Conversazione con Elizabeth Harris sulla traduzione letteraria

(Tradotto un po’ di fretta, ma mi basta rendere l’idea dei contenuti…)
Elizabeth Harris insegna scrittura creative all’università del North Dakota. Ha tradotto opera di Mario Rigoni Stern e Fabio Stassi, e ora sta traducendo la raccolta di racconti di Giulio Mozzi, Questo e’ il giardino e il romanzo di Marco Candida Il diario dei sogni. Le sue traduzioni sono pubblicate in molte riviste, come ad esempio Words Without Borders, The Literary Review, Agni Magazine, The Missouri Review, e The Kenyon Review. La sua traduzione di Candida la troviamo in Best European Fiction 2011.
Come hai iniziato a tradurre letteratura?
Ho cominciato a tradurre per caso. Avevo studiato italiano al college, mi piaceva e ho continuato a studiarlo anche dopo il college mentre lavoravo come cuoca al St. Paul. Ho solo continuato a frequentare corsi di italiano. Poi, iniziai a prepararmi in scrittura creative per entrare al Johns Hopkins e dovevamo superare un esame di lingua straniera; tradussi il Marcovaldo di Italo Calvino durante l’estate, mi aveva presa sul serio e pensai, “Non sarebbe eccezionale se trovassi un modo per studiare QUESTO?” A quel tempo alla Hopkins c’era solo un MA di scrittura creative, così, mentre ero là, iniziai a far domanda per l’ MFAs e trovai l’università dell’Arkansas. Sulla brochure di questa università trovai pubblicizzato un MFA in traduzione. Mi suonarono le campane in testa. Mi iscrissi all’università dell’Arkansas e ottenni due MFA, uno in scrittura creativa e l’altro in traduzione letteraria.
Chi erano i tuoi insegnanti?
Direi che tutti i miei insegnanti di scrittura creative hanno contribuito in maniera eccezionale al mio sviluppo come traduttrice. Ho studiato con alcuni grandi insegnanti. John Barth, Madison Smartt Bell alla Hopkins. Jim Whitehead, Skip Hays, Joanne Meschery all’Arkansas. Ho imparato a conoscere la storia, il personaggio, la trama, la voce, lo stile, il punto di vista, e ho portato tutto questo nelle mie traduzioni. È un grande vantaggio. Molti iniziano le traduzioni letterarie partendo dalla loro conoscenza di una lingua straniera, ma non necessariamente sanno come si scrive fiction in inglese, e questo può essere un bel problema.
Per le traduzioni ho avuto due insegnanti importanti: Miller Williams, che ha fondato il programma di traduzione letteraria all’Arkansas, e poi il mio mentore, John DuVal, che insegna ancora all’Arkansas. John, dal punto di vista letterario, è mio padre; e mi ha insegnato, rimproverato, incoraggiato. È uno dei miei più cari amici e a volte gli chiedo ancora di leggere le mie traduzioni e, Dio lo benedica, lui accetta. È semplicemente un grande insegnante.
Gli ultimo insegnati che hanno contribuito a farmi diventare una traduttrice sono stati i miei insegnanti di lingua. Ho avuto molti bravi insegnanti di italiano, a cominciare dall’Università del Minnesota, dove mi innamorai della lingua (sono specializzata in storia dell’alte e per questo ho studiato italiano). Da allora, ho studiato al Middlebury Language Schools del Middlebury College, un programma incredibile per lo studio delle lingue. Inoltre ho lavorato molto da vicino con Louise Rozier all’Univ. Dell’Arkansas. Lei è stata un’altra importante insegnante per me. Ora lavoriamo insieme; Louise controlla il mio italiano quando io traduce e io leggo le sue traduzioni in inglese di alter opere e le do delle dritte.
Che tipo di idee estetiche, teoriche o procedurali avevano in merito alla traduzione?
Miller Williams è un poeta; il suo insegnamento attribuiva una grande importanza a come rifinire la versione in inglese per farne un’opera d’arte in inglese. John DuVal also lavorava con molta attenzione sulla versione inglese ma guidava di più i propri studenti, li riportava al testo originale. Sia Miller che John erano incredibilmente bravi nel riconoscere i passaggi problematici delle traduzioni, anche se non conoscevano le lingue di partenza (ai corsi avevamo studenti che traducevano dal russo, dall’arabo, dal tedesco, dallo spagnolo e così via).
In un corso MFA per traduttore hai un approccio meno teorico. Si tratta di fare arte. Studiavamo teoria e dovevamo superare un esame di qualifica partendo da una lista di lettura alla fine del corso. Le questioni che possono saltar fuori in un programma di letteratura comparata che riguardano l’inglese come lingua dei colonizzatori, che coopta la lingua indigena – questo tipo di idee non sono entrate a far parte del mio corso di studi. Con John in particolare, abbiamo trattato con cura come trapela la lingua di origine nella versione inglese. Sia Miller che John spesso suggerivano di applicare una specie di “patina” alla traduzione, lasciando il sapore della lingua originaria anche nella versione inglese. Questo si può fare in vari modi ma soprattutto mantenendo i nomi, “Paolo” invece di “Paul,” per esempio, o “Monte Zebio” invece di “Mount Zebio.”
Come è stato il passaggio da studente a professionista? Hai accettato tutte le idee dei tuoi insegnanti in merito alla traduzione o il tuo lavoro e le tue letture ti hanno fatto prendere le distanze da alcune di quelle idee?
Ho accettato l’approccio dei miei insegnanti in merito alla traduzione ma, ovviamente, nei corsi non prendi ma tutto quello che gli altri suggeriscono; tieni quello che funziona e il resto lo lasci andare.
Rispetto a quando ero studente, mi accorgo che ora resto ancora più vicina all’originale, quando traduce. Quand’ero studente forse facevo troppo affidamento sulle mie capacità di scrittura, non so se rendo l’idea. Come ho detto prima, arrivare alle traduzioni partendo dalle conoscenze linguistiche può essere uno svantaggio; ebbene, lo stesso vale per gli scrittori, se non riescono a sbarazzarsi del proprio stile e della propria sensibilità. Più traduco e più voglio catturare il ritmo della lingua originale; non voglio ingabbiare la lingua originale nella mia versione inglese. Devo riconoscere le idiosincrasie di uno scrittore, quello che rende il suo stile e la sua voce. Ovviamente non voglio rendere un testo goffo perché voglio attaccarmi troppo all’originale; ci deve essere equilibrio. Ma do più fiducia all’autore che sto traducendo.

Qualche anno fa sono stata contattata da Minna Proctor, che a quel tempo era una guest editor per una rivista di fiction italiana contemporanea The Literary Review (ora Minna è Editor-in-Chief alla TLR). Aveva avuto il mio nome da Geoff Brock, poeta e traduttore di narrativa e poesia italiana. Mi chiese di tradurre una storia di Mozzi per TLR, “Una vita felice” o “A Happy Life.” La storia mi piacque subito. Fortunatamente per me, Mozzi fu facile da contattare via internet così rispose ad alcune mie domande sul racconto. Quando finii, decisi che volevo lavorare ancora con lui e gli chiesi il permesso di tradurre la raccolta di cui “Una vita felice” faceva parte. Mi chiese di tradurre un’altra raccolta, la sua favorite, Questo e’ il giardino. Fui felice di accettare.
Com’è il tuo processo lavorativo, quando traduci le sue opere? Sei in contatto con lui? È collaborative? Devi rendere conto a qualcuno per le tue scelte o sei libera di procedure come meglio ritieni?
Sono molto fortunata per il fatto che insegno in una scuola che mi sostiene nel mio lavoro come traduttrice. L’università del North Dakota mi ha economicamente sostenuto per molti viaggi in Italia per lavorare con Mozzi (e anche con Marco Candida, un altro autore che traduco). Se ho qualche domanda, contatto Giulio. Mi ha chiesto anche di tradurre alcuni pezzi al di fuori delle sue raccolte; una verrà pubblicata questa primavera nella The Chicago Review. L’altra è “Carlo Doesn’t Know How to Read,” che in origine comparve in un libricino legato ad una mostra d’arte. Si trattava di un progetto molto particolare, con Carlo, un autore improvvisato che non solo aveva scritto la storia che avevo tradotto, ma aveva anche messo su una mostra d’arte in risposta a una poesia di Raymond Carver, “The Painter and the Fish.” Dopo aver tradotto la storia era molto curiosa circa tutto il progetto e andai alla presentazione del libro e all’inaugurazione della mostra a Piacenza, dove incontrai Giulio.
E ora passo alla seconda parte della tua domanda, la responsabilità. Più traduco e più pubblico le mie traduzioni, e più mi rendo conto che la responsabilità è potenzialmente un problema nel lavoro di traduzioni. È possibile essere un traduttore sciatto e tuttavia cavarsela, se gli editori non leggono l’originale (e di solito non lo fanno). Come ho detto, sono diventata sempre più prudente nelle mie traduzioni man mano che capivo questa complicata forma artistica, quella che Miller Williams chiamava “il matrimonio tra erudizione ed arte.” Il mio processo traduttivo è molto lento e mi costringe al ricorso costante ai miei dizionari e ai miei amici italiani. Quando finisco la bozza di qualcosa, la leggo e rileggo controllando l’italiano e ridefinendo la prosa. E sono molto fortunate perchè la mia ex insegnante di italiano, Louise Rozier, controlla ancora il mio lavoro, trovando eventuali piccoli errori (non importa quanto mi dia da fare, mi mancherà sempre qualcosa!). Una volta sicura che la traduzione è accurata, inizio a ripulire l’inglese nelle bozze successive, ma alla fine torno sempre all’italiano, per essere sicura che ognuna delle mie frasi in inglese catturi quello che penso sia lo stile di Mozzi in ognuna delle sue frasi.
La vera responsabilità è nei confronti della narrative di Giulio, devo rendere il più possibile quello che vedo nella sua opera. È una grande responsabilità ma comporta anche un bel po’ di libertà: la mia traduzione è il mio modo di vedere il lavoro di Giulio, la mia interpretazione. Più applico l’arte della traduzione e più mi piace pensare che sono responsabile di ciò che faccio e che sono il giudice più severo di me stessa.
Ci sono stati lettori, o persone che ti hanno offerto lavoro da quando “Carlo Doesn’t Know How to Read” è stato pubblicato nel Best European Fiction 2010?
Non ho ricevuto nessuna diretta offerta di lavoro dopo questa pubblicazione. Ho la sensazione, tuttavia, che il mio lavoro, dopo questa pubblicazione, sia preso più sul serio. Spero che la pubblicazione di Mozzi (e la mia) in questa antologia serva per trovare uno sbocco per la raccolta. Sono stata poi così fortunata da vedere un’altra mia traduzione pubblicata nel Best European Fiction 2011, stavolta si tratta di un estratto da un libro di Marco Candida’, Il diario dei sogni, o Dream Diary.
Il tuo lavoro di traduttrice ha qualche relazione con il lavoro che svolgi per conto tuo? Ha cambiato il tuo modo di vedere quello che fai, o quello che pensi dovrebbe essere o fare la letteratura?
La traduzione è il lavoro che svolgo “per conto mio.” Per molti anni non ho scritto una storia e se devo essere sincera non mi manca per niente. Mi piace tradurre. Il mio amore per la traduzione ha cambiato di molto le mie idee in material letteraria. Mi sono sempre più interessata di letteratura internazionale e della letteratura Americana che va oltre il realismo, Lydia Davis, per esempio (che è una famosa traduttrice dal francese). Ma mi piacciono anche le storie dirette con buoni personaggi. Sono arrivata ad apprezzate più tipi di scrittura, ecco tutto. Le mie traduzioni hanno influenzato in particolar modo il modo in cui insegno scrittura creativa. Più leggo narrative internazionale e più traduce, più mi accorgo che non ci sono regole nella scrittura. Deve solo essere buona. Una volta che i miei studenti vanno al di là dei fondamenti di trama e personaggio, leggo molta letteratura internazionale nelle classi avanzate. Voglio che vedano quale vasto mondo di possibilità esiste nella narrativa. Sono felice che i miei studenti scrivano prosa lineare con personaggi ben delineati, una trama lineare, azione, scene, dialoghi e così via. Ma sono anche felice di vedere studenti che provano ad esprimersi in altre forme e cercherò di aiutarli per quanto mi sarà possibile.
Esiste una comunità di traduttori? Ne fai parte? Com’è?
Ho appena iniziato a partecipare a una comunità di traduttori. C’è un’organizzazione, la American Literary Translators Association (ALTA), a cui ho partecipato per alcuni anni. Tengono una conferenza con cadenza annual che è molto più contenuta della AWP o della MLA. È stato un ottimo modo per incontrare altri traduttori. L’esperienza con i traduttori è che si sostengono l’un l’altro. A questa conferenza, si beve molto. È diverso da altri tipi di conferenza? Ma forse, dopo aver bevuto, iniziamo a parlare in altre lingue?
Sei soddisfatta del tuo lavoro di traduttrice? Stai facendo quello che vuoi fare? Che aspirazioni hai, come traduttrice?
Sono contenta dei miei progressi come traduttrice. Dopo quindici anni che ci lavoro, finalmente sento che sto iniziando a capire quello che faccio— ma appena acquisto fiducia, subito faccio un errore ridicolo. È uno dei motivi per cui mi piace tradurre: mi mantiene umile. Ci sono tanti modi per incasinarti.
In questi giorni la mia reputazione sembra essere aumentata. Ho iniziato una collaborazione con una rivista letteraria internazionale, Words Without Borders, ed è favoloso. Gli editori sono di grande sostegno. WWB è una grande agorà. Una delle cose che mi piace di WWB è che mi chiedono di scrivere dei brevi commenti al lavoro che ho tradotto. Non posso rendere l’idea di quanto sia bello scrivere per una rivista che vuole sentire la mia voce; con la traduzione il traduttore scompare; se ha fatto il suo lavoro, allora sembra che l’unica cosa che stai leggendo sia dello scrittore. Naturalmente, questa è una finzione. Ma raramente I lettori si rendono conto che quando leggono un’opera tradotta, stanno in realtà leggendo l’opera di due autori, non uno.
Come ogni scrittore, voglio pubblicare, soprattutto libri. Con le traduzioni, questa è una vera sfida. Sembra che solo il 3% di tutti i libri pubblicati negli Stati Uniti venga tradotto— credo che il sito web letteterio, Three Percent, abbia contato quante opera di narrative e poesia vengano tradotte, e non sono molte, forse solo poche centinaia. Questo rende davvero insignificanti le probabilità di vedere un libro tradotto pubblicato. Poco tempo fa, un romanzo che ho tradotto è stato pubblicato e penso che sia stato un miracolo. Oltre al problema di sfondare nel mercato editoriale americano, ci sono anche i diritti all’estero. Molti editori esteri non riconoscono al traduttore i diritti del lavoro così devi tradurre un libro mentre qualcun altro sta traducendo lo stesso libro. Mi è capitato davvero. È davvero disarmante mettere il cuore per creare qualcosa e poi scoprire che qualcun altro ha già tradotto quell’opera. È terribile. La mia più grande speranza è che le case editrici arrivino da me con dei progetti. Sono già stata contattata delle volte, ma non per dei libri che volevo tradurre: mi è stato offerto un libro di storia, un libro sul jazz, e alter cose. Ma non mi interessa tradurre qualsiasi cosa: voglio tradurre narrativa – buona narrativa. Quello che spero è che la grande stampa letteraria mi usi come traduttrice regolare.
Sei soddisfatta della situazione delle traduzioni come arte e/o mestiere negli Stati Uniti?
Penso che dalle mie risposte ti sia fatta un’idea che non sono per nulla soddisfatta di come sono considerate le traduzioni negli Stati Uniti. Prima di tutto, la letteratura internazionale viene letta poco e le grandi case editrici di solito non la pubblicano a meno che un libro non sia un classic o commerciale. Molta letteratura internazionale è pubblicata da piccoli editori che si dedicano a letteratura non commerciale e provocatoria, cito Open Letter, Dalkey Archive, New Directions, Archipelago Books, Autumn Hill. E poi la traduzione come forma d’arte è terribilmente fraintesa. Non voglio fare la frignona, ma trovo enormi difficoltà per vedere riconosciuto il mio lavoro. (OK, ora lo sapete: è quello di cui abbiamo parlato alla nostra ultima conferenza ALTA mentre stavamo bevendo…). Come ho già detto, se fai bene il tuo lavoro, scompari e il lettore resta con un buon libro in inglese che ha il nome dell’autore in copertina (e a volte quello del traduttore, ma a volte no). I recensori raramente parlano delle traduzioni, e se lo fanno, si tratta prevalentemente di poesia. La traduzione di narrativa otterrà una linea della serie, “La traduzione è scorrevole,” quando il traduttore viene nominato. Si discute poco della traduzione letteraria come forma d’arte. C’è una crescente discussione teorica sulla traduzione letteraria, che include la traduzione di prosa, ma non si parla molto dell’arte della traduzione letteraria e non è quasi presa in considerazione nel mondo là fuori.
Qualche anno fa, il New York Times Literary Supplement pubblicò un’edizione di letteratura internazionale che includeva un libro di Roberto Bolaño, By Night in Chile, credo, e il recensore commentò l’incredibile stile di Bolaño con una frase particolare che si riferiva all’inglese. Ovviamente il suo “stile” era anche opera del traduttore, Chris Andrews, che scrisse la frase inglese in discussione, una frase basata sulla sua interpretazione della frase originale in spagnolo di Bolaño. Se parli di un’opera tradotta, non puoi parlarne come dell’opera di un singolo autore; a traduzione avvenuta, ci sono due autori, l’autore originale e poi l’autore “minore”, se si vuole, il traduttore, la cui mano e la cui versione è ovunque nel testo tradotto. Non c’è modo di evitarlo. Ma pochi se ne rendono conto a meno che qualcuno non abbia tradotto qualcosa lui stesso o non conosca già bene la letteratura internazionale. Dunque è una strana forma d’arte, una forma che non ottiene il riconoscimento di cui gli scrittori sono spesso ghiotti. Ma va bene lo stesso. Quasi sempre. Finché sto traducendo qualcosa che mi piace, sono felice di farlo.

2 Comments

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2 responses to “Conversazione con Elizabeth Harris sulla traduzione letteraria

  1. Non posso che pensare ai nostri grandi traduttori degli anni quaranta, cinquanta e sessanta. Grazia a Pavese, Vittorini, Pivano, Bianciardi e altri, l’America fu più vicina.
    http://allegriadinubifragi.wordpress.com/

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  2. Elizabeth Harris

    Thank you for translating this!

    Elizabeth Harris

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