Category Archives: success

Leggere Lolita a Teheran – Azar Nafisi @AdelphiEdizioni

Lo sapevate che tra i rimedi consigliati per placare il desiderio maschile c’è il sesso con gli animali? E qui sorge un problema non da poco: il sesso con i polli. Ad esempio ci si può chiedere se un uomo che ha fatto sesso con un pollo lo possa poi mangiare. Ma niente paura, il nostro leader ha pronta pe noi la risposta: no, né lui né i parenti più stretti possono mangiare la carne di quel pollo. Semmai, possono farlo i vicini, sempre che vivano ad almeno due porte di distanza.

Sono indicazioni fornite da un’opera dell’ayatollah Khomeini. Un’opera caldamente raccomandata per la lettura delle giovani generazioni, mentre autori “perversi” come Nabokov, James, Joyce e Austen erano visti come altamente immorali.

E’ questo il clima in cui Azar Nafisi si è trovata ad insegnare letteratura all’università.

Lei, che veniva da una famiglia colta, che di generazione in generazione si è distinta in Persia/Iran per le opere letterarie, si è trovata ad essere testimone (e a volte vittima) di ogni forma di sopruso che la mente umana possa immaginare.

Immaginare?

Verbo importante. Perché sembra che un regime – per tenerti controllato – cerchi di privarti anche della tua immaginazione.

Questo libro-memoir nasce dall’esperienza della Nafisi con un gruppo scelto di sue studentesse: per diciotto anni si sono incontrate a casa della loro insegnante per parlare di letteratura.

Erano ragazze che uscivano dalla realtà iraniana del tempo, dai ricordi di punizioni corporali e psicologiche, da limitazioni e umiliazioni, per entrare nel mondo della letteratura. E per poi scoprire che i romanzi, alla fine, parlavano proprio del mondo in cui vivevano.

Guardiamo James, ad esempio:

In quasi tutti i suoi romanzi la lotta per il potere – che è poi il motore dell’intreccio – nasce dalla resistenza dei personaggi alle convenzioni sociali, e dal loro desiderio di conservare, insieme alla stima altrui, la propria integrità.

Ma anche un romanzo come Lolita, che è solitamente considerato un’opera erotica, viene letto alla luce della loro esperienza quotidiana: e Humbert Humbert diventa un simbolo dell’uomo malvagio perché è totalmente insensibile, perché è incapace di mettersi nei panni altrui, di provare empatia, di vedere le persone per come sono, con le loro luci e le loro ombre. Insomma: un romanzo che denuncia il totalitarismo, che distingue le persone in amici e in nemici, in buoni e cattivi.

Vi dice niente che ci riguardi da vicino?

Infine, un ultimo estratto, per mostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, la necessità che ha un regime illiberale di manipolare le informazioni:

Ogni giorno il governo faceva arrivare dalla provincia e dai villaggi autobus carichi di dimostranti che l’America non sapevano nemmeno dove fosse, e a volte pensavano che li stessero portando proprio là. Si vedevano regalare cibo e qualche soldo, e passavano la giornata a divertirsi e a far merenda con le famiglie davanti al covo di spie. In cambio dovevano semplicemente gridare “Morte all’America” e bruciare una bandiera ogni tanto.

Leave a comment

Filed under authobiographies, autobiografie, book, Libri, Libri & C., Poetry, Saggi, Scrittori iraniani, success

Gurdjieff, viaggio nel mondo dell’anima – Joe Santangelo

Se prima di leggere questo libro non sapevo chi era Gurdjieff, ora ne so poco di più. E’ un libro-omaggio, ben documentato, scritto con passione e gratitudine, ma il suo scopo non era quello di sviscerare il personaggio: sarebbe impossibile.

Per alcuni Gurdjieff era un maestro di vita, per altri un insegnante di danza, per altri un filosofo, un imbroglione, un mago, un ipnotizzatore… la lista è lunga. Di sicuro era un uomo carismatico, che è riuscito a stringere attorno a se una folta schiera di… studenti? Forse “ricercatori” è la parola più adatta.

Gurdjieff si occupava dell’anima. Ma per far ciò, doveva occuparsi dei corpi, delle emozioni, delle vite intere dei suoi seguaci. Seguaci che erano disposti a mollare famiglie e ricchezze pur di seguirlo.

Forse non è preciso dire che Gurdjieff si occupava dell’anima, perché sosteneva sempre che l’uomo ne nasce privo: l’anima bisogna meritarsela. Con la fatica, con la sofferenza (consapevole), con l’autosservazione, con l’ancoraggio nel presente, col controllo delle emozioni negative, silenziando il chiacchiericcio psicologico e risparmiando energia per dedicarsi al Lavoro.

La prima parte del libro è quasi una biografia: ma scordatevi di trovarci episodi eclatanti, scabrosi o esoterici. Ce ne sono solo accenni, di sfuggita, e non sono quelli che contano. Ciò che conta è la Verità e la guerra agli automatismi, alle abitudini, allo spreco di energia.

Non è un Lavoro per tutti: solo in pochi riescono a sopportarne la tensione, ma la ricompensa è l’Anima.

In realtà di “magico” il Sistema non offre nulla. Per il Sistema l’unica, autentica magia consiste nel “potere di fare” (…).

Questo è un libro molto lontano da un manuale: non ci sono consigli pratici, non ti dice fai questo, fai quello. Si legge di alcuni esercizi che Gurdjieff affibbiava ai suoi studenti: ad esempio, scavare, in un ben definito lasso di tempo, buche di dimensioni ben precise, per poi riempirle fino a renderle invisibili.

Lo stesso viaggio che ha fatto fare ai suoi studenti attraverso l’Europa in cerca di un luogo dove piantare la propria scuola è stato un esercizio: attraverso guerre, massacri, morte. Ma loro sono passati indenni, e ancora non si capisce bene come. Chi parlava di preveggenza, chi di magnetismo animale, chi di ipnosi… fatto sta, che quando sono arrivati, erano diversi da come erano partiti.

Insomma, quando ho messo giù il libro dopo aver chiuso l’ultima pagina, mi è rimasta la domanda: ma chi era Gurdjieff?

E’ però una domanda che potrebbe applicarsi a chiunque, perché abbiamo sempre bisogno di etichette: è più facile che dedicarsi all’Essenza di una persona.

Allora prendo solo un periodo, tra i tanti che mi sono rimasti impressi del libro, e ve lo riporto qui, perché leggendolo mi è sembrato di vedere tutta la schiera di persone (persone!) che passa ore e ore davanti agli schermi dello smartphone o davanti a schermi ultrapiatti da cui fuoriescono notizie inutili e dannose:

E’ necessario soltanto che egli impari a economizzare, in vista di un lavoro utile, l’energia di cui dispone, e che, per la maggior parte del tempo, dissipa in pura perdita. L’energia viene soprattutto spesa in emozioni inutili e sgradevoli, nell’ansiosa attesa di cose spiacevoli possibili e impossibili, consumata dai cattivi umori, dalla fretta inutile, dal nervosismo, dall’irritabilità, dall’immaginazione, dal sognare a occhi aperti e così via. (…)dalla tensione inutile dei muscoli, sproporzionata rispetto al lavoro compiuto; dal perpetuo chiacchierare, che ne assorbe una quantità enorme, dall’interesse accordato ininterrottamente alle cose che non meritano nemmeno uno sguardo; dallo spreco senza fine della forza di attenzione; e via di seguito.

Leave a comment

Filed under automiglioramento, biographies, book, Libri & C., purposes, Saggi, Scrittori italiani, success

Shock politics, Naomi Klein

Quando Katrina si abbatté sulla costa del Mississippi nell’agosto 2005, era stato abbassato da uragano livello 5 a un ancora devastante livello 3. Ma quando arrivò a New Orleans, aveva perso quasi tutta la sua forza, venendo declassato a “tempesta tropicale”.

(…) una tempesta tropicale non avrebbe mai sfondato le difese di New Orleans contro le alluvioni. Invece Katrina ci riuscì perché gli argini artificiali che proteggono la città non ressero. Perché? Oggi sappiamo che, nonostante i ripetuti allarmi sui rischi, il Genio militare aveva lasciato che i levees (argini, n.d.t.) non avessero una manutenzione sufficiente.

Attenzione: le case più esposte alla furia delle acque sarebbero state quelle nel Lower Ninth Ward, dove gli abitanti erano quasi tutti di colore. D’altronde, se fai una guerra sistematica al settore pubblico, è ovvio che i soldi non vanno alle infrastrutture di utilità pubblica (ma piuttosto alla polizia e all’esercito).

Cosa è successo dopo l’alluvione? Che tutte le strutture federali adibite ai soccorsi hanno fatto cilecca. Ci sono voluti cinque giorni prima che portassero cibo e acqua alle famiglie abbarbicate sopra i tetti.

Risultato:

I bisognosi, lasciati in città senza cibo né acqua, fecero quello che avrebbe fatto chiunque nelle medesime circostanze: si presero le provviste dai negozi del posto. Fox News e le altre testate ne approfittarono per definire i residenti neri di New Orleans “saccheggiatori” che presto avrebbero invaso le parti asciutte e bianche della città.

Dunque… bisogna difendersi, no? E allora ecco i poliziotti che sparavano a vista ai residenti neri e “bande di vigilantes bianchi armati che battevano le strade in cerca dell’occasione per dare la caccia ai neri.”

Per non parlare delle guardie private di compagnie come la Blackwater arrivate di fresco dall’Iraq.

Capito? “Guardie private“. In America si privatizza tutto (voi lo sapevate che anche molte prigioni sono private? E anche i servizi di addestramento dell’esercito e della polizia: sono i privati che addestrano i militari, incredibile).

E la Fema, l’agenzia federale adibita ai soccorsi? Si era appoggiata a un’agenzia privata per allestire i campi base per i soccorritori: allestimento che venne pagato 5,2 milioni di dollari e che non venne mai portato a termine.

Ma, direte, poi l’emergenza è finita. Sì, però, guarda caso, la tragedia è diventata la scusa per privatizzare quanto più possibile: largo alle multinazionali! Tra le prime istituzioni da privatizzare ci sono state le scuole. Milton Friedman, il teorizzatore del neoliberismo, lo ha detto chiaro e tondo, che l’uragano “è anche l’occasione buona per riforare radicalmente il sistema scolastico”.

Nel giro di un anno, New Orleans diventò il sistema scolastico più privatizzato negli Stati Uniti.

Ma non è finita qui.

Nei mesi successivi all’uragano

(…) furono abbattute migliaia di unità abitative pubbliche, molte delle quali avevano subito danni minimi perché si trovavano in un punto elevato, per essere sostituite da condomini e torri abitative dal costo irraggiungibile per chi aveva vissuto lì in precedenza.

E, ovviamente:

Per compensare le decine di miliardi che andavano ai privati come contratti ed esenzioni fiscali, nel novembre 2005 il Congresso a maggioranza repubblicana annunciò che doveva tagliare 40 miliardi dal bilancio federale. Tra i programmi falcidiati: prestiti studenteschi, Medicaid e buoni alimentari.

Scandalo isolato? Colpa dell’amministrazione Bush?

Purtroppo no.

Questo è solo uno dei tanti casi della deriva neoliberista che sta prendendo piede nel mondo.

In copertina vediamo la sagoma di Bush, ma Bush è solo l’esempio più visibile. La strategia è quella di creare o di approfittare di crisi esistenti per varare tutta una serie di politiche illiberali favorevoli a una minoranza di ricchi. E il guaio è che si tratta di un serpente che si morde la coda: la crisi del 2008, di cui stiamo ancora scontando gli effetti, è stata causata dalla deregulation voluta da Clinton. E tranquilli: sarà causa di altre crisi finanziarie simili.

Capito? Si riducono i controlli sulle banche, per favorire i loro profitti, e si mettono a repentaglio i risparmi delle famiglie. Goldman Sachs e Lehmann Brothers sono tra le aziende più rappresentate nell’attuale governo Trump!

Ma se vogliamo parlare del governo americano, possiamo tacere che nel suo esecutivo ci sono solo miliardari? E pieno di rappresentanti di multinazionali con palesi conflitti di interessi (come può la Exxon, i cui miliardi dipendono dal settore petrolifero, favorire le energie verdi?).

E Trump?

Oh, Trump (che si è pubblicamente vantato di aver evaso il fisco e il cui patrimonio non è noto) ha lasciato le sue aziende in mano ai figli, vero (anche se non ha rinunciato ai profitti che queste aziende producono).

Però attenzione: Trump è un logo. Un marchio. Lui guadagna sulle royalities che i costruttori gli pagano per usare il suo nome su un campo da golf o su un grattacielo. Trump non è più un immobiliarista: guadagna sui diritti di sfruttamento del suo logo.

Vi rendete conto che incassa miliardi ogni minuto che passa alla Casa Bianca? Che chi è in grado di pagare il suo marchio su un albergo, può dire “sul mio albergo c’è il nome del presidente degli Stati Uniti”?

Le multinazionali (e Trump è una multinazionale) non producono quasi più niente: fanno outsourcing (in Cina, India…) e appiccicano etichette. Poi, è tutta questione di pubblicità.

Trump… D’altronde, bastava leggere i suoi libri: vinci e schiaccia chi rimane indietro. Non lo dice in modo velato, signori miei. E’ la tattica che ha usato per fare i soldi. Se dobbiamo riconoscergli un pregio, è che è sincero: lo ammette. Ammette che ha frodato il fisco perché è più furbo di altri.

Allarghiamo la visione: e il settore ambientale? Il neoliberismo ne è infastidito. Diffonde finta scienza, nega il riscaldamento globale (negli Stati Uniti, sono stati chiusi tutti i siti governativi che ne parlavano!)… come se non ci accorgessimo che inondazioni e trombe d’aria ci minacciano sempre più spesso negli ultimi anni. C’è ancora qualcuno che non collega il riscaldamento globale al cambiamento climatico in atto???

Ma Trump (e quelli come lui sparsi in altri governi mondiali) dice che c’è bisogno di petrolio. Che bisogna continuare con le perforazioni e con la posa di condutture e con le trivellazioni polari.

Per ora va tutto a rilento. Ma tranquilli: è solo perché il prezzo del petrolio non è abbastanza alto, e le trivellazioni in zone ghiacciate costano un botto. I neoliberisti aspettano solo la prossima crisi (una guerra sarebbe perfetta!) per sfruttare l’aumento del prezzo del petrolio.

Crisi, shock: ecco cosa serve a questa gente. Scuse per privatizzare servizi pubblici. Per far guadagnare aziende private.

Che poi, diciamo Trump, ma noi in Italia abbiamo avuto Berlusconi: siamo caduti anche noi nell’illusione che un miliardario, per il solo fatto di aver costruito un impero, potesse voler guidare un paese per soli scopi umanitari.

Viviamo in un film della DC Comics? Crediamo ancora che possa esistere un miliardario filantropo alla Bruce Wayne che si sacrifica per i cittadini?

Naomi Klein fa appello a noi, poveracci. Perché, tutti insieme, possiamo fare qualcosa, fornire alternative. E il boicottaggio è solo una strada.

Nelle ultime pagine, Naomi Klein afferma che per attuare un cambiamento totale, abbiamo bisogno di più utopia, di più sogni, di più visioni grandiose; non di aggiustamenti minimi in direzione di una maggiore giustizia sociale (solo un pochetto di più). Mi sembrava un’affermazione un po’ ingenua, ma devo fissarmi da qualche parte questo pensiero di Eduardo Galeano:

L’utopia è come l’orizzonte. Mi avvicino di due passi, e lei si allontana di due passi. Faccio altri dieci passi e l’orizzonte si allontana di altri dieci. Per quanto io possa avanzare, non lo raggiungerò mai. Allora che senso ha l’utopia?

Il senso è: continuare ad avanzare.

Leave a comment

Filed under automiglioramento, book, Canadian writers, Libri, Libri & C., purposes, Saggi, success

Maria Callas (1)

MARIA CALLAS INTIME – Anne Edwards (English version: below)

Questa biografia è così zeppa che devo dividerla in due post.

Maria Callas è nata negli Stati Uniti da genitori greci. La madre, appartenente alla buona borghesia ateniese, dopo un po’ si è stancata del marito, George, che l’ha portata negli States senza praticamente avvisarla che aveva venduto la farmacia per comprare i biglietti per tutta la famiglia (della serie: arriva a casa alla sera e dice: “sorpresa!!!).

La madre della Callas ha un ruolo importantissimo nella sua carriera, perché è stata lei ad instradare la figlia e a spostare mari e monti pur di farle frequentare le scuole giuste e incontrare le persone che contano.

E’ arrivata a sfruttare la figlia più grande, Jackie, trasformandola nell’amante di un riccone, pur di disporre dei mezzi necessari al loro ménage (anni dopo, si giustificherà dicendo che sua figlia comunque lo amava). Era una donna che puntava in alto, non importava il prezzo; per esempio imbrogliò sulla data di nascita di Maria per farla accettare in una scuola prestigiosa e distrusse quasi tutte le lettere che il padre spedì alle figlie dopo che lei le aveva riportate in Grecia, lasciandole vivere nel dubbio di esser state abbandonate da un genitore.

La Callas, da adolescente, era timidissima (e pure brutta, diciamolo). Però ha sempre avuto una bella voce e, soprattutto, la forza d’animo necessaria per sottoporsi a una disciplina di lavoro molto pesante.

Per molti anni soffrì di disturbi alimentari: complice anche gli orari assurdi, mangiava di notte, o di nascosto, arrivando a sfiorare i cento chili (era alta 1,65 m).

Sposò un ricco industriale, Meneghini, di trentacinque anni più vecchio di lei. Era però una coppia scoppiata fin dall’inizio. Lui non voleva accompagnarla nelle tournée, preferiva stare a Verona, vicino alla propria famiglia (e qui, la biografa si lascia scappare un commento circa la difficoltà degli italiani a tagliare i cordoni ombelicali). Questa fu la causa di non pochi dissapori nella coppia, perché i parenti di Meneghini disprezzavano Maria – era figlia di un umile farmacista, ed era greca, una nemica, secondo la mentalità del secondo dopoguerra.

La Callas riesce a dimagrire (35 kg in due anni) dopo aver visto Audrey Hepburn in Vacanze Romane ed essersi innamorata della sua figura longilinea; ma anche dopo essersi innamorata (nel senso vero, stavolta) di Luchino Visconti, nobile romano, fine, ricco, acculturato. Gay…

La cantante passa dalla gioventù in sordina, sola, disprezzata ed evitata dalle coetanee, ad essere una diva mondiale, una “tigre” secondo alcuni giornali, che danno più importanza alle sue sfuriate che alla sua capacità artistica.

Trovo che le metamorfosi siano sempre affascinanti.


 

This biography is so full of events and details that I must split it in two parts, otherwise posts become too long.

Maria Callas is born in Greece.

Her father is a druggist. One day, he comes home and shouts: “Surprise! I have sold my shop: we move to the United States!”

His wife is astonished: she has not been informed in advance. They have a little daughter, and she is pregnant of Maria. Evangelia, Maria’s mother, belongs to high burgeoise class and does not expect to live under some levels: but this is exactly what she must do in the first period in New York.

Evangelia has a big role in Maria Callas’ career. She is the one who chooses the best schools and she even exploites the bigger daughter to get money to pay all expenses (the young will be forced to become the mistress of a rich man).

But Evangelia does not do just this. For instance, she puts the wrong Birth date on a document, so that Maria can be accepted into a prestigious school. Not only this: when she leaves her husband and comes back to Greece, she destroyes all letters that the father writes to her daughters, letting them think that the man had abandomned them…

As a teenager, Maria Callas is not a beauty at all. She is very shy and fat. But she is ready to work, a lot. But… a lot!!

She marries a rich business man (35 older than she). He becomes her manager, but he does not like to follow her in her tournées. Moreover, his family despissd Maria Callas: at the end, she is the daughter of a chemist, and she is greek (do not forget that the second world was had just finished).

She manages to loose 35 kg in two years when she falls in love with Luchino Visconti, a rich and well educated man of the roman high class. Actually, he is gay… she has her troubles in understanding his sexual choices and she often is very annoying with him.

At the moment I ready only half book: but I love metamorphosis!

7 Comments

Filed under biographies, book, Libri, Libri & C., Saggi, Scrittori americani, success

L’arte di insegnare il riordino ai bambini, Nagisa Tatsumi @illibraio

Quando scriveranno il manuale intitolato “L’arte di insegnare il riordino ai mariti”???

Mentre lo aspetto, leggo la Nagisa Tatsumi, che parla di bambini.

La Nagisa, che ammette di non essere un asso nel riordino, segue regole ben precise nell’educazione dei figli.

Bisogna dare un luogo ad ogni cosa, stare attenti alle quantità, rivedere periodicamente quantità e utilità.

Bisogna inoltre insistere sulla necessità di rimettere subito a posto gli oggetti che si usano (i bambini sono procrastinatori laureati) e scegliere con cura i luoghi in cui mettere gli oggetti (perché se un bambino deve salire su una sedia per mettere via un libro sullo scaffale in alto, fidatevi: non lo farà).

I suggerimenti della Nagisa partono da un principio di base: bisogna portar rispetto agli altri.

Ne derivano alcuni corollari da cui non si può prescindere (e ai quali dovrebbero attenersi anche i mariti): nei luoghi comuni non si devono lasciare oggetti personali, e il riordino può diventare un’attività da svolgere tutti assieme (tutti = mariti inclusi).

Vi lascio leggere il libro da soli per scoprire i vari suggerimenti concreti. Niente di trascendentale: l’autrice usa solo buon senso e un po’ di creatività (neanche tanta). L’utilità di questi libri è che ti ispirano.

Ti ispirano a razionalizzare la casa.

Almeno per il tempo durante il quale dura la lettura. Io so già che da domani, quando avrò messo via il volumetto, mi dimenticherò di insistere con mio figlio affinché asciughi il lavello dopo essersi lavato i denti… perché mi stufo.

Faccio prima a farlo io.

Sbaglio, lo so. Mio figlio diventerà come mio marito.

Cosa ho detto? No! Non posso permetterlo! No, ora mi scrivo un reminder grande come la parete del corridoio: Insegna a tuo figlio a riordinare!!

Scherzi a parte, adoro gli autori giapponesi.

Ho scoperto due cose carine sulla cultura del Sol Levante.

Uno: prima di mangiare tutti si fanno, a turno, il bagno nella stessa acqua. Anche gli ospiti. Non preoccupatevi: prima di entrare in vasca, ci si lava sotto la doccia. Però… ecco, leggere una cosa del genere, mi ha fatto venire i brividi lo stesso.

Due: non capivo perché l’autrice insistesse tanto sul dilemma “cameretta sì – cameretta no”. Si chiede infatti se è il caso di dare una camera personale al bambino, almeno a partire da una certa età. Sembra che in Giappone ci sia stato molto dibattito in merito, soprattutto perché molti adolescenti diventano hikikomori.

Gli hikikomori sono stati riconosciuti dal governo giapponese come fenomeno sociale a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Si tratta di soggetti che dimostrano perdita di interesse per la scuola o il lavoro e che si ritirano completamente dalla società per più di sei mesi; sono inclini alla malinconia, se non alla depressione, e trascorrono il tempo leggendo manga, navigando su internet o semplicemente oziando nelle loro camere.

Non è l’esistenza degli hikikomori, che mi lascia perplessa. E’ la necessità (tutta giapponese) di doversi riconoscere a livello governativo.

Leave a comment

Filed under book, Libri, Libri & C., purposes, Saggi, Scrittori giapponesi, self-help, success

Leggere libri in lingue straniere? @lingosteve

Il mio primo libro in tedesco l’ho letto ai tempi dell’università: avevo trovato sul treno “Dieser Hunger nach Leben” (Fame di vita), forse abbandonato di proposito. Sull’ultima pagina, il precedente proprietario (o proprietaria?) aveva scritto una lista di lingue, tre o quattro, e accanto ad ognuna di esse c’era un visto, come per dire: “Inglese: fatto. Francese: fatto. Tedesco: fatto.”

Mi son subito detta: “E io?”

Così mi son data da fare. Sì, avevo studiato tedesco alle superiori e all’università, ma leggere un libro dalla prima all’ultima pagina… vi assicuro che è stata un’impresa molto faticosa e le pagine erano tutte bagnate del mio sudore. Però alla fine: che soddisfazione!

Poi ho iniziato a lavorare in un ufficio vendite estero; l’aggiornamento delle lingue era necessario (io sono laureata in scienze politiche, non in lingue), e mi son detta: perché non approfittarne per fare quello che mi piace di più, e cioè, leggere??

I primi capitoli sono sempre i più difficili, ma poi si prende velocità.

A maggio ho iniziato a studiare spagnolo. Non solo per lavoro. Anzi, forse il lavoro qui c’entra poco. Qui c’entrano di più i sogni: un giorno, vorrei andare ad abitare in Costa Rica. Possibilmente prima della pensione.

Lo spagnolo è solo apparentemente simile all’italiano: ci sono tantissimi false friends e tanti altri vocaboli che non hanno alcuna assonanza con la mia lingua e, avendo iniziato due mesi fa a studiarlo, sto facendo fatica a leggere le leggende del Popol Vuh (Messico).

Sto applicando però una tecnica diversa da quella che ho sempre utilizzato a scuola e nei corsi di lingua. Mi sono documentata e sembra che il modo migliore per imparare sia quello scoperto da Stephen Krashen (in realtà ci sono stati altri linguisti che hanno affrontato l’argomento prima di lui, non ultimo, Chomsky).

Krashen sostiene che la seconda lingua si impara meglio se sussistono i seguenti presupposti:

a) lo studente si espone a un afflusso massiccio di input comprensibili: cioè, se ascolta molto e legge molto nella lingua bersaglio. I testi devono essere comprensibili attorno all’80%, cioè ci deve essere una piccola percentuale di strutture e vocaboli ancora sconosciuti, ma il cui significato può essere dedotto dal contesto (e dalla voglia, o dalla necessità, di capire)

b) lo studio avviene in maniera rilassata: cioè se non c’è l’ansia per il voto e se non c’è paura di essere continuamente interrotti da correzioni.

Durante i mesi di esposizione massiccia agli imput, lo studente non parla. O non è necessario che lo faccia. Si trova nel silent period: il periodo in cui il cervello sta assorbendo informazioni e si sta abituando alla nuova lingua.

Il periodo silenzioso non ha una durata prefissata, dipende da molti fattori: vicinanza della lingua straniera alla materna, tempo dedicato allo studio, stato emotivo dello studente, ecc… Però, una volta assorbiti input in quantità sufficiente e per un periodo di qualche mese, se si è esposti alla lingua target, si riesce a esprimersi con fluidità nel giro di due o tre giorni.

Sembra magia, ma ho visto che ci sono molti poliglotti (es. il canadese Steve Kaufmann, l’italiano Luca Lampariello e molti altri) che adottano questa tecnica, magari con poche varianti.

E la grammatica? La assorbi insieme ai fondamenti della lingua durante il periodo silente. Se poi vuoi, la puoi approfondire: come fanno i bambini, che non parlano subito, e, quando iniziano a studiare grammatica alle elementari, sanno già parlare.

Che affascinante!

Sto provando a seguire questa strada per imparare lo spagnolo: scarico podcast in lingua e li ascolto, almeno mezz’ora al giorno, mentre cucino o faccio pulizie. Sto adottando solo una piccola variante per la lingua scritta: copio brani in lingua in cui compaiano parole nuove. Questo mi permette di esercitare anche la scrittura.

Se la teoria è giusta, tra tre mesi dovrei riuscire ad esprimermi con fluidità.
Quizas…

13 Comments

Filed under Libri, Libri & C., purposes, Saggi, success

Le storie di Giacobbe – Thomas Mann

Se l’interesse per le storie bibliche precipita in caduta libera, non è perché esse siano noiose: sono, al contrario, piene di pathos, avventure, colpi di scena; ma il modo in cui vengono raccontate oggi negli ambienti religiosi è tutto fuorché avvincente.

Per fortuna ci sono gli scrittori…

“Le storie di Giacobbe” è il primo capitolo di una tetralogia. Inizia con un colloquio tra Giacobbe e il figlio Giuseppe vicino a un pozzo, di notte. Nessun dettaglio è superfluo: il pozzo rappresenta il passato, il regno dei morti, il mistero. La notte, con la luna, ammanta l’esistente di una luce particolare che ci permette di vedere le vicende passate in modo nuovo (e qui sorvolo sui richiami alle varie divinità lunari).

Qui è tutto un risalire alle origini (perfino delle piante e degli animali), al proprio passato: il mito si ripete, ci dice Thomas Mann, e i protagonisti stessi a volte, parlano al presente di eventi già trascorsi o usano i pronomi in prima persona quando in realtà stanno parlando di avi defunti molto tempo prima. Il mito è, non fu.

I personaggi biblici, che dalle letture in chiesa ci risultano così piatti e monotoni, qui sono descritti con tutti i loro pregi e difetti.

Giuseppe è un chiacchierone e spione: suo padre gli dice di non riferire certe cose ai fratelli, e lui fa il contrario. I fratelli combinano guai (più o meno gravi), e lui va a riferirlo al padre. Proprio di una simpatia unica.

Giacobbe ne ha fatte anche di peggio. Intanto, ha fregato la primogenitura al fratello Esaù imbrogliando il padre cieco (e pure, diciamolo, un po’ stupidotto).

Poi, a Schekem, non accetta di dare in sposa la figlia Dina al figlio del signorotto locale e questi la rapisce (faccio presente che a questo ragazzo era stato detto che avrebbe potuto avere la ragazza se si fosse fatto circoncidere, cosa che lui fece, ma inutilmente). I figli di Giacobbe, per vendicare l’onore della sorella, massacrano tutta la popolazione locale: Giacobbe non poteva non sapeva, ma li ha lasciati fare.

Quando i figli sono tornati da lui dopo aver compiuto scempi inenarrabili, Giacobbe ha brontolato, ha fatto la sua scenata, ma è comunque scappato portandosi dietro tutte le mandrie e il bottino (e questo signore qui si faceva chiamare Benedetto, perché diceva che le sue fortune gli venivano dal Signore… ah benon!)

Ah, per la cronaca: Dina è stata riportata in seno alla famiglia, ma era incinta. Giacobbe l’ha costretta ad abbandonare il figlio nel deserto appena nato…

Giacobbe non è neanche un mostro di intelligenza: si fa prendere per il naso per anni dal suocero Labano, che lo costringe a lavorare gratis per lui con la promessa di dargli in sposa la figlia Rachele, e quando arriva la notte delle nozze, non si accorge neanche che nel letto non c’è Rachele, ma sua sorella… (stesso imbroglio sull’identità che lui aveva fatto alle spalle di Esaù: chi fa la l’aspetti – ancora: il mito si ripete).

Insomma, questa gente non è proprio un modello di virtù.

Un altro messaggio che Thomas Mann vuole sottolineare (e lo fa spesso nel corso di questo romanzo) è che sono le passioni a muovere la storia: ecco perché la storia si ripete. Perché si ripetono le passioni. Ed ecco perché è necessario conoscere il passato, entrare nel pozzo, per capire meglio come comportarsi oggi.

Però una domanda mi sorge spontanea. Questo libro è uscito nel 1933, in piena ascesa dell’antiebraismo hitleriano. Considerando che brutta figura ci fanno qui gli ebrei, il romanzo va a rimpinguare la scorta di odio che già era notevole nel paese.

Perché Thomas Mann ha scelto proprio questo argomento in un periodo così poco consono?

1 Comment

Filed under book, Libri & C., scrittori tedeschi, success

L’arte di passare all’azione – Gregg Krech

Più che un manuale, questo libretto è un saggio per meditare sulla necessità dell’azione.

Si parla, sì, di agire, di fare piccole azioni piuttosto che star a pensare e ripensare sul passo da compiere, ma la gran parte del libro si occupa del farci riflettere sul perché.

Ad esempio: devo fare qualcosa di importante o solo di urgente? Pagare una bolletta può essere urgente, ma giocare con il figlio è importante. E’ questo il limite delle ormai diffusissime To-Do list, che comprendono un elenco delle cose da fare ma di solito ignorano ciò che ci sta più a cuore.

Altro esempio: Krech ci invita a riflettere sulla necessità di rallentare. E questa può essere una buona riflessione, però non l’avrei inserita in un manuale con un titolo che richiama l’azione tout court…

Ancora un altro esempio: pensiamo a quante volte la nostra inattività si ripercuote sulla sfera altrui. Siamo in ritardo dal dentista? Magari gli abbiamo fatto perdere un altro appuntamento, lo abbiamo fatto innervosire, causandogli un tremore della mano che può trasformarsi in un tocco meno delicato sul paziente successivo… non bisogna mai sottovalutare l’effetto domino della nostra inazione (e qui apro una parentesi: quando passerà di moda l’usanza di aspettare un quarto d’ora prima di iniziare una conferenza o un incontro di qualunque tipo per vedere se arriva qualcun altro??? Non è rispettoso per quelli che sono arrivati in orario!!!)

Nel libro si trovano diverse riflessioni interessanti:

Le persone sono piene di energia solo quando fanno le cose che amano.

Abbiamo molto più controllo sul corpo (azioni) che sulla mente (pensieri).

La mente e il corpo viaggiano su binari diversi.

L’autoriflessione ci aiuta ad essere grati della capacità di svolgere il nostro lavoro.

Tuttavia, i consigli concreti sono relegati nell’ultimo capitolo:

L’alternativa alla TV è riempire il tempo con la vita reale.

Molte volte l’errore è meno importante di ciò che fate dopo averlo commesso.

Quando date incoraggiamento agli altri, togliete nutrimento al vostro dolore.

La scelta giusta non esiste. E’ più intelligente cercare di dare il meglio di sé in ogni circostanza che smarrirsi nell’ansia di fare la “scelta giusta”.

Prendere decisioni in base allo scopo, anziché alle emozioni.

Non mi è piaciuto molto che ci fossero interventi di autori diversi: Krech li ha presi e li ha inseriti nel libro, ma sono argomenti che toccano l’azione solo lateralmente e nel completo l’opera risulta un po’ frammentaria.

Nel complesso, non è stato uno di quei libri pieni di ispirazione che non vedi l’ora di tornare a casa per leggerli (detto questo: leggetelo lo stesso, si impara sempre, magari anche da una frase sola, tipo questa: “L’azione è l’antidoto alla disperazione“).

Leave a comment

Filed under automiglioramento, book, Libri, Saggi, Scrittori americani, self-help, success

48 giorni per ottenere il lavoro che ami – Dan Miller

Perché lavorate?

La maggior parte della gente che frequento mi risponderebbe: per prendere uno stipendio.

Biiip! Risposta sbagliata.

Dan Miller ci propone subito una distinzione tra lavoro, carriera e vocazione.

Faccio un esempio: se io avessi la vocazione (calling) di aiutare a migliorare il mondo, potrei scegliere di fare il medico, il volontario, lo scrittore, l’insegnante, lo scienziato ecc. Queste sarebbero le carriere (career). Allo stadio pratico, però, la carriera può comprendere diversi tipi di lavoro (job): posso fare lo scrittore di romanzi, saggi, mailing list, pubblicità, testi teatrali, volantini politici… se scelgo la carriera di insegnante, posso rivolgermi a una classe di 32 bambini o scegliere una scuola serale per adulti o insegnare inglese in un paese del terzo mondo… se sono un dottore, posso fare il medico di famiglia, specializzarmi in pediatria, far consulenza per un’assicurazione ecc…

Il lavoro è l’attività concreta che vi porta lo stipendio in casa. Il problema è che quasi nessuno, all’inizio della propria esperienza lavorativa, programma il futuro tenendo conto di tutti e tre i seguenti aspetti: competenze, tendenze personali e desideri/sogni.

Le competenze (skills) sono ciò che sai fare: comprendono non solo ciò che si è imparato a scuola, ma anche le singole capacità acquisite nei lavori precedenti (amministrazione, capacità matematiche, organizzative, scrittura, gestione del personale, uso del computer, pianificazione…). Sono capacità che possono essere spese in diversi posti di lavoro.

Le tendenze personali si incentrano sulle preferenze caratteriali: ti piace di più lavorare in team o impegnarti su un compito per conto tuo? Ti piacciono i cambiamenti o sei più portato per l’abitudinarietà? Sei diretto nel parlare o sei più diplomatico? Hai molta fiducia in te stesso o tendi ad essere cauto?

Infine ci sono i sogni, i valori e le passioni: quello che ti rende felice quando lo fai. Che ti fa trascorrere il tempo senza guardare l’orologio. Quello che faresti anche senza riceverne una remunerazione in cambio.

Nella ricerca di un lavoro bisognerebbe integrare le competenze con le proprie tendenze personali senza mai dimenticare i sogni.

Per quanto vedo in giro io, invece, il primo problema usciti dalla scuola/università è trovarsi un lavoro. Qualunque lavoro. Circa l’80% dei diplomati e dei laureati viene impiegato in un campo che non ha nulla a che fare con quello che ha studiato: il che non è un male in sé, ma è solo il sintomo di una mancanza di programmazione.

E diventa un male quando la scelta iniziale fa “curriculum” e vincola l’assunzione nei lavori successivi.

Quando si cambia lavoro (e lo si può cambiare perché costretti da un licenziamento o per libera scelta), non bisogna farsi legar le mani dal proprio passato, ma concentrarsi sul futuro, su ciò che si vuol fare.

Dunque… è importante sapere cosa si vuol fare. Una buona parte della fatica nel cercare il lavoro, è data dallo studio su se stessi (skills, tendencies e dreams).

L’85% dei casi in cui la gente viene promossa o ottiene delle opportunità di carriera nelle aziende dipende da capacità personali – attitudine, entusiasmo, autodisciplina e capacità interpersonali. Il 15% dei casi di promozioni lavorative è dovuto a capacità tecniche o educative, oppure a credenziali varie. (trad.mia)

Si può essere un buon medico (job), dunque aver buone capacità (skill), ma non amare il proprio lavoro, ad esempio perché non si sopporta veder soffrire i pazienti (tendency) o perché si vorrebbe lavorare la terra (dream).

Paul Gauguin lavorava in banca prima di diventare pittore. Tom Clancy era un agente assicurativo prima di diventare scrittore. Paul Newman era un operaio edile, prima di diventare attore. Nessuno di questi personaggi si è lasciato vincolare dal proprio curriculum.

Il difficile è:

  1. fidarsi dei propri sogni e
  2. mettere in modo un piano d’azione

Il libro di Dan Miller ci ispira a prendere in mano la nostra situazione lavorativa (e non solo).

Ha solo un difetto, ed è quello a causa del quale non verrà mai tradotto in Italia: inserisce, quasi ad ogni pagina, un riferimento a Dio e alla Sua volontà.

Dan Miller è figlio di un predicatore americano ed è cristiano praticante.

Io non sono cristiana osservante, e tutti questi riferimenti alla volontà di Dio, ai suoi progetti su di me ecc… mi ha dato un certo fastidio, all’inizio. Poi però il fastidio l’ho superato, non è grave, se i consigli alla fine sono ragionevoli. Il libro sta in piedi anche senza questi riferimenti divini.

2 Comments

Filed under automiglioramento, book, Libri & C., purposes, Saggi, Scrittori americani, self-help, success

La trama della vita – Jerome Kagan

Genetica o ambiente?

Ecco di cosa tratta questo saggio di Kagan. Genetica e ambiente sono due fili che si intrecciano fino a dar vita a un tessuto il cui colore è una cosa diversa da quello dei fili che lo compongono: i fili possono essere bianchi e neri, ma il tessuto finale sarà grigio. Ecco perché è così difficile capire da cosa derivano alcuni tratti del nostro carattere: perché predisposizione e cultura sono così ben intrecciati tra loro da perdere la loro identità originaria.

L’influenza dell’ambiente comincia a farsi sentire già dentro alla pancia della mamma:

(…) alcune madri canadesi che nel 1998 erano state esposte a una violenta tempesta di ghiaccio quando si trovavano nel secondo trimestre di gravidanza ebbero maggior probabilità di dare alla luce bambini che presentavano impronte digitali diverse sulle dita corrispondenti delle due mani: un segno di sviluppo disturbato che si riscontra con frequenza in adulti affetti da schizofrenia.

Ma non tutti quei bambini sono diventati schizofrenici da adulti!! (Per la cronaca, la differenza nelle impronte digitali delle due mani ce l’ho pure io…)

La predisposizione però, sebbene non ci possa aiutare nel prevedere come si svilupperà un certo bambino, ci può dire con un buon grado di certezza cosa quel bambino NON diventerà: è raro, se non impossibile, che una personalità sensibile e ipereccitabile (carattere dovuto a una certa conformazione del cervello presente fin dalla nascita) da adulto diventi estroversa ed espansiva.

Kagan scende molto nel dettaglio dell’analisi sia dei fattori genetici (tipi temperamentali, segni biologici, reattività), sia dei fattori ambientali (pedigree familiare, ordine di nascita tra fratelli, classe sociale, etnia, dimensioni della comunità, periodo storico, sesso…).

Vi dirò: per i miei scopi, è sceso anche troppo nel dettaglio. Nonostante alcuni paragrafi fossero interessanti, e anche se ho apprezzato molto i suoi commenti sull’impossibilità di sfruttare la scienza per indirizzare moralmente certe scelte, alla fine il succo di tutto è che genetica e ambiente si mescolano, si mescolano, si mescolano.

Un colpo al cuore me l’ha l’epigenetica: certi eventi significativi nella vita di una persona possono modificare l’espressione genica. E i geni così modificati possono essere trasmessi alla prole.

Dunque, mai dare niente per scontato.

Niente è immodificabile (buddhismo a manetta).

Questo ci dà sempre speranza, ma anche più responsabilità.

Leave a comment

Filed under book, Libri & C., Saggi, Scrittori americani, success