Denise Lesur è appena stata da una mammana e aspetta di abortire. Il tempo scorre in attesa di liberarsi di quello che ha dentro, ma quello che ha dentro non è solo un feto non voluto.
Denise Lesur è piena di rabbia: il romanzo è una lunga invettiva contro il mondo da cui proviene.
La sua è una famiglia di negozianti, nel quartiere è considerata benestante: il bar va avanti bene, sempre pieno di ubriaconi che vomitano e stramazzano al suolo, e la rivendita di alimentari è un continuo via vai di donne in pantofole che chiedono di poter pagare a fine mese.
Ma nel quartiere ce ne sono tanti che stanno peggio, molto peggio, e Denise ogni domenica va a trovare qualche malato con la madre e a portare un po’ di scatolame per alleviare la miseria.
Denise Lesur da bambina è invidiata dalle amiche: può mangiare quello che vuole e può giocare con bambole che camminano da sole.
Tutto cambia quando iniziano le elementari: i genitori la mandano in una scuola privata dove Denise scopre di non essere al centro del mondo, di non essere la bambina più ricca né la più benvoluta. E’ la cacciata dal giardino dell’Eden.
Per recuperare l’ammirazione di cui ha spasmodicamente bisogno, diventa la prima della classe, e lo sarà sempre, anche alle superiori e all’università, ma, man mano che cresce, inizia ad odiare l’ambiente da cui proviene: si vergogna dei suoi genitori, del loro basso livello culturale, del loro linguaggio scurrile, della loro volgare abbigliamento.
Cerca di tenere separati il mondo della scuola e il mondo della famiglia, perfino il suo modo di parlare cambia a seconda dei due ambienti.
Quando inizia ad accorgersi dell’altro sesso, sceglie i ragazzi in base al loro livello, a quanto sono fini, a quanto possono arrivare lontano. Oscilla tra il senso di superiorità nei confronti del suo ambiente di origine al senso di inferiorità nei confronti di certi studenti ricchi e aggraziati.
Non è un libro sull’aborto, o sul diritto all’aborto. E’ un romanzo sulla perdita dell’ingenuità e sul tentativo di una giovane di staccarsi dal proprio passato.
E’ pieno di rabbia (e leggere 237 pagine piene di rabbia non è salutare).
Mi si dirà che è una rabbia dettata dalla costrizione dell’aborto: Denise Lesur non può tenere il figlio, i suoi non glielo perdonerebbero mai, imbottiti di morale come sono.
Ma in realtà, a lei il figlio non interessa per niente. Non ne parla mai in termini di “bambino”, non si vede mai nel ruolo di madre. Quello che la manda fuori di testa è che è costretta a fare qualcosa per colpa della morale imperante, e a farla di nascosto, perché la fanno sentire colpevole.
Questa settimana Annie Ernaux ha vinto il Nobel per la letteratura e tutti giù a dire che è un Nobel politico, una reazione all’avanzare della destra che minaccia il diritto all’aborto.
Il diritto all’aborto va tutelato, ma non bisogna strumentalizzare ogni accenno all’interruzione di gravidanza per giustificare certi premi.
Annie Ernaux sa scrivere, ma a mio parere, c’erano altri nomi più meritevoli per un premio così ambito.
Lo avevo iniziato e interrotto dieci anni fa, ma stavolta mi sono imposta di arrivare alla fine; mi son detta: se è brava da prendere un premio strega, qualcosa deve avere anche per me. E invece no (almeno con questo romanzo).
La trama è quasi inconsistente: quattro amici squattrinati vivono in un appartamento a Milano. Le loro giornate trascorrono senza grandi eventi. Sono permeati di ideali comunisti, sono dei sognatori, e sperano di portare nel mondo – attraverso la loro arte – un miglioramento morale ed economico.
Ma non riescono neanche a sbarcare il lunario: sono sempre in debito con qualcuno, e quando Bettina, la voce narrante, vince un premio letterario, pur mettendo in comune tutto il ricavato, riesce a malapena a coprire i debiti contratti fino ad allora (che includono sigarette e trattoria…).
Andrea e Sonia sono sposati. O così sembra…
Bettina si innamora di Gilliat, un giornalista, ma vi rinuncia perché pensa che anche Sonia ne sia innamorata. Poi le cose si capovolgono, e si scopre che Gilliat è innamorato di Bettina.
L’unica che lavora, Ziuccia, sembra bipolare, visti i suoi sbalzi di umore.
La padrona di casa, pure lei, non ci sta tanto con la testa, ma la sua malattia si esprime solo in richieste di anticipo dell’affitto per comprarsi i lussi che le sono necessari.
Poi muore il padre di Bettina. Poi muore la madre di Gilliat. Poi vanno a trovare la mamma di Sonia, povera pure lei.
Insomma, non c’è una vicenda centrale, non c’è una trama composta da cause ed effetti forti.
Tutto gira attorno alla presunta bontà dei protagonisti, e alla loro semplicità di carattere, che a volte sconfina nella banalità.
Ma quello che mi ha veramente innervosita durante la lettura, e che è il risultato di un pietismo molto forte nei confronti dei personaggi, è l’uso smodato dei vezzeggiativi: ziuccio, pennuccia, tavoluccia, boccuccia, pennuccia, casuccia, stanzuccia, quadrucci, alberguccio, abituccio… e vai di questo passo.
Ogni pagina gronda di vezzeggiativi, pietà e di una lacrimazione di fondo che al giorno d’oggi sono proprio fuori posto.
L’edizione che ho io contiene una presentazione di Alfonso Gatto, scritta in una maniera che è un modo per dire: se non sei abituato a leggere, metti giù questo libro, perché a noi non importa diffondere il piacere della lettura, ci basta solo mostrare quanto siamo bravi a usare le parole.
Alfonso Gatto dice:
L’opera della Ortese è un’opera buona. Un lettore che si creda provveduto di malizia e di disincanto, per quest’opera, deve fare i conti con la sua miseria morale, con la sua sterilità orgogliosa, con i suoi sensi spenti.
Accetto il rimbrotto e confermo che questo libro non fa per me.
Vi anticipo però che sto leggendo un altro libro della Ortese, più recente, e la scrittura è tutt’altra cosa… Ci vediamo presto.
Nella prima, ambientata nel 1968, la piccola Anna Cannavò, grazie a un componimento scolastico, vince una settimana con la scrittrice Anna Maria Ortese. La bambina vive molto poveramente in Sicilia: sebbene destinata a lasciare la scuola e ad andare a servizio per aiutare la famiglia, è innamorata delle parole, ma non di parole qualunque, bensì delle parole poetiche, quelle che le fanno sentire qualcosa nel cuore, che la aprono a nuove verità.
Quando arriva a Milano nell’appartamento della Ortese, scopre che la scrittrice vive con la sorella e che le due donne non sono per niente ricche. Questa povertà in fieri fa sentire Anna Cannavò più vicina alle nuove amiche e insieme scopriranno nuove “parole poetiche”.
Nella seconda linea narrativa, che si svolta tra il 1952 e il 1968, leggiamo un carteggio tra Anna Maria Ortese e una misteriosa R.
E’ una buon sistema per introdurci nella biografia della Ortese, dalla sua infanzia poverissima, alle sue prime prove letterarie, dal viaggio in Russia, ai premi letterari. Fino a giungere al 1968, dove si insinuerà un legame tra le due linee narrative.
Questa scrittrice ha lottato per tutta la vita contro le difficoltà finanziarie, le malattie e i lutti familiari. Ha dovuto abbandonare la scuola e cambiare abitazione decine e decine di volte. Si è data all’impegno politico nella sinistra per molti anni, ma poi lo ha abbandonato.
La sorella Maria l’ha aiutata finché ha vissuto ed è stata in salute, ha vissuto con lei, ha condiviso le spese (anzi, spesso le ha sostenute e basta), senza mai abbandonarla per sposarsi.
E certo, la scrittrice, donna non sposata e povera, ha faticato non poco a tirar avanti.
Non credo sia un caso che nei suoi libri abbia preso le parti dei poveri, dei “periferici”, fossero bambini, animali o abitanti della città e della campagna.
La parte del libro che ho apprezzato di più è stato il carteggio tra le due donne adulte, la Ortese e la misteriosa R. Il linguaggio è maturo, belle le metafore e la ricostruzione della biografia.
La parte incentrata sulla piccola Anna Cannavò l’ho trovata un po’ stucchevole: certo, il linguaggio sgrammaticato era necessario, considerato il background della bambina, ma il personaggio è un angioletto di carta, sempre pronto ad aiutare, vittima del mondo degli adulti, ingenua all’inverosimile.
Non ho mai conosciuto bambine siciliane degli anni Sessanta, però la si è dipinta in modo troppo perfetto, senza sfumature: è necessario che lei si meravigli di tutto, ma che allo stesso tempo faccia aprire gli occhi su molti aspetti che prima venivano ignorati, è solo bontà al limite del diabete.
Sì, la sua figura era necessaria nel contesto, ma mi sembra che manchi di libertà: la libertà di fare un capriccio, di pensare male di qualcuno che le sta attorno… di essere una bambina vera, insomma.
Ma forse sono io smaliziata.
Ad ogni modo, lo ho letto in due giorni, dunque non mi è dispiaciuto!
Non solo. Il libro mi ha così incuriosito, che ho già iniziato un romanzo della Ortese…
Senza nulla togliere alle colpe di chi ha attaccato le Torri gemelle… ma per pura coincidenza ho finito oggi di leggere “Il racconto del disertore” di Joshua Key, e il ruolo da vittima dell’11/09, sul quale gli americani puntano tanto, va molto ridimensionato (anche se poi a rimetterci sono sempre i civili).
L’invasione dell’Iraq ha sfruttato l’ondata emotiva dell’11/09 per motivi strategici e di potere che hanno poco a che fare con le Torri Gemelle e le loro vittime, questo lo sanno tutti, ma leggere il racconto di Key ce lo ricorda con molta vividezza.
Innanzitutto, guardiamo come lo hanno reclutato.
Joshua Key viveva in Oklahoma in una roulotte insieme alla famiglia. La madre passava da un compagno all’altro, da una scarica di botte a una settimana di depressione che non la faceva alzare dal letto. Lui, fin da piccolo, impara a maneggiare armi e fucili anche di grosso calibro: passa il tempo libero a scorrazzare per le strade e a distruggere con la mazza da baseball le cassette della posta dei vicini.
In paese regna sovrano il razzismo: neri, asiatici, arabi sono diversi, inferiori, pericolosi.
Libri e giornali in casa non se ne vedono, l’alcool è un compagno quotidiano e quando non c’è da mangiare, i bambini devono andare dal nonno per rimediare un boccone.
In questa situazione, i reclutatori dell’esercito si presentano alla porta e offrono uno stipendio fisso, l’assistenza sanitaria (oh, l’assistenza sanitaria!!) e 20.000$ di copertura spese universitarie.
Attenzione: i reclutatori non si presentano alle porte dei medici, degli ingegneri, dei politici. Vanno dai morti di fame, tanto che il loro lavoro negli States viene denominato “Caccia al povero“.
Ma doppia attenzione: quando Joshua Key si trova sul lastrico con una moglie, due figli piccoli e un terzo in arrivo, e decide di arruolarsi per tirar su qualche soldo, perché non ha neanche i mezzi per farsi togliere i calcoli renali, va dai marines.
E col cavolo che i marines lo prendono: famiglia troppo numerosa e, soprattutto, troppi debiti col fisco e con la carta di credito. Non vogliono mica le cacchette, i marines.
Al ragazzo non resta che provare con l’esercito. E là l’accoglienza è completamente diversa. Il reclutatore lo tratta gentilmente, gli offre sempre dolci e caffé (che per Joshua all’epoca erano quasi dei lussi), lo invita ad andare a fare jogging insieme. Un amico, quasi.
Quasi.
Perché Joshua non sta cercando di andare in guerra. Il suo scopo è far sopravvivere la sua famiglia: chiede più e più volte se sarà obbligato ad uscire dal suo paese, se sarà obbligato a partecipare ad azioni militari, e ogni volta lo rassicurano dicendogli che dovrà solo far saltare e costruire ponti nel suo paese.
Per legge, con una famiglia numerosa come la sua, lui non potrebbe arruolarsi, ma il reclutatore gli dice di non far menzione del terzo figlio in arrivo e di non far girare la moglie nei pressi della base militare.
Quando poi gli fanno firmare l’ultima documento, non gli fanno neanche leggere tutto il contratto, gli fanno saltare le clausole scritte in piccolo, e lui si fida. Non è abituato a leggere, e poi là sono tutti gentili, perché dovrebbero cercare di fregare uno del loro paese?
Durante l’addestramento gli insegnano ad odiare i musulmani. Non si parla mai di civili: gli iracheni sono sempre pericolosi, terroristi, assassini. I civili non vengono neanche nominati, come se non ce ne fossero.
Arrivato in Iraq, fin da subito è chiaro che tutte le promesse fattegli dal reclutatore erano aria fritta.
Joshua deve partecipare ai raid nelle case dei civili: lo scopo è trovare armi (magari di distruzione di massa) e arrestare tutti i maschi sopra il metro e cinquanta di altezza, indipendentemente dall’età.
In più di 200 raid, in sei mesi e mezzo di attività in Iraq, Joshua non troverà mai nessuna arma. Se ce ne sono, sporadiche, sono quelle che quasi ogni americano medio tiene in casa per difesa personale. Nelle case ci sono di solito donne e bambini, e gli uomini/ragazzi che vengono portati via (non si sa dove) non mostrano nessun tipo di aggressività. Terroristi: zero.
Non è che la sua squadra non venga mai attaccata: si trovano spesso sotto una pioggia di granate, ma non sono mai riusciti a vedere un iracheno armato.
La frustrazione è alta, dormono in media due ore per notte, il rancio fa schifo, cadono bombe, la temperatura si attesta sui 40-45°C, non ci sono né acqua corrente né servizi igienici (la merda deve venir bruciata in un calderone ogni due giorni): stiamo parlando di ragazzi che non sono abituati a controllare i propri impulsi, che negli USA vivono in case o roulotte fatiscenti.
Non ci vuole tanto prima che inizino a sfogarsi sui civili.
Distruggono le case in cui entrano: fanno uscire donne e bambini e iniziano a spaccare mobili, pavimenti, pareti, frigoriferi, tutto. Armi non ne trovano, ma appena un civile apre bocca, lo prendono a calci e pugni. I soldati arraffano tutto quello che vogliono: soldi, gioielli, tappeti.
Anche Joshua si comporta così nei primi tempi: gli iracheni non gli appaiono come esseri umani, non hanno diritto di proprietà. E poi l’esercito americano gode di impunità, possono fare quello che vogliono, nessuno li ferma.
Poi qualcosa scatta.
Vede dei soldati giocare a palla con le teste di alcuni civili. Vede scoppiare la faccia di una bambina di sette anni che era andata a chiedergli da mangiare. Vede i commilitoni picchiare gente innocente senza motivo. E nessuno dice niente. Lui stesso non può dire niente: chi ci prova si vede lo stipendio dimezzato, come minimo.
Joshua, prima di partire per l’Iraq, credeva nel suo paese e nel suo presidente, come ogni americano medio. Guai a parlargli male degli Stati Uniti, che per lui erano incaricati di mantenere la pace nel mondo e di portare la democrazia ai paesi che non la conoscevano. Sembrano parole ridicole per noi, ma per loro siamo quasi a livelli di fede.
Il suo sogno era vivere per sempre nel suo paesino e fare il saldatore per mantenere la famiglia: al momento presente si trova in esilio in Canada, dove spera che gli concedano l’asilo politico.
I Joshua sono tanti. L’esercito americano è grande, ed è sparso per il mondo. Anche in Italia. Sono soldati addestrati per uccidere che sono convinti della superiorità morale del loro paese, bevono questa convinzione col latte della colazione fin da piccoli.
Key si è accorto che il sistema era tutto sbagliato, ma quanti come lui riusciranno ad abbandonare una vita di credenze così radicate?
Mi chiedo quale potrebbe essere un buon antidoto a questo offuscamento di massa. Il fatto che non avessero libri in casa e che la lettura non rientrasse nel loro schema mentale mi sembra un sintomo del problema. Ma i libri si lasciano scrivere sia a favore che contro determinate campagne.
No, l’antidoto non sono i libri in sé, ma l’autoconsapevolezza. Il ragionamento. L’educazione.
Ci vuole tempo. Qualche generazione, forse.
Di certo, qualcosa bisogna fare, altrimenti, come specie umana, non ci evolveremo mai.
Alan è un critico gastronomico famoso; sposato con una giornalista di ricchi natali, vive la vita invidiabile dell’alta borghesia, col giardiniere, la colf e la baby sitter; è iscritto a un club di lusso e si concede golf e vacanze ai tropici senza rimorsi.
Un giorno si imbatte in un barbone che lo saluta chiamandolo per nome e scopre che è il suo ex compagno di classe Craig: dopo un debutto fragoroso nel mondo della musica, Craig era uscito di scena e i due si erano persi di vista quasi trent’anni prima.
Alan è combattuto: da un lato inizia ad aiutare l’amico ospitandolo a casa sua ed informandosi da un avvocato circa i diritti che gli spettano per i dischi venduti; dall’altro, continua a provare verso di lui un’antica invidia per la sua scioltezza, il suo corpo ancora tonico, e, in generale, per la sua capacità di attirare la simpatia altrui.
Quando sono insieme, Alan e Craig tornano sedicenni: si ubriacano, ricominciano a parlare col vecchio accento scozzese, fanno le ore piccole.
Ma qualcosa va storto…
Mi fermo qui.
Romanzo ben costruito, sia dal punto di vista psicologico che della creazione dell’aspettativa, che poi viene premiata.
Interessante e ben dettagliato anche l’ambiente alto-borghese in cui Alan vive, senza dimenticare alcune scene comiche che sono piaciute pure a me (che di solito preferisco il drammatico).
Non si può mai conoscere la verità su una persona. Non puoi conoscere quella di qualcuno con cui vivi, figurati quella di un personaggio che vive a seimila chilometri di distanza e che è a capo di uno dei paesi più potenti del mondo; un personaggio la cui immagine pubblica è studiata nei minimi particolari.
Ma la curiosità è sempre più forte della rassegnazione e quando mi intrippa qualcuno, cerco di andare a fondo. Certo, non bisogna limitarsi a leggere un libro o una biografia: bisogna sorbirsi almeno un paio di volumi, scritti da autori con background diversi.
Quindi, dopo l’autobiografia di Michelle, ecco una biografia di Barack, scritta da un giornalista esperto in politica nordamericana (e se mi gira, ho già pronto sulla libreria un saggio scritto da Obama in persona).
Le parti più interessanti sono quelle in cui si scoprono incongruenze o omissioni nelle autobiografie.
Ad esempio, Barack Obama ha sempre dichiarato che suo padre è stato un gran lavoratore, ma sfortunato nella vita e che si è separato dalla moglie perché avevano visioni diverse. Oggi ho scoperto che i due hanno litigato di brutto perché Obama senior era alcolizzato e perché, come molti kenioti, era poligamo (quattro mogli e non ricordo quanti figli sparsi per il mondo).
Ho scoperto anche che Barack ha dei fratellastri che conosce a malapena, uno in particolare che vive in una baracca.
E che la nonna materna era razzista (era bianca, lei), o così l’hanno definita i giornali americani.
Ma a parte questi aspetti familiari, nella biografia non si parla di vere e proprie pecche di Obama Jr.
Certo, si nominano gli “scheletri nell’armadio”, riferendosi a diversi sostenitori e finanziatori imbarazzanti, a partire dal reverendo Wright, che ha sposato Obama e Michelle e che ha battezzato le loro figlie, e che dal pulpito ha sempre lanciato strali avvelenate all’America bianca.
Un altro sostenitore ambiguo è il sindaco di Chicago, democratico, facente parte di una famiglia che si è impossessata della poltrona della città da decenni, e che è spesso sotto inchiesta per corruzione.
Poi c’è un certo Ayers, che negli anni Sessanta è finito in galera per terrorismo e azioni contro la polizia.
Ma queste pecche riguardano i sostenitori di Obama: non vengono citate magagne direttamente riferibili all’ex capo di stato.
Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei?
Non sempre. Per diventare Presidente degli Stati Uniti hai bisogno di così tanti milioni di dollari che non credo si possa fare tanto gli schizzinosi.
L’impressione che ne ho avuta è che questo libro, uscito prima dell’elezione di Obama, volesse essere per forza equilibrato, ma che perseguendo tale tentativo abbia tirato fuori delle ombre che solo i più pignoli dei detrattori potevano tirar fuori.
Nessuno è perfetto.
Il presidente USA vive in vetrina dal momento in cui si candida al momento in cui esce dalla Casa Bianca. Ogni sua frase viene sezionata e giudicata, perfino i calzini che sceglie al mattino devono essere accuratamente vagliati per non finire sulle prime pagine dei giornali.
Obama non rispettava tutte le mie idee.
Era contrario ai matrimoni gay, snobbava l’Onu, ammetteva che gli USA dovevano agire con la forza se minacciati (e la minaccia è sempre fumosa, per loro), sosteneva con forza il diritto di Israele di esistere ecc…
Insomma, non si giustifica l’atteggiamento della sinistra italiana che lo aveva assunto a rappresentante internazionale dei loro punti di vista e che lo osannavano acriticamente.
Però, in confronto a un Bush o a un Trump, mi piaceva come persona. Meno so-tutto-io, meno offensivo (anche se non del tutto innocuo), meno urlante.
Di sicuro si era accaparrato una buona fetta dei media e delle personalità di Hollywood, e questa è stata una strategia vincente. Insomma, le furbate le ha fatte anche lui.
Ma oggi, in politica, si può emergere senza furbate?
Vi siete mai chiesti perché i politici prendono certe decisioni al posto di altre in materia economica?
Qualcuno può rispondere: perché si affidano agli economisti.
Ebbene, la risposta è parziale. Perché una cosa sono gli economisti, di solito accademici che scrivono per i pochi iniziati capaci di capirli, e un’altra cosa sono gli imprenditori politici, personaggi, di solito giornalisti (ma a volte anche economisti) che sanno come scrivere per il pubblico.
Ebbene, le due figure sono molto diverse. Di solito i politici non si affidano ad economisti tout court, perché le teorie economiche sono molto complesse e fanno ricorso a troppa aritmetica per riuscire a far colpo sull’elettorato. Ecco l’entrata in scenda, dunque, degli imprenditori politici, bravi divulgatori, spesso con un background economico, ma che, proprio per risultare “simpatici” al grande pubblico, spesso peccano di semplificazione (ed è per questo che, anche se di origini accademiche, spesso sono “ripudiati” dai colleghi).
Ai politici di professione questo importa poco: l’importante è convincere la gente a votare in un certo modo, e per farlo è più utile un professionista che sappia creare una narrazione efficace. Spesso un governo si scegli i i consulenti perché il loro discorso economico si adatta meglio alle idee che il governo ha già in testa.
Krugman sostiene questa tesi analizzando gli anni della politica repubblicana negli Stati Uniti dal 1973 fino al 1993 (il libro è uscito nel 1994).
Al di là di un ripasso generale sulle teorie keynesiane, monetariste e offertiste, Krugman commenta le decisioni politiche prese da dodici anni di governo di destra (Reagan e Bush) cercando di essere il più possibile super partes (lui sarebbe di estrazione keynesiana).
Infatti, io mi aspettavo che dicesse peste e corna del liberismo, invece è saltato fuori che i conservatori non hanno poi causato quel caos infernale che la controparte temeva, soprattutto perché i veri interventi economici sono attuati dalla Federal Reserve Bank, che in realtà è abbastanza autonoma dal governo centrale.
Qualcosa di brutto però, durante gli anni conservatori, è successo: è aumentata notevolmente la sperequazione dei redditi tra ricchi e poveri, flagello che tormenta gli Stati Uniti ancora oggi, nel 2021, e sono molto interessanti le pagine in cui Krugman spiega quali possono essere le cause di questa sperequazione.
Un altro grosso problema americano è la bassa produttività.
La produttività è il principio cardine su cui si basa lo stato di salute di un’economia, ma le cause delle sue oscillazioni non sono davvero conosciute.
Il problema è che i politici attribuiscono la colpa della bassa produttività a fattori diversi, in base a quello di cui hanno bisogno.
Un errore madornale, ad esempio, è quello di dire che la produttività è bassa per colpa della concorrenza internazionale.
Ebbene: produttività di un paese e scambi internazionali NON sono direttamente legati. Eppure, molti governi, da questa e dall’altra parte dell’oceano, sostengono che bisogna attuare delle politiche di controllo del commercio internazionale per sostenere l’economia del proprio stato…
Insomma: l’economia è una disciplina che dovrebbe farci capire come funziona una realtà, ma è poco adatta a dare indicazioni per modificare quella realtà in una data direzione perché le variabili sono troppe e poco controllabili. Eppure i politici si servono di divulgatori di professione, spesso per giustificare manovre che, altrimenti, sarebbero poco popolari per l’elettorato.
Più che una lotta tra diverse teorie politiche, è una lotta tra diverse narrazioni della realtà.
Ancora una volta, non è la realtà che ci spinge ad agire in un certo modo, ma la narrazione che ne facciamo (ve lo ricordate Harari??).
Barny, una giovane intellettuale, ha sposato Chaim, apolide di origini russe, ebreo e militante comunista che viene arruolato nell’esercito francese. Hanno una figlia di pochi anni, France. Lei e la figlia vivono dei lavoretti sporadici che Barny riesce a trovare nel paesetto alpino dove aspettano il marito e padre.
Ma un giorno arriva la fatidica lettera con cui si comunica a Barny che Chaim è morto.
Come?
Non si sa. Ma di sicuro è morto senza che la Francia gli riconoscesse i suoi onori, tanto che Barny e sua figlia devono affrontare diversi problemi burocratici.
Il libretto è breve, appena 119 pagine. In queste poche pagine ruota tutto attorno alle difficoltà economiche di Barny, a pochi personaggi che la aiutano o la criticano, e al mistero della morte del marito.
Verrà svelato, alla fine, questo mistero, ma ci resterà sempre il dubbio: un ebreo apolide e comunista che non è riuscito ad integrarsi, nonostante i suoi sforzi, è davvero morto in quel modo?
Non è un libro avventuroso, e neanche dal punto di vista psicologico l’ho trovato molto avvincente.
Forse non l’ho capito io, che ho dovuto spesso ricorrere al dizionario per tradurre dal francese. Se sono arrivata alla fine è solo perché mi ero imposta di finire un libro in lingua per fare esercizio!!
Il libro è parzialmente autobiografico: anche la Beck ha sposato un uomo che è stato ucciso in guerra; con la vedovanza, ha conosciuto dei giorni piuttosto difficili, rassegnandosi ad accettare i lavori che le venivano offerti nel dopoguerra (operaia, modella in una scuola di disegno, operaia a domicilio, impiegata in una scuola per corrispondenza, cameriera…).
Questo breve romanzo è stato pubblicato dalla Gallimard nel 1950.
Non sono riuscita a leggere questa autobiografia senza fare il confronto, episodio per episodio, col film “L’ultimo imperatore” di Bernardo Bertolucci.
Per capire le numerose differenze, bisogna tenere a mente che l’autobiografia di Pu Yi è stata scritta in piena epoca Mao (la pubblicazione è avvenuta nel 1964).
Pu Yi non era una grande personalità: era debole di carattere, e i lussi in cui è vissuto gran parte della sua vita non hanno fatto altro che indebolirlo ulteriormente e incancrenire altri suoi difetti, tra i quali la crudeltà aveva un ruolo importante.
Nella biografia, Pu Yi parla del suo vecchio sè con rammarico e vergogna ma ci resterà sempre il dubbio di cosa pensasse davvero: di quanto fosse all’oscuro delle mire giapponesi durante l’occupazione del Manchukuo, dello sfruttamento bestiale del popolo cinese e della situazione internazionale.
La parte più interessante dell’autobiografia a mio parere inizia dopo la costituzione del Manchukuo, lo stato fantoccio: si vede un Pu Yi che pensa continuamente alla sua restaurazione come imperatore, si illude e poi cade, più volte, nella disperazione e nel terrore di venire ucciso, e allora si dà alla pratica del buddhismo e alle superstizioni (arrivando al punto di vietare ai servi di uccidere le mosche).
Quando il Giappone perde la guerra e il Manchukuo cade, Pu Yi finisce per cinque anni in un carcere russo, e, infine, in uno cinese.
Era pronto ad essere maltrattato, deriso, torturato e ucciso e invece… oh! Miracolo! Il comunismo è magnanimo!
E qui lo sbrodolamento inzuppa le pagine: tutti, anche i sopravvissuti a terribili massacri, lo perdonano; tutti si preoccupano solo della sua reintroduzione nella nuova società; la nuova società non è interessata ai suoi numerosi gioielli, e in carcere diventa un vero uomo. Così dice.
Negli ultimi anni avevo appreso qualcosa circa il mio effettivo valore dai miei tentativi di lavarmi gli abiti e fabbricare astucci per matite.
All’inizio avevo detestato il partito comunista, il governo del popolo e le autorità carcerarie, mentre ora non avevo motivo di avercela con loro, e più che mai sentivo che, se le cose stavano a quel modo, era per colpa mia.
La magnanimità dei contadini che avevo ritenuto rozzi, ignoranti e pronti a trar vendetta senza curarsi affatto della politica di clemenza e rieducazione. Adesso erano padroni del proprio destino, e dietro di loro stavano un potente governo e un esercito guidato dal partito comunista.
Una cosa era chiarissima nella mia mente: il partito comunista si serviva della ragione per conquistare la gente.
Mi fermo qui, ma avete colto il senso.
Impossibile sapere quanto Pu Yi fosse davvero convinto di queste lodi e quanto forte fosse la paura, ma anche se si resta col dubbio sulla sua sincerità (quanto ha esagerato i suoi crimini? Quanto ha esagerato la magnanimità del comunismo? Quanto ha taciuto?), questo è un libro che ho letto con piacere.
Annie Ernaux inizia a scrivere questo libro pochi giorni dopo la morte della madre. Racconta la sua vita, l’ambiente in cui è cresciuta, il rapporto che si era creato tra loro e la malattia, l’alzheimer, che se l’è portata via, prima nella mente e poi nel corpo.
E’ la vita di una donna normale, che si è sempre data da fare per uscire dall’ambiente contadino e dalla povertà, per farsi una cultura e per far studiare la figlia.
La Ernaux ha una scrittura concisa che tratteggia le situazioni con neutralità e precisione: scrive per fissare la vita della madre, perché se non lo facesse, di lei non resterebbe niente, e questo è il carattere che più ci fa riflettere sulla nostra essenza.
Segue un andamento cronologico, con paragrafi quasi diaristici, senza nessun tema da dimostrare né alcuna scaletta preimpostata: i ricordi vengono messi su carta man mano che li richiama alla mente.
E’ una storia drammatica perché universale, ci riguarda tutti, da vicino o da lontano.
Al Gruppo di Lettura molti hanno sottolineato la mancanza di giudizi: la Ernaux ti mette davanti ai ricordi senza darti appigli morali per valutarli, lascia fare a te.
Leggendola, mi ha dato l’impressione che sia lei che sua madre abbiamo vissuto senza poter davvero scegliere, come se ogni loro comportamento sia stato dettato dall’ambiente o dall’epoca.
Perché? Dopotutto, entrambe si sono date da fare, non si son trovate la strada spianata: lavoro, studio, famiglia, la morte di un figlio e di un marito/padre, un divorzio…
Credo che la risposta stia proprio nello stile: la scrittura è così scevra da giudizi, che da nessuna parte vengono esternati i desideri che erano all’origine dei comportamenti.
Mi spiego: i comportamenti sono descritti; i pensieri che hanno portato a quelle azioni, invece, no. Riportare i pensieri, infatti, avrebbe significato fare ipotesi, e l’ipotesi porta in sé un giudizio, o comunque qualche tipo di valutazione.
Durante la lettura, dunque, quando mi trovo la madre che apre un negozio di alimentari e che si fa in quattro per mandarlo avanti, posso intuire la motivazione che c’è dietro, ma se mi fermo alla parola scritta, questa motivazione non è esplicitata, e il comportamento sembra eruttare da un corpo senza volontà propria.
Il libro piace, non può lasciarti indifferente.
Quello che è mancato, secondo me (ma non era nell’intenzione della Ernaux) è il piano, la scaletta, un tema di fondo che mi aiuti a far entrare il libro nel novero della grande letteratura.
E’ un’opera d’arte, perché è una forma di comunicazione consapevole (molto consapevole), ma forse è un po’ troppo personale, troppo legato alla sfera intima.
(Ehi, qui sto facendo le pulci a un bellissimo libro… non ci badate)