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Gurdjieff, viaggio nel mondo dell’anima – Joe Santangelo

Se prima di leggere questo libro non sapevo chi era Gurdjieff, ora ne so poco di più. E’ un libro-omaggio, ben documentato, scritto con passione e gratitudine, ma il suo scopo non era quello di sviscerare il personaggio: sarebbe impossibile.

Per alcuni Gurdjieff era un maestro di vita, per altri un insegnante di danza, per altri un filosofo, un imbroglione, un mago, un ipnotizzatore… la lista è lunga. Di sicuro era un uomo carismatico, che è riuscito a stringere attorno a se una folta schiera di… studenti? Forse “ricercatori” è la parola più adatta.

Gurdjieff si occupava dell’anima. Ma per far ciò, doveva occuparsi dei corpi, delle emozioni, delle vite intere dei suoi seguaci. Seguaci che erano disposti a mollare famiglie e ricchezze pur di seguirlo.

Forse non è preciso dire che Gurdjieff si occupava dell’anima, perché sosteneva sempre che l’uomo ne nasce privo: l’anima bisogna meritarsela. Con la fatica, con la sofferenza (consapevole), con l’autosservazione, con l’ancoraggio nel presente, col controllo delle emozioni negative, silenziando il chiacchiericcio psicologico e risparmiando energia per dedicarsi al Lavoro.

La prima parte del libro è quasi una biografia: ma scordatevi di trovarci episodi eclatanti, scabrosi o esoterici. Ce ne sono solo accenni, di sfuggita, e non sono quelli che contano. Ciò che conta è la Verità e la guerra agli automatismi, alle abitudini, allo spreco di energia.

Non è un Lavoro per tutti: solo in pochi riescono a sopportarne la tensione, ma la ricompensa è l’Anima.

In realtà di “magico” il Sistema non offre nulla. Per il Sistema l’unica, autentica magia consiste nel “potere di fare” (…).

Questo è un libro molto lontano da un manuale: non ci sono consigli pratici, non ti dice fai questo, fai quello. Si legge di alcuni esercizi che Gurdjieff affibbiava ai suoi studenti: ad esempio, scavare, in un ben definito lasso di tempo, buche di dimensioni ben precise, per poi riempirle fino a renderle invisibili.

Lo stesso viaggio che ha fatto fare ai suoi studenti attraverso l’Europa in cerca di un luogo dove piantare la propria scuola è stato un esercizio: attraverso guerre, massacri, morte. Ma loro sono passati indenni, e ancora non si capisce bene come. Chi parlava di preveggenza, chi di magnetismo animale, chi di ipnosi… fatto sta, che quando sono arrivati, erano diversi da come erano partiti.

Insomma, quando ho messo giù il libro dopo aver chiuso l’ultima pagina, mi è rimasta la domanda: ma chi era Gurdjieff?

E’ però una domanda che potrebbe applicarsi a chiunque, perché abbiamo sempre bisogno di etichette: è più facile che dedicarsi all’Essenza di una persona.

Allora prendo solo un periodo, tra i tanti che mi sono rimasti impressi del libro, e ve lo riporto qui, perché leggendolo mi è sembrato di vedere tutta la schiera di persone (persone!) che passa ore e ore davanti agli schermi dello smartphone o davanti a schermi ultrapiatti da cui fuoriescono notizie inutili e dannose:

E’ necessario soltanto che egli impari a economizzare, in vista di un lavoro utile, l’energia di cui dispone, e che, per la maggior parte del tempo, dissipa in pura perdita. L’energia viene soprattutto spesa in emozioni inutili e sgradevoli, nell’ansiosa attesa di cose spiacevoli possibili e impossibili, consumata dai cattivi umori, dalla fretta inutile, dal nervosismo, dall’irritabilità, dall’immaginazione, dal sognare a occhi aperti e così via. (…)dalla tensione inutile dei muscoli, sproporzionata rispetto al lavoro compiuto; dal perpetuo chiacchierare, che ne assorbe una quantità enorme, dall’interesse accordato ininterrottamente alle cose che non meritano nemmeno uno sguardo; dallo spreco senza fine della forza di attenzione; e via di seguito.

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Boonrod – Paola Tonussi

imageLa voce narrante descrive stati d’animo e sensazioni: parla di sua madre, di un bambino che diventa suo amico, dei paesaggi della Thailandia. Ad un certo punto: un rapimento, e paura, terrore, orrore, dolore, sete. Poi, alla fine, la luce, un salvataggio, la fine dell’inferno. Solo alla fine si viene a scoprire che la voce narrante è quella di un cane: mi ricorda un racconto di fantascienza in cui la voce narrante parla di alieni orripilanti da cui bisogna difendersi e poi si scopre che questi alieni sono gli esseri umani.

Questo libro è un po’ così, ma gli esseri umani sono anche Atid e il vecchio che ha raccolto Boonrod per strada insieme alla madre, sebbene non avesse neanche il cibo per sé.

E’ un romanzo pieno di colori e paesaggi, tutti travisati dagli occhi di un cane (che però potrebbero essere gli occhi di una persona particolarmente sensibile). La prosa un po’ ottocentesca – ci sono tante descrizioni – non ci risparmia la durezza della paura quando Boonrod è imprigionato.

E’ una storia vera, tanto che il cane ora vive con la scrittrice, e i proventi del libro andranno alla Soi Dog, un’associazione che si occupa di salvare i cani dal mercato alimentare. In Thailandia ora è illegale commerciare carne di cane, ma nel resto dell’Oriente no. E i numeri sono spaventosi (per il commercio dei gatti, addirittura non ci sono).

Notevole l’intento di Paola Tonussi che lo ha scritto di getto per dare una mano in questa crociata.

Mi permetto solo un invito personale: non facciamo differenze tra cani, gatti, rane, maiali e mucche. Se il commercio di carne di cane solleva un vespaio anche tra chi vegetariano non è, cerchiamo di essere coerenti. E’ la posizione dei c.d. onnivori che mi sembra un po’ dubbia quando se la prendono con gli orientali per i loro usi e costumi: le usanze si cambiano. Dappertutto, quando serve.

 

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Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita (Giulio Cesare Giacobbe)

Ma sì, dai: pur di avvicinare alla lettura chi non legge mai, va bene anche uno stile così stravaccato e, a volte, volgarotto.

Il pensiero è il risultato dell’evoluzione naturale e serve per la sopravvivenza, per il problem solving: cioè, abbiamo un problema, ci si pensa su, si trova una soluzione e si agisce di conseguenza. E questo va bene: un pensiero finalizzato all’azione è una sega mentale benefica.

Ma il nostro cervello è perennemente occupato dalle seghe mentali malefiche, quelle scollegate dalla realtà e dalle azioni: è questo che ci porta via energie e che ci fa star male.

Per smettere di farsi le seghe mentali occorre rivolgere la propria attenzione a ciò che si sta facendo, a ciò che ci succede, al mondo che si ha intorno.

Ed è qui che Giacobbe ci porta ad esempio la disciplina buddista della meditazione/contemplazione e della presenza mentale, accennando velocemente a qualche tecnica (mantra vocali o silenziosi, ad esempio). Per attivare il processo della consapevolezza, si parte da un atto di volontà.

Dobbiamo soltanto pensarci.
E’ sufficiente infatti che spostiamo la nostra attenzione dall’oggetto della percezione alla modalità della percezione stessa, cioè alla nostra reazione emotiva o all’immagine che abbiamo di noi stessi in quel momento.

Sembra che il cervello abbia una quantità di energia stabile: se la indirizziamo verso la consapevolezza, togliamo energia alle seghe mentali, alle reti neuronali che sono andate in loop con un certo pensiero autoalimentandosi. Questa è una spiegazione razionale del sorriso del Buddha.

Ma voi non vi lamentate del vostro cervello? Io sì e tanto!! Soprattutto al lavoro, quando mi incavolo e perdo le staffe, e comincio a borbottare per conto mio ad alta voce: non mi piaccio per niente. In occasioni del genere, invece di seguire il cervello, bisogna ricordarsi di fermarsi e osservarsi, guardarsi da fuori. Perché è facile guardare gli altri come si comportano: è quando siamo noi a comportarci come loro che non ci rendiamo conto di quanto diamo fastidio!
L’esempio classico è il pettegolezzo e la malalingua: sono sempre gli/le altri/e ad essere pettegoli/e. Se però noi cominciamo a parlare alle spalle di questo/a o quel/la collega, allora non è pettegolezzo, stiamo solo raccontando come sono andate le cose…

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L’uomo e la morte, Edgar Morin

Ci ho messo un po’ a riflettere sul come affrontare l’articolo su questo titolo, perché ogni recensione rischia di banalizzare l’enorme mole di ragionamenti (filosofici, storici, antropologici, psicologici, letterari) che si srotolano tra le pagine. E anche le vere e proprie recensioni che ho trovato in giro, dei contenuti del libro dicono poco: senza cattiveria, semplicemente perché è un libro che va letto. Non si può riportarne uno stralcio senza perdere la ricchezza dei collegamenti che lo legano al prima e al dopo.

Qui accenno solo al tema principale: la paura/rifiuto della morte va di pari passo con l’affermazione dell’individuo rispetto alla specie. Cioè, dove prevale la specie, questa copre con un manto protettivo l’orrore della dissoluzione dell’individuo. E perfino dove sembrerebbe che il rifiuto della morte sia bandito (omicidio, cannibalismo), in realtà Morin ci dimostra che queste eccezioni riescono, alla fine, a confermare la sua tesi.

Il libro è degli anni Settanta, qui proposto in una nuova traduzione (Riccardo Mazzeo, editor storico della Erickson).

Incredibile come un libro del genere riesca a intrecciarsi con gli argomenti che mi occupano gli scaffali negli ultimi mesi. Si intreccia con un testo di etologia (amore e morte) che mi ricordava come la cellula è praticamente immortale quando dice:

La morte è il prezzo dell’organizzazione, della differenziazione, della specializzazione.

E al contempo si intreccia ai libri sul buddismo. Perché? Perché se noi ci considerassimo parte di un Tutto, allora sì che saremmo indifferenziati, e, dunque, immortali…

Si intreccia ai miei saggi sull’alimentazione e sull’intestino, quando dice:

Se i fagociti e il tessuto connettivo si comportano così male, ciò dipende dal fatto che resistono meglio, nella loro semplicità barbara, alle tossine che provengono principalmente dall’intestino crasso. Sono le fermentazioni intestinali che, alla lunga, intossicano il corpo umano, si comprende quindi il disprezzo che Mecnikov provava per quest’organo che avrebbe voluto sopprimere.

(OK, ma questo Mechnikov confondeva la conseguenza, l’intestino otturato, con la causa, l’otturazione data dall’alimentazione scorretta)

Fortissima l’osservazione che l’uomo, fatto di cellule potenzialmente immortali, è mortale. Dove sta l’intoppo? La morte, allora, è naturale o innaturale?

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