.

Un’altra lezione dalla storia? Certo: è che non sappiamo quasi niente. Pensate alla relazione tra Cleopatra ed Antonio. Cosa vi viene in mente? Liz Taylor e Richard Burton, immagino. Amore romantico, drammatico, tragico… Bè, dimenticate tutto.

Se c’è uno che ha rischiato di più nel suo rapporto con Cleopatra, è stato Cesare, che ha compiuto alcuni atti sconsiderati durante la relazione. Antonio, invece, era molto meno succube della regina egiziana, sebbene ne fosse affascinato.

Di lei, poi, quando la sua faccia non si sovrappone a quella della Taylor, abbiamo un’immagine da sovrana orientale onnipotente, capricciosa e sanguinaria.

Tutto vero?

Non proprio: la storia la raccontano i vincitori. Gli storici antichi dovevano far passare un’idea del genere, perché Ottaviano l’aveva sfruttata per attaccare Antonio, suo rivale nell’ascesa all’Impero. Antonio era ancora molto amato dal popolo e Ottaviano avrebbe perso in popolarità se lo avesse affrontato di petto: meglio farlo passare come la vittima succube della perfida regina orientale.

Ah: come è morta Cleopatra?

Suicidio con il serpente velenoso, vero?

No, falso.

In realtà, non si sa.

Sì, lo so che l’immagine della donna disperata per l’amante morto fa audience, ma non ci sono prove che lei si sia suicidata con l’aspide.

Dopo la morte di Antonio, lei rimane tredici giorni prigioniera di Ottaviano. Si sapeva che aveva tendenze suicide: una regina di quel calibro non avrebbe accettato di sfilare sulle strade romane in veste di bottino di guerra di Ottaviano. Tuttavia, neanche l’Augusto ci avrebbe guadagnato molto a far sfilare una donna (si dice) annienta e disfatta dal dolore: il popolo ne avrebbe provato pietà, e tutta la pubblicità negativa di Ottaviano sarebbe scoppiata come una bolla di sapone.

Diciamo che Ottaviano Augusto non ha fatto poi molto per evitarne il suicidio (se suicidio c’è stato). Sarebbe bastato metterle qualcuno alle costole a tenerla d’occhio…

Machiavelli non ha inventato niente.

E neanche Berlusconi.

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Termine di un viaggio di servizio – Heinrich Boell

Siamo in Germania, nel 1962.

Il processo Gruhl deve svolgersi in fretta e in sordina. I Gruhl padre e figlio hanno dato fuoco a una jeep americana: niente di grave, nessuno si è fatto male, sembra, ma qualcuno vuole che non venga data rilevanza al fatto.

Perché lo hanno fatto?

C’è stata premeditazione, su questo non c’è dubbio, e i due imputati sono sani di mente, ci sono le perizie. E allora?

Mentre seguiamo il processo, presieduto da un giudice che è al suo ultimo incarico e che è famoso per la benevolenza nei confronti degli imputati in generale (tanto più in questo caso, visto che in provincia tutti si conoscono fin da bambini), vediamo tutti i casi umani che girano attorno ai due Gruhl.

Ne salta fuori un pezzo di storia tedesca: non di gerarchi, non di fuehrer, ma di piccola manovalanza, piccoli artigiani, casalinghe, prostitute, piccola e media borghesia.

Non so come va a finire, ho esercitato il mio diritto di sospendere la lettura (a pag. 102 su 231): la scrittura è troppo ironica. Forse un giorno lo riprenderò, ogni libro ha il suo momento.

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Certi libri… son poco recensiti

WHY SOME BOOKS GET FEW REVIEWS (English version: below)

Se non se ne parla, non esiste. Chi lo diceva?

Non mi ricordo. Certo è che la frase è tanto più vera nella nostra quotidianità infarcita di social e smartphone. Sento però un obbligo morale di aggiungermi alle poche recensioni che ci sono in giro (oggi, non al momento della pubblicazione) per la quadrilogia “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann.

La storia la conoscete perché è scritta nella Bibbia. Ma è proprio quando una storia è conosciuta, e raccontata e riraccontata, che, a forza di sentirla, perde forza, perde l’energia che l’aveva ispirata quando è stata elaborata la prima volta.

Per un libro, il fatto di basarsi su una storia biblica ne riduce l’attrazione. Oggi impera il laicismo, l’indipendenza intellettuale: l’immagine della religione è legata a oscurantismo, pecore e pecoroni.

In un certo senso sì. Però il rifiuto in blocco di una corrente di pensiero è sintomo di scarsa indipendenza intellettuale.

E l’opera di Thomas Mann (così come quella di Carrère e di altri narratori che si sono cimentati con i miti) diventa doppiamente valente: perché riscopre i moventi psicologici che hanno dato il via alle storie.

E, credetemi, i moventi umani sono sempre gli stessi.

Sempre.

Certo, il libro risente degli anni in cui è stato scritto: la gente di oggi non parla come Ruben, Beniamino, Giacobbe e Giuseppe. Però si comporta allo stesso modo: soprattutto, ho ritrovato in queste pagine le stesse sottigliezze linguistiche che ognuno di noi adopera per giustificare i propri atti, anche se la coscienza ci dice che non erano proprio… morali!

A nessuno piace ammettere di essere vanitoso o geloso o invidioso. E allora ci giustifichiamo.

E così fanno Giuseppe e i suoi fratelli.

Tranquilli: la prossima volta che ci comporteremo da vanitosi, gelosi, invidiosi, non ci ricorderemo del libro di Thomas Mann, né cambieremo atteggiamento per il solo fatto di averlo letto.

Saremo troppo impegnati a giustificarci.


I you do not talk about it, it does not exhist.

This is even truer in our world full of smartphone and fanpages, therefore I want to add my humble review to the few ones I found in internet about Thomas Mann’s “Joseph and his brothers” (please note that you find few reviews today, but when the book was published: Mann’s books Always were bestsellers).

You know the story, because it is a biblical one. But the fact that you hear the same story more and more, it means that the story looses strenght, it looses the energy that it showed when it was released the first time).

Nowadays a big slice of population prefers to stay away from religion: the word calls for oscurantism, sheeps and intellectual restriction.

Actually, on the contrary, if someone refuses a thinking method, this is sign of a restricted… brain!

And this is why we must be grateful to Thomas Mann (but also to Carrère and other Writers who has worked on biblical themes): because he showed us the psychological reasons of those ancient acts.

And, believe me: men act Always in the same ways. With the same purposes.

Always.

Of course: today people do not talk like Joseph and his brothers. But inner motives are the ones that move us today.

Justification, for instance. Joseph justifies himself because he make the spy with his father, and his brothers justify themself because they hate him.

Be careful: next time that you will justify yourself for something immoral, for being envious, jealous, or mean, you will not remember this novel. Because you will be too busy in justifying yourself.

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Nemico senza volto, Charlotte Link

(Deutsche Version: unten)

Nathan e Livia Moor fanno naufragio nei pressi dell’isola di Skye. Vengono salvati per miracolo, ma non hanno più nulla al mondo, perché avevano investito tutto nella barca colata a picco. Livia è completamente sotto shock e viene ricoverata in un ospedale.

I due sono aiutati da Virginia Quentin e suo marito Frederic, che si trovano in vacanza da quelle parti. Solo che Nathan li segue anche quando i due tornano a casa, nel Norfolk.

Ovvio: non ha più un soldo, ha bisogno di tutto. Però mentre Frederic è a Londra per la sua campagna elettorale, sua moglie si innamora di Nathan. I due amanti trascorrono due giorni nella casa delle vacanze e Virginia affida la figlia Kim alla vicina di casa (mah…). Peccato che la figlia scompaia.

Due volte. La prima volta scoprono che si era nascosta in una casa su un albero dove giocava da piccola. La seconda volta non la trovano più. E c’è un maniaco pedofilo in giro che ha già ucciso due bambine.

Non faccio spoiler, ma vi dico che se non fosse stato per il mio bisogno di esercitare il tedesco non avrei finito il libro.

Innanzitutto, ci sono troppe riflessioni. I personaggi pensano, pensano, rimuginano su quello che hanno fatto, su quello che potrebbe accadere, su quello che avrebbero potuto fare… Alla fine, tutti questi pensieri non portano da nessuna parte.

In secondo luogo, il comportamento di Virginia Quentin non è verosimile. Quando se ne va sull’isola di Skye con l’amante, quasi non si pone il problema della figlia, che il lunedì ricomincia la scuola. Se ne ricorda dopo due giorni. Quando torna e scopre che la figlia è scomparsa, va nel panico: la ritrovano, bene, non è successo niente. Ma lei che fa? Invece di attaccarsi stretta stretta figlia, la riconsegna nelle mani dei vicini perché deve andare a prendere il marito alla stazione e parlargli…?

Questa bambina è abbandonata due volte dalla madre, una volta dal padre (che se ne va alle sue cene elettorali dopo che la moglie gli ha messo le corna), una volta da entrambi i genitori (che devono andare a una festa a Londra e non vogliono portarsi dietro la figlia). Anche quando la bambina c’è, è come se non ci fosse. La madre se ne dà poco conto.

Però, poi, quando Kim scompare, vanno fuori di testa. Ma datela in adozione, che fate prima!!

Una madre non si comporta così. Non mi comporterei io, così. E io, notoriamente, non sono per niente una mamma apprensiva.

L’autrice cerca di giustificare questi comportamenti assurdi spiegando, piano piano, il passato di Virginia Quentin, i suoi sensi di colpa nei confronti dell’ex fidanzato e di un bambino morto per colpa sua; il bisogno di sentirsi libera e leggera come in gioventù; ma nonostante le tante pagine scritte per fondare certi atteggiamenti, leggendo mi mancava qualcosa: la verosimiglianza.

Lo definirei “Thriller psicologico”, però poco “thriller” e molto psicologico. E, che resti tra noi, non so se è più malata la psicologia del pedofilo o di Virginia Quentin. A volte, è solo questione di gradi.


DAS ECHO DER SCHULD, Charlotte Link (Goldmann Verlag)

Die deutschen Aussteiger Nathan und Livia Moor haben alles ihr Hab und Gut in einem Schiffbruch verloren. Livia muss in einem Hospital wegen des Schockes bleiben, aber ihr Mann verliebt sich in Virginia Quentin, die Frau, die ihnen hilft. Virginia war auf Urlaub mit Ihrem Mann Frederick und ihrer Tochter Kim auf die Insel Skye.

Spaetestens folgt Nathan Virginia auch wenn sie Zuhause in Norfolk zurueckkommt. Sie werden Liebhaber. Sie verbringen zwei Tagen in dem Urlaubshaus in der Insel Skye, und Kim verschwindet.

Zweimal.

Das erste Mal, hatte Kim sich in einem Baumhaus versteckt, wo sie als kleines Kind spielte, so passierte nichts, nut eine toedliche Angst.

Voraussichtlich aber nicht so toedlich, wenn die Mutter ihr Kind nochmal verlaesst. Und das zweite Mal kann niemand das Maedchen finden.

Und in der Naeh gaben es schon zwei Maedchen tot gefunden worden.

Das Kind wird im Laufe des Buches mehrmals hier und dort verlassen… das ist ganz unglaublich. Ich bin nicht die aengstlichste Mutter in der Welt, doch haette ich nie so gemacht!

Das ist das erste Defekt vom Buch, und, meinetwegen, ziemlich gross.

Zweitens, und das ist nur entnervig, gibt es zu viele Denkens. Man denkt, was man gemacht hat. Man ueberlegt, was zu tun ist. Man fragt, was man getan hat und was wuerde es geschen, wenn man etwas anders tun wuerde… es ist als ob, die Schriftstellerin, die Blaetter nur einfuellen wollte.

Krimi? Nein: zu viele Gedanken. Liebesgeschichte? Nein: hier spielt Liebe gar keine Rolle. Pshychologisches Roman? Vielleicht: aber wegen der pshychologischen Krankheit von Virginia Quentin, die so unglaublich wirkt; nicht wegen der Pshychologie vom Killer, der, am Ende, sogar ein bisschen banal war.

Luegen, Erpressung, Geheimnissen, schreckliche Geschehnissen: in diesem Buch ist es, alles zusammen genommen, ganz unwahrscheinlich.

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Le storie di Giacobbe – Thomas Mann

Se l’interesse per le storie bibliche precipita in caduta libera, non è perché esse siano noiose: sono, al contrario, piene di pathos, avventure, colpi di scena; ma il modo in cui vengono raccontate oggi negli ambienti religiosi è tutto fuorché avvincente.

Per fortuna ci sono gli scrittori…

“Le storie di Giacobbe” è il primo capitolo di una tetralogia. Inizia con un colloquio tra Giacobbe e il figlio Giuseppe vicino a un pozzo, di notte. Nessun dettaglio è superfluo: il pozzo rappresenta il passato, il regno dei morti, il mistero. La notte, con la luna, ammanta l’esistente di una luce particolare che ci permette di vedere le vicende passate in modo nuovo (e qui sorvolo sui richiami alle varie divinità lunari).

Qui è tutto un risalire alle origini (perfino delle piante e degli animali), al proprio passato: il mito si ripete, ci dice Thomas Mann, e i protagonisti stessi a volte, parlano al presente di eventi già trascorsi o usano i pronomi in prima persona quando in realtà stanno parlando di avi defunti molto tempo prima. Il mito è, non fu.

I personaggi biblici, che dalle letture in chiesa ci risultano così piatti e monotoni, qui sono descritti con tutti i loro pregi e difetti.

Giuseppe è un chiacchierone e spione: suo padre gli dice di non riferire certe cose ai fratelli, e lui fa il contrario. I fratelli combinano guai (più o meno gravi), e lui va a riferirlo al padre. Proprio di una simpatia unica.

Giacobbe ne ha fatte anche di peggio. Intanto, ha fregato la primogenitura al fratello Esaù imbrogliando il padre cieco (e pure, diciamolo, un po’ stupidotto).

Poi, a Schekem, non accetta di dare in sposa la figlia Dina al figlio del signorotto locale e questi la rapisce (faccio presente che a questo ragazzo era stato detto che avrebbe potuto avere la ragazza se si fosse fatto circoncidere, cosa che lui fece, ma inutilmente). I figli di Giacobbe, per vendicare l’onore della sorella, massacrano tutta la popolazione locale: Giacobbe non poteva non sapeva, ma li ha lasciati fare.

Quando i figli sono tornati da lui dopo aver compiuto scempi inenarrabili, Giacobbe ha brontolato, ha fatto la sua scenata, ma è comunque scappato portandosi dietro tutte le mandrie e il bottino (e questo signore qui si faceva chiamare Benedetto, perché diceva che le sue fortune gli venivano dal Signore… ah benon!)

Ah, per la cronaca: Dina è stata riportata in seno alla famiglia, ma era incinta. Giacobbe l’ha costretta ad abbandonare il figlio nel deserto appena nato…

Giacobbe non è neanche un mostro di intelligenza: si fa prendere per il naso per anni dal suocero Labano, che lo costringe a lavorare gratis per lui con la promessa di dargli in sposa la figlia Rachele, e quando arriva la notte delle nozze, non si accorge neanche che nel letto non c’è Rachele, ma sua sorella… (stesso imbroglio sull’identità che lui aveva fatto alle spalle di Esaù: chi fa la l’aspetti – ancora: il mito si ripete).

Insomma, questa gente non è proprio un modello di virtù.

Un altro messaggio che Thomas Mann vuole sottolineare (e lo fa spesso nel corso di questo romanzo) è che sono le passioni a muovere la storia: ecco perché la storia si ripete. Perché si ripetono le passioni. Ed ecco perché è necessario conoscere il passato, entrare nel pozzo, per capire meglio come comportarsi oggi.

Però una domanda mi sorge spontanea. Questo libro è uscito nel 1933, in piena ascesa dell’antiebraismo hitleriano. Considerando che brutta figura ci fanno qui gli ebrei, il romanzo va a rimpinguare la scorta di odio che già era notevole nel paese.

Perché Thomas Mann ha scelto proprio questo argomento in un periodo così poco consono?

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