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Giustizia, non vendetta – Simon Wiesenthal

Wiesenthal è salito alla ribalta col soprannome di “cacciatore di nazisti”. E’ un soprannome che evoca più avventura di quella che in realtà c’è stata: Wiesenthal era più un uomo spinto dalla voglia di dare giustizia a tutti i morti della Shoah, non era una spia che scivolava nei vicoli bui del Sudamerica in cerca di mozziconi di frasi tedesche. Il suo lavoro consisteva più che altro nella raccolta di informazioni, documenti, foto.

Avventurose, però, sono le vicissitudini di quelli che lo fuggivano (anche se i casi di chirurgia plastica sono stati, a detta di Wiesenthal, dei miti).

Le parti che mi hanno indignato di più, comunque, non sono state quelle in cui venivano descritte le ingiustizie sopportate nei campi di sterminio: sono i resoconti di tutti i colpevoli che sono sfuggiti alla giustizia.

Le fughe, nella stragrande maggioranza dei casi, erano favorite per motivi politici, e in questo gli alleati, così presi dalla guerra fredda, hanno avuto grandi responsabilità.

E poi, dove li mettiamo tutti gli assassini, diretti o indiretti, che hanno le competenze necessarie per mandare avanti gli apparati burocratici tedeschi e austriaci? Se li togliamo tutti dalla circolazione, c’è il blocco totale, soprattutto nelle scuole, in polizia e nella giustizia.

Ergo: li teniamo. Li mettiamo a capo di un’amministrazione, li promuoviamo presidi, giudizi, capi di polizia, procuratori ecc… L’Austria, paese in cui Wiesenthal viveva, si è comportata in modo particolarmente vergognoso (più vergognoso della Germania), cercando di screditarlo e di mettergli i bastoni tra le ruote ad ogni passo.

Una cosa ci tiene a sottolineare Wiesenthal: non esistono le colpe collettive. Non è la Germania in blocco ad aver ammazzato milioni di ebrei e zingari. Sono stati i singoli, che hanno preso singole scelte.

E lo stesso vale per i miliardi rubati: soldi, pietre preziose, oggetti d’arte… non era Hitler a ordinare ai singoli gerarchi di intascarsi una parte (consistente, molto consistente) dei valori che confiscavano (Hitler, nel suo delirio, voleva che entrasse tutto a far parte della nuova Germania). Probabilmente ci sono ancora tesori nascosti sepolti sul fondo di laghi di mezza Europa.

E le istituzioni (fatte di singoli) sono colpevoli di dolo. Un esempio?

Per restituire opere d’arte confiscate durante la guerra, i competenti uffici chiedevano ai precedenti proprietari una descrizione particolareggiata dell’oggetto

(…) era attribuita una particolare importanza alle misure lineari precise – quasi che, prima di essere arrestati, la maggior parte degli ebrei si aggirasse per casa col metro pieghevole a misurare i quadri. Ciò consentì all’Austria ulteriori angherie: così non fu restituito un prezioso dipinto di Klimt – è ora esposto all’Albertina – perché le misure fornite dalla famiglia dei proprietari si discostavano di due centimetri e mezzo da quelle reali.

In generale, comunque

(…) nel caso degli oggetti d’arte “senza proprietario” solo una parte dei quadri fu rivendicata, perché soltanto una parte degli interessati ne era stata informata. I più bei dipinti della raccolta erano finiti nel frattempo nelle ambasciate e nei musei austriaci.

Complimenti a tutti, ma non dimentichiamocele, queste cosette.

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Le passioni della mente – Irving Stone

Romanzo biografico su Sigmund Freud

Irving Stone è conosciuto principalmente come autore di biografie romanzate. Lui stesso, in un video su youtube, si definisce un Bookworm, uno che va pazzo per i libri. Il suo primo incontro con Freud è stato a diciannove anni, quando, appena entrato all’università, ha fatto una capatina nella biblioteca, e si è portato via, tra l’altro, “Psicopatologia della vita quotidiana”: che coincidenza! Questo è proprio il titolo che ha fatto innamorare me, di Freud, quando avevo sedici anni! Ed è anche il libro che Freud ha scritto per il vasto pubblico, mentre prima i titoli si indirizzavano principalmente al mondo medico, visto che la psicanalisi doveva ancora farsi accettare come scienza.

Ma torniamo alla biografia.

Il romanzo inizia quando Freud ha poco meno di trent’anni e sta facendo la corte a Martha, sua futura moglie. Si è appena laureato e il suo sogno sarebbe quello di lavorare nell’università, come ricercatore, ma non ce la fa. Intanto però mette da parte un bel po’ di esperienza con le malattie organiche… Ci vuole molto prima che lui si accorga di aver dato inizio ad una nuova scienza della psiche (ricordo che allora la psicologia non era considerata come una scienza), e non gli mancano i detrattori.

Pian pianino, l’impalcatura della psicanalisi cresce e si espande a tutto il mondo. Prima di arrivare a questo, però, il dottor Freud dovrà superare molte difficoltà: dall’antisemitismo (lui era ebreo, sebbene non praticante), al baronaggio, alle invidie, alle guerre… Ci sono diversi periodi in cui Freud ha difficoltà a comprarsi un abito nuovo o un nuovo paio di scarpe, soprattutto all’inizio della sua carriera.

Ci sono due punti importanti che caratterizzano Freud (così come molti altri personaggi famosi):

1: non si demoralizzava quando riceve critiche, anche se pesanti, e anche se queste provenivano da persone di cui lui aveva un’altissima stima. Era convinto, appassionato, innamorato di quello che stava studiando e continuava per la sua strada.

2: pian pianino si costruì una rete di amicizie. E che amicizie! Breuer, Adler, Rank, Steiner, Jung, Ferenczi, Lou Salomé… Tutta gente con la quale poteva discutere e lo aiutava a diffondere le sue idee. Arrivò ad avere dei contatti anche con Thomas Mann ed Einstein.

A me la psicanalisi piaceva molto una volta, prima di scoprire che non spiegava tutto; dunque la biografia interessava. Devo però ammettere che questo romanzo è troppo lungo (873 pagine): in particolare, l’autore avrebbe potuto risparmiarci alcuni casi psicanalitici; ne vengono riportati davvero tanti, molti dei quali già letti nei testi originali di Freud; forse qui era il caso di essere un po’ più sintetico (anche perché poi, alla fine, le cause delle malattie per la psicanalisi sono sempre le stesse, più o meno).

Inoltre, Stone avrebbe fatto bene ad essere più sintetico anche sulle parti che riguardavano le vacanze: ogni anno in estate la clientela di Freud andava in villeggiatura, e siccome il dottore restava quasi senza nulla da fare, si godeva anche lui le vacanze. Ecco: descrivere le varie case o alberghi con i dintorni, nonché le attività con cui trascorrevano le giornate (passeggiate e passeggiate!), alla fine allunga molto il libro senza dire nulla di concreto sulla vita del protagonista.

A parte questi due punti, libro consigliato a chiunque interessi la vita di questo pioniere della mente umana.

 

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La tedesca, di Alessio Alessandrini, presentazione a S. Stino di Livenza (VE)

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Sono stata ieri sera a questa bella presentazione del romanzo (basato su fatti realmente accaduti) del prof. Alessandrini. Ha parlato per un’ora e mezza senza mai far calare l’attenzione e mentre spiegava la genesi e la storia del libro, ha proiettato foto e documenti d’epoca davvero interessanti.

Non si tratta di una storia facile, perché al centro c’è la vicenda di una donna uccisa dai partigiani. L’autore ha subito messo in chiaro che lo scopo non era prendere le parti di partigiani o di fascisti, ma di raccontare dei fatti che stavano per venir dimenticati (come dimostrano le croci accanto a molti nomi elencati nella parte dei ringraziamenti). Considerando questo obiettivo, mi ha lasciata un po’ perplessa quando ha detto che una volta pubblicato il romanzo, sia i discendenti della vittima che quelli degli assassini, non abbiano più voluto aver a che fare con lui (salvo un paio di eccezioni).

Gli uni avrebbero voluto che il libro dipingesse tutti i partigiani come sadici assassini; gli altri avrebbero voluto che i loro avi fossero stati scagionati, e che la vittima apparisse in veste di spia dei tedeschi.

Alessandrini, che ha lavorato almeno cinque anni su fonti documentali di varia origine, non ha potuto prendere le parti di nessuno: da un lato le carte dimostravano che la Tedesca si era davvero prodigata presso i comandi di occupazione tedesca per aiutare i suoi compaesani; dall’altro il valore della resistenza dovrebbe essere, come ha detto l’autore “ormai sedimentato”, e non si dovrebbe aver paura di riferire eventi come questi, anche se macchiano l’idea monolitica che tendiamo a farcene.

Alessandrini ha ammesso di essersi chiesto se, sulla scorta di tutta la documentazione raccolta, dovesse pubblicare un saggio o un romanzo. Ha optato per il romanzo in modo da salvaguardare anche il lato emozionale della vicenda personale, senza però mai rinunciare a delle digressioni sulla Storia di quel periodo.

Penso abbia fatto bene.
Innanzitutto, un romanzo ha più probabilità di venir letto di un saggio.
E poi, anche se ci vantiamo della nostra razionalità, di fatto siamo esseri emozionali: sono le emozioni alla fine a farci muovere (come ci suggerisce anche l’etimologia del termine).
Se è vero che la storia che non si conosce è destinata a ripetersi, è anche vero che ciò che conta è il modo in cui si conosce la storia. Un elenco di date e battaglie non ci smuove niente tra le costole. Ma se ci affezioniamo a una figura di cui leggiamo gioie e timori, la nostra empatia diventa un pochino più forte.

Certo, alla fine qualcosa però bisogna leggere… e qui mi tocca dire che alla presentazione ieri sera c’erano poche persone di S. Stino. Un po’ vergognoso: l’autore meritava davvero una platea più polposa.

Quando mi sono trasferita da Gainiga a S. Stino ero tutta contenta perché, sapendo che c’era addirittura (!) un centro culturale, mi son detta: chissà quanta gente legge in quel paese!

Come non detto.

Ma torniamo al libro. A Flaibano, in Friuli, dove la Tedesca ha vissuto, i cittadini attendevano l’uscita del romanzo con trepidazione.
Come dicevo, la storia si stava perdendo: nessuno conosceva i dettagli, non si capiva bene chi era stato ad uccidere la donna, c’era il dubbio che qualche concittadino avesse partecipato all’esecuzione e, non sapendo come erano andate le cose, giravano invenzioni anche piuttosto truculente. Era una vicenda di cui si preferiva non parlare e in paese aleggiava un vago senso di colpa per non aver potuta salvare la Tedesca. Il libro ha fatto luce, ha fatto diradare la nebbia che campeggiava nella memoria e nelle conoscenze di molti anziani presenti in sala.

Non ho ancora finito di leggere il romanzo, sono solo a pag. 50.
Se la vicenda e il lavoro documentale mi sono abbastanza chiari, non posso ancora giudicare granchè il romanzo in sé. Di sicuro è un lavorone e capisco quando l’autore dice che è stata una fatica raccogliere tanti dati.
Però non posso sempre parlar bene dei libri, qualche pecca la devo trovare. E a mio parere ci sono troppi avverbi in -mente.

Un ultimo appunto: la copertina riporta il quadro di Salvatore Errante Parrino, anche lui a sua volta scrittore, il cui ultimo libro lo ho recensito qualche post qui sotto.

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