“Ho comprato il Corso di VITTORIO SGARBI: argomentazione e dialettica NON PERVENUTE” su YouTube

Sgarbi, che notoriamente non sa argomentare e sa solo urlare e insultare, senza la minima attitudine a prendere un considerazione quello che dice l’interlocutore, vende a 180€ un video corso (che in realtà è un monologo senza esercizi) sulla dialettica e l’arte di avere ragione…

Pensateci due volte prima di comprarlo.

Vi lascio una video recensione qui.

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Autonomia non significa solitudine

MEGLIO SOLE (Ivana Castoldi)

Sfatiamo subito ogni dubbio: a dispetto del titolo, la psicoterapeuta Ivana Castoldi non ci sta dicendo di mollare mariti e compagni, ma di smetterla di essere dipendenti. La dipendenza ha molte declinazioni: non solo economica, ma anche emotiva e fisica.

La dipendenza emotiva può essere una via di fuga dalla propria responsabilità: si demandano ad altri (un compagno o un genitore) le scelte. Perché scegliere è difficile e bisogna assumersi la responsabilità di eventuali errori.

Per tradizione socioculturale, poi, le donne sono particolarmente soggette alla tentazione di essere dipendenti. Molte assumono il ruolo di moglie/compagna rinunciando a tutto ciò che è individuale: carriera, hobby, amicizie…

Altre soffocano nelle attività di cura del compagno, dei figli, dei genitori anziani, e danno per scontato che questo compito spetti a loro. Siamo state educate a occuparci di qualcosa e qualcuno, tanto che è difficilissimo trovare una donna che stia davvero facendo “niente“: ben che vada, è seduta su una sedia ma sta pensando a come incastrare i vari impegni di figli e marito.

La Castoldi ci invita ad accettare l’autonomia per essere davvero libere. Bisogna ascoltarsi, bisogna capire come siamo e di cosa abbiamo davvero bisogno, buttando all’aria le maschere e i desideri che non sono davvero nostri.

Mi piace descrivere lo scambio della coppia attraverso una funzione di arricchimento reciproco, di ampliamento delle possibilità e dilatazione degli spazi personali.

Quante coppie possono dire che il loro stare insieme è foriero di arricchimento reciproco?

La paura di non avere abbastanza coraggio e intraprendenza, di non riuscire a vivere sole, senza sentirsi abbandonate e perdute, induce molte donne, e anche molti uomini, a unire la propria solitudine a quella di un’altra persona.

Ne conosco diverse di coppie che stanno insieme per tantissimi motivi, che nulla hanno a che fare con il vero amore. Perché amore significa anche libertà, propria e altrui. Non significa fusione di due persone. Non significa dipendenza di una persona dall’altra. L’amore si basta sulla libertà e sulla parità. Le decisioni devono essere prese insieme, non ci deve essere prevaricazione, o uno che decide per entrambi: se questa diventa la forma decisoria abituale di una coppia, c’è qualcosa che non va.

Non siamo obbligati a stare insieme con qualcuno. Non possiamo neanche prendere i figli come scusa. Se in una coppia non si cresce insieme, è inutile stare insieme: i figli ne risentiranno e basta, perché nella coppia ci sarà almeno un componente infelice.

Bisogna studiarsi. E poi prendere in mano la propria vita.

Ci saranno delle difficoltà, ci sarà qualcuno che ci dirà che stiamo uscendo dal seminato. Di solito sono quelli che a volte ci apprezzano per quanto siamo brave a prenderci cura di loro o a rispondere alle loro aspettative. Attenzione: questi apprezzamenti sono spesso strumentalizzazioni! Ci tengono buone perché non ci venga voglia di far qualcos’altro.

La Castoldi porta molti esempi di donne (e anche alcuni uomini) che vivevano un rapporto di dipendenza. Dopo la terapia, alcune coppie sono rimaste insieme, altre no. Non c’è una regola fissa.

Noi non siamo fissi.

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Le mamme infelici fanno disastri

BRUTTA! (Costance Briscoe)

Costance Briscoe è figlia di una bellissima immigrata giamaicana e di un padre di sangue misto. Il padre ad un certo punto vince un paio di lotterie, abbandona la moglie e vive di rendita, facendosi vivo ogni tanto con i figli.

Costance e i suoi cinque fratelli e fratellastri restano con la madre. Per qualche motivo non meglio identificabile, la madre prende di mira Costance e le rende la vita impossibile fin da piccola. La picchia, la insulta, non le dà da mangiare, la chiude in cantina o fuori casa.

Costance soffre di enuresi, e la madre le installa un allarme che suona di notte appena il lenzuolo si bagna, col risultato che la bambina dorme pochissimo perché alle due o alle quattro di mattina si ritrova sua madre in camera che la riempie di botte perché ha bagnato il letto.

Non le compra mai niente di nuovo, Costance deve indossare vestiti e scarpe vecchi, anche se non sono della sua misura.

In seguito ai maltrattamenti, Costance deve farsi operare tre cisti al seno. Poi inizia a perdere i capelli e per alcuni anni dovrà indossare una parrucca (che poi la madre le brucerà).

A scuola sospettano qualcosa, ma se la bambina non dice chiaro e tondo cosa è successo, non possono intervenire. Solo un’insegnante, polacca scampata ai campi di sterminio, si offre di ospitarla per un periodo, e in quei mesi i risultati scolastici di Costance migliorano a vista d’occhio. Poi però l’insegnate ha un incidente e non può più occuparsi di lei che deve tornare a casa dalla madre.

Il padre prova a chiedere l’affidamento delle sue figlie, ma madre non vuol rinunciare all’assegno di mantenimento.

Costance è così disperata che prova ad andare in un orfanotrofio, ma non la accettano. Allora torna a casa e beve la varechina per farla finita, ma sopravvive.

Quando Costance ha 14 anni, la madre, semplicemente, se ne va in un’altra casa e la lascia da sola. Torna ogni tanto a pretendere soldi per la luce (che poi le taglia), e toglierle le lenzuola e le coperte, e prenderle il letto.

Insomma, una serie di torture da far rizzare i capelli in testa.

Costance però non si dà per vinta e inizia a lavorare con orari massacranti, che però, insieme al pasto gratuito della scuola, le permettono di mantenersi a galla.

Il suo sogno è di diventare avvocato: tutti la deridono, non solo la madre, anche molti insegnanti.

Lei però persiste: oggi è avvocato.

Costance ce l’ha fatta, ad andarsene. Però nel libro non racconta se l’ha fatta pagare a sua madre, accenna soltanto a un colloquio in cui le dice quello che pensava di lei: parole che alla madre non hanno fatto, apparentemente, né caldo né freddo.

L’autrice riesce a raccontare la sua gioventù anche con un filo di ironia, credo che questo l’abbia aiutata molto.

Scrivendo però sempre in prima persona, ci manca del tutto il punto di vista della madre.

Cosa l’ha portata a diventare il mostro descritto in questo libro?

E’ una mia interpretazione, ma credo che questa cattiveria possa venire solo da una buona dose di infelicità. Era una donna immigrata in Inghilterra appena adolescente, bellissima, con tante aspettative, invece si è ritrovava a vivere col sostegno statale grazie ai figli che ha sfornato in quantità abbondante.

Per compagno ha avuto prima un marito, con cui non ha funzionato, e poi un rozzo amante mezzo analfabeta.

Le persone infelici sono pericolose: fanno danni.

Non le sto giustificando, lungi da me. Nell’infelicità (o insoddisfazione) cronica c’è una dose di autocompiacimento, perché è più facile lamentarsi o prendersela con gli altri che darsi da fare. Persone del genere non puoi neanche cercare di aiutarle, perché non sarà mai abbastanza.

Forse l’unica forma di aiuto possibile è far loro notare quanta parte abbiano loro stesse nella loro infelicità, senza mai dirglielo apertamente in faccia. Insomma, l’unica via d’uscita è l’autoconsapevolezza.

Il libro si legge in una giornata o due perché è avvincente, non si aspetta altro di vedere come Costance riuscirà ad emergere da questa melma di famiglia.

Tuttavia, mi sarebbe piaciuto sapere come è andata a finire la madre, mi piacerebbe leggere che è finita in galera o che ha pagato per quello che ha fatto. E anche le sorelle, che Costance definisce opportuniste: adesso che sono adulte, come ricordano quello che è successo?

Il padre meriterebbe solo oblio eterno. E’ un fatto però, che l’assenza del padre venga quasi considerata più normale delle botte della madre. Non si è sforzato molto di trovare un tetto alle figlie quando l’ex moglie le ha abbandonate e in generale le figlie lo vedevano pochissimo, ma l’autrice con lui sembra quasi comprensiva, e ne parla quasi come di un grand’uomo, perché a Natale portava loro il pasto festivo: e tutto il resto dell’anno???

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Zorba il greco (Nikos Kazantzakis)

Tutti ne hanno sentito parlare, di Zorba il greco, ma molti di questi pensano subito al film con Anthony Quinn, e non al libro. Io per prima.

Il protagonista del romanzo è questo greco di sessantacinque anni, di una vitalità esuberante e sconcertante, ma la storia è raccontata da un trentenne che va a Creta per gestire una miniera di lignite. Questo uomo ha passato una vita sui libri ed è reduce dall’abbandono di un carissimo amico.

L’intellettuale ha un modo del tutto razionale di approcciarsi alla vita, e si trova davanti a uno Zorba il cui motto è “afferra quello che ti arriva”, che sia un bicchiere di vino, una giornata di sole o una donna. A Zorba piace gioire delle piccole cose: mare, pane e olive e, ancora donne.

Ne parla sempre, di donne, e non se ne fa scappare una, non importa come sia: inizia una relazione anche con la proprietaria della locanda dove lui e il suo capo dormono. Lei è già anziana, con un neo peloso sul mento e i capelli grigi, ma a Zorba non importa.

Per Zorba, tutte le donne sono un mistero (da portare a letto).

Il romanzo è l’incontro tra due modi estremi di vivere: uno chiuso, razionale, cauto, l’altro aperto, emotivo, sfidante.

Forse è per questo che non mi piace e lo sospendo a pag. 133 (su 406): mi manca un po’ di equilibrio. Nessuno dei due approcci alla vita è quello giusto, secondo me, e Zorba è troppo estremo per il mio carattere.

Io sono un’introversa a cui piace leggere: non posso – non riuscirei mai a – passare sul versante opposto, non mi sentirei a mio agio.

Equilibrio, ci vuole.

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Tornare a galla (Margaret Atwood)

Mi è difficile parlare di questo romanzo uscito nel 1972, perché non sono riuscita a individuare un tema portante.

La protagonista è una giovane donna che torna nella capanna al lago dove ha vissuto con i genitori. Ci torna insieme a tre amici: Joe, il suo attuale compagno, Anna e David, moglie e marito.

Lo scopo della protagonista è ritrovare il padre, che è scomparso, mentre i suoi amici vogliono girare un film che potrei definire “esperienziale”, perché non ha né capo né coda, si limitano a riprendere delle immagini e delle scene senza legame tra loro.

All’inizio la protagonista pensa che il padre sia scivolato e sia morto da qualche parte, poi la scoperta di alcuni disegni le fa pensare che sia impazzito. Poi si ricrede e giunge alla conclusione che quei disegni sono stati ricopiati da antichi disegni dei nativi là attorno.

Ma questi sono tutti dettagli poco importanti: quello che importa è che la donna, un po’ alla volta, si toglie di dosso gli strati che aveva indossato abitando in città. Rivede le esperienze del matrimonio e dell’aborto, le metabolizza e passa oltre.

Anche se alla fine, questo “passare oltre” ha conseguenze un po’ spiazzanti.

Quello che mi ha colpito sono le similitudini tra questa protagonista e la protagonista di un altro libro della Atwood, “Occhio di gatto”: in entrambi i libri, la protagonista ritorna al luogo dove ha vissuto da piccola, ha studiato arte, si automutila, proviene da una famiglia non convenzionale che viveva a contatto con la natura, non ha frequentato la chiesa, ha spesso vissuto in tenda, il padre studiava la natura…

Come se tutti questi punti fossero dei nodi da sciogliere per la scrittrice, o derivassero da esperienze dirette.

In questo romanzo si parla di sottomissione della donna, di aborto, di spiriti, della forza della natura, tutto insieme.

Non mi è piaciuto molto perché non c’è un tema forte, o forse io non l’ho percepito.

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La psichiatra (Wulf Dorn)

Ellen Roth lavora in un ospedale psichiatrico tedesco.

Un giorno inizia a occuparsi di una paziente di cui non si conosce il nome: è piena di lividi, traumatizzata, fatica a parlare e si rannicchia negli spazi più assurdi nella speranza di nascondersi. Ha paura dell’Uomo Nero, e dice a Ellen che verrà a prendere anche lei.

La paziente le è stata lasciata dal fidanzato, anch’esso psichiatra, che è dovuto partire per l’Australia, in un luogo che non è raggiungibile dai cellulare, per cui Ellen non ha modo di confrontarsi con chi ha trattato la paziente per primo.

Ad aiutarla è un altro collega, Mark, che però, quando cerca di parlare con la paziente, non la trova. Sparita. Non ci sono neanche i documenti che attestano il suo passaggio per il pronto soccorso. Mark, dunque, inizia a dubitare della sanità mentale di Ellen che a sua volta, inizia a dubitare di Mark quando viene aggredita nel bosco da un uomo incappucciato.

Nei pochi momenti di riposo, Ellen fa molti sogni, dove compaiono cani neri (il lupo di Cappuccetto Rosso?), una casa in fiamme, due bambini che bruciano al suo interno. Sono sogni pilotati, dove lei ha un certo margine di manovra per scoprire indizi.

Alla fine, quando si scopre il colpevole e che fine ha fatto la donna che Ellen cerca disperatamente di aiutare, si capisce che gli indizi erano tutti sotto gli occhi del lettore.

Io non sono mai stata una brava detective, mi ero solo fissata sul fatto che Ellen non riuscisse a contattare il suo fidanzato Chris, e che ovviamente ha una ragione molto forte.

Un libro che ho letto in due giorni. Intrattenimento facile, stile americano, solo con i nomi propri tedeschi.

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Un posto nel mondo (Fabio Volo)

Il romanzo inizia con Michele che è nella sala d’aspetto di un ospedale: nella stanza accanto, la compagna sta partorendo. Così Michele inizia a ricordare i passi che lo hanno portato fino a quel punto, e ricorda Federico, l’amico più importante di tutti.

Michele e Federico sono amici fin dalla prima media. Hanno diviso tutto, dalle donne alle partite di subbuteo. Ma arrivati a 28 anni, Federico si accorge che vuole di più della vita, e allora parte.

Ma prima di raccontarci di Federico, Michele ci racconta di come ha incontrato Francesca: nel bar dove lei lavorava e lui andava a prendere il caffè.

Ho sempre sentito pareri discordanti su Volo, ma prima di parlarne male, dovevo leggere qualcosa di suo. Adesso ho letto solo cinquanta pagine, ma non ce la faccio ad andare avanti e mi arrogo il diritto di parlarne male…

Per due motivi principali.

Uno: troppe smancerie. La storia dell’incontro con Francesca è piena di patemi d’animo, bigliettini pseudo-poetici, feste, la chiamo o non la chiamo, rimbambimento, amore e baci… Volo ci dice tutto. Tutti i pensieri che lo assillano durante l’innamoramento, anche se si tratta di immaginarsela seduta sul water, e di chiedersi se prende subito la cartaigienica o se lo fa dopo.

La letteratura dovrebbe essere anche svelamento. Non puoi mettere tutto in piazza. Ci vuole un po’ di rispetto del pudore. E non mi riferisco all’uomo seduto sul water con i cerchietti sulle ginocchia dove ha tenuto i gomiti appoggiati. E’ una questione di sentimenti: sono ciò che abbiamo di più intimo, non puoi spiattellarli così sulla carta senza un minimo di attenzione.

Due: lo stile.

Michele e Federico parlano come mangiano. Hanno qualche difficoltà con il congiuntivo e non dispongono di un lessico molto ampio.

L’idea del giovane (relativamente giovane, a 28 anni) che cerca la propria strada è uno dei temi più sfruttati dalla letteratura, e mai pienamente approfondito, perché ogni persona lo affronta a modo proprio. Il romanzo di formazione è un genere per conto suo, ma ogni romanzo di formazione è diverso dall’altro.

Dunque il tema era apprezzabile.

Ma non me lo puoi approcciare con parole così:

“La propria cosa, la propria chiamata, il proprio talento o capacità da esprimere. Insomma, quella roba lì”

Cosa, roba: due parole che non dicono nulla nella stessa frase. E’ una frase che ci sta, col personaggio Federico. Ma io ho bisogno di imparare qualcosa dai libri, non di tornare indietro.

No, mi fermo qui, ho altri libri da leggere.

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Esercizio di poesia

SASSO TRA I SASSI

succubi

sotto la suola sottile

odorano di eternità ignorata

di Eco sciolta nelle lapidi

sollevato dalle dita

Uno anela al suolo

con lamento muto, muffoso.

E lanciarlo alle nuvole

e mancarle, sempre!

E centrare il vulcano

e mai, farlo eruttare!

E mangiarlo, pure

senza fame, né bolo…

invano:

preludio patologico,

dondola dalla costola

turibolo senz’orbita né aroma

grumo di tempo condensato

assopito su anestetici scaffali

tra macigni amebici

globulo di ere passate

posatesi a strati sul nucleo denso

avulso da ogni astratta geologia

sunto di volontà e desideri

dissolti come cupo sudore

sul boato di un nuovo

ipnotico

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I segreti della corona (Kitty Kelley)

Devo sospendere la lettura di questo libro perché mi innervosisce scoprire come i reali se la spassano alle spalle del popolo. Un popolo, tra l’altro, che li rispetta e li mantiene. E li difende, pure! Soprattutto dopo che sono morti, come è successo nel caso della cara e dolce vecchietta Regina Elisabetta…

Kitty Kelley è una giornalista che ha chiesto l’appoggio della casa reale per ottenere delle informazioni di prima mano, ma tale appoggio è stato rifiutato. La Kelley ha dovuto allora ricorrere spesso a dipendenti reali che non poteva nominare, perché tali dipendenti sono assunti con la clausola di riservatezza assoluta in merito a quello che i nobili fanno e dicono, anche quando stanno facendo e dicendo cose che non hanno niente a che fare con il loro ruolo governativo.

I dipendenti che non rispettano tale clausola di riservatezza vengono licenziati e, se sono in pensione, perdono la pensione.

Ma le informazioni circolano, e i reali hanno tanti, tantissimi parenti e “amici”. E anche se la stampa ha l’ossessione dei reali, la Kelley è venuta a scoprire delle cose che magari non fanno cadere la monarchia (non era questo il suo scopo), ma che ne ridimensionano molto l’alone morale di cui la corona si è rivestita.

Prendiamo ad esempio i genitori della regina Elisabetta:

Poche persone ricordavano che (…) erano stati restii a opporsi a Hitler e che come primo ministro vedevano meglio Chamberlain di Churchill. (…) lo zio preferito della principessa (Margaret) aveva osannato la Germania nazista come salvatrice dell’Europa e che il principe suo cugino aveva diretto un campo di concentramento.

La sorella della regina Elisabetta, Margaret:

In una discussione sull’India, affermò di odiare “quegli ometti dalla pelle scura. (…) usò parole di fuoco contro tutti gli irlandesi. “Sono maiali”.

Parlando del film Schindler’s List,

Consigliò al suo maggiordomo di non sprecare denaro per quel film (…). Era così sgradevole e disgustoso che ho dovuto alzarmi e andarmene.

E poi, durante la guerra:

Sebbene l’uomo della strada fosse portato a credere che il re e la regina e le due piccole principesse si stessero privando della carne, del pane e del burro come tutti e condividessero il magro vitto dell’Inghilterra fatto di patate bollite, cavoletti di Bruxelles e uova in polvere, al di qua dei cancelli del palazzo si sapeva che le cose stavano diversamente. Il re e la regina non rispettavano il rigido razionamento del cibo, mangiavano regolarmente roast beef e bevevano champagne. Sui panetti di burro era inciso lo stemma reale.

Il re ordinava ogni giorno per colazione due uova e sei fette di pancetta alla griglia e pernici quand’era stagione di caccia per cena tutte le sere. La regina (…) continuava a mangiare le sue focacce di avena, un ricco dessert preparato dallo chef di corte, che la fece aumentare di cinque chili in un anno.

Quando andarono negli Stati Uniti alla Casa Bianca, la regina si portò dietro diverse damigiane di acqua londinese per farsi preparare il té.

Benché la vendita della seta al pubblico fosse stata proibita e ne fosse consentivo l’uso solo per la fabbricazione dei paracadute, per la regina furono fatte eccezioni, e quando giunse il momento di partire per gli Stati Uniti era solita cambiarsi s’abito almeno quattro volte al giorno.

Non è così strano che i reali si trattino bene, ma cosa ne avrebbe pensato l’uomo comune se l’avesse saputo? Credo sia giusto che il popolo che mantiene il governo sappia queste cose.

Il problema è anche nostro: non sappiamo quanto mangiano alle nostre spalle i governanti.

E loro lo tengono nascosto. Perché hanno paura.

Ho avuto una settimana pesante.

Ho dovuto litigare col gaglioffo dentista di mio padre, perché si è approfittato che un ottantacinquenne che non ci sente e gli ha fatto delle operazioni che non erano state richieste (sebbene io fossi andata con lui alla visita di controllo, queste operazioni a me non le ha neanche nominate).

E mi son dovuta sorbire un’urlata di sfogo dalla titolare perché un agente della Puglia gli ha riferito informazioni parziali e incomplete. Ho chiarito, ma intanto le orecchie mi fischiano ancora dalle urla. A 48 anni non è simpatico farsi urlare come fossi una bambina delle elementari.

Dunque, perché devo leggere un libro che invece di rilassarmi, mi fa innervosire di più?

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Occhio di gatto (Margaret Atwood)

Elaine Risley è una pittrice ormai affermata che ritorna a Toronto per una mostra retrospettiva delle sue opere. Ripercorrendo le strade che il tempo ha trasformato a volte in modo quasi offensivo, inizia a ricordare il suo passato.

Gli anni della guerra, la povertà, i viaggi in macchina con i genitori, le soste nei motel o nelle tende in mezzo ai boschi (il padre era un biologo), ma soprattutto, Elaine ricorda Cordelia, un’amica dei tempi dell’infanzia che è per molti anni un’aguzzina psicologica a capo di altre due ragazzine.

Elaine, da bambina, ha una vita anticonvenzionale in compagnia quasi esclusiva dei genitori e del fratello Stephen: quando entra nel mondo della scuola e scopre le altre bambine della sua età, inizia a desiderare di essere accettata. E’ un desiderio spasmodico, che la porta al limite dell’esaurimento e fino al punto di mettere in pericolo propria vita.

Come ancora di salvezza, c’è solo una biglia, un occhio di gatto, da tenere nel palmo della mano.

I ricordi si allargano poi alla giovinezza, quando Elaine inizia una relazione con un professore di disegno dal vivo, e poi con il suo futuro marito. Ci sono i ricordi del matrimonio, delle litigate, della sua arte che fatica a farsi strada in un mondo prevalentemente maschile.

Molti identificano la Atwood come una scrittrice femminista: secondo me è uno sbaglio. Tra le righe si legge sempre una certa diffidenza nei confronti degli estremismi di qualunque tipo, anche sessisti. Ad esempio, c’è una lieve ironia nell’iconoclasta richiesta di non radersi le gambe da parte di un gruppo di donne: lei si depila, e si sente esclusa dal gruppo.

E’ un romanzo intimista, con pochi eventi ma molto approfonditi, dove i ricordi saltano sulla pagina con la loro forza dirompente. Su tutto, l’attesa di Cordelia, l’amica piena di luci e ombre che forse verrà alla mostra, forse no.

Ma il libro contiene anche tanti accenni a una certa idea di arte: quella che se ne frega dell’estetica, e che parte tutta da una metabolizzazione dei propri ricordi.

Non un romanzo avvincente, forse, ma riflessivo sì.

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