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Mercanti d’aura – Alessandro Dal Lago, Serena Giordano

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Mi sono spesso chiesta, leggendo qualche riga di presentazione di opere d’arte nei giornali o sfogliando dei cataloghi di mostre, a che cavolo servono i critici. Le loro recensioni sono a dir poco illeggibili, astruse, incomprensibili, insensate, ridondanti, assurde, inutili, ridicole. Pattume. Immondizia. Puzzose.

Per lo meno tale era l’idea che ne avevo prima di leggere questo saggio, scritto da un sociologo e da un’artista. Sono giunta alla conclusione che le recensioni e i discorsi sull’arte contemporanea, per quanto incomprensibili, sono necessari. Per cosa? Non per spiegarti cosa vuol dire l’artista con quel pezzo, ma per decidere cosa è e cosa non è arte. Non è una questione da poco, considerato il giro d’affari che ruota attorno ad essa.

Mi direte: come si fa a utilizzare quelle accozzaglie di frasi per decidere se un orinatoio è un’opera d’arte, o se una che si tagliuzza le braccia in pubblico è un’artista? Semplice: quelle turpitudini verbali non le usi tu, le usa l’esperto. E’ lui che decide (lui insieme a quelli del suo Mondo) se quel pezzo o quell’happening è Arte arte.

Non esiste più il committente che ti dice per filo e per segno come vuole gli arazzi o il ritratto della moglie. Gli artisti di oggi creano per un mercato di anonimi senza sapere se la sua opera piacerà.

In realtà, non è necessario che essa piaccia al pubblico degli anonimi: basta che gli esperti la giudichino Arte. Il pubblico degli anonimi, poi, si adatterà e comprerà quello che gli esperti gli suggeriranno perché il valore (l’aura) viene creato dai discorsi sull’arte, non dagli oggetti stessi. Questo può piacere o no, e di sicuro crea scompensi per attività collaterali che sono escluse da certi giri d’affari (es. design, cucina, folk art, raw art ecc…), ma è così.

L’esperto d’arte oggi legittima gli artisti, aiuta gli acquirenti ad acquisire valore attraverso l’opera (valore monetario ma anche sociale in generale) e diventa lui stesso co-autore (si pensi all’Action Painting, a Fluxus o all’Arte Povera). Quest’ultimo punto ha effetti stranianti perché il valore artistico è sempre più slegato dall’oggetto in sé e l’aura viaggia per conto suo. Anche nel caso in cui l’oggetto venga, per assurdo, distrutto e non esista più. Ma anche nel caso dei falsi.

Quando ci sono falsari che creano opere copiando lo stile di certi artisti famosi, non sono i falsari ad attribuire l’aura alla propria opera: sono gli esperti che prendono un granchio. E che spesso dopo, quando viene scoperto l’inganno, per non tornare sui propri passi, continuano ad arzigogolare sul valore artistico di quell’oggetto. Ti credo, poi che un giudice si trovi in difficoltà a mettere in galera un falsario, quando questo gli dice: “Io non ho creato un falso. Ho dipinto un quadro nello stile del mio pittore preferito. E’ stato Tizio che lo ha scambiato per un’opera originale!”.

Sto banalizzando l’argomentazione degli autori, ovviamente, ma credo che le parti del saggio in cui si parla dei falsi, dell’arte dei “malati mentali” e delle beffe d’artista siano quelle in cui si dimostra meglio come l’aura e l’opera d’arte non necessariamente coincidono. Non c’entra nulla la consapevolezza artistica, l’unicità, la sublimazione dei bisogni elementari, il Dono…  L’arte contemporanea è un’attività sociale come altre, e presenta gli stessi aspetti, bui o luminosi, della nostra società.

Ecco, ho capito perché i discorsi degli esperti sono così criptici: per una questione di pudore.

Proprio perché l’arte ufficiale esprime oggi il senso profondo di una società mercantile, arida e gerarchizzata, sarà meglio agire su questa, se vogliamo che anche l’arte sia un’altra cosa.

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“You can do it with everything” Contemporary art Language – Angela Vettese

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The aim of the author is to show that contemporary art works on a collage base. But the collage can be made with everything: paper, metals, plastic, words, movies, ready-made, other art works, and so on.

The collage has its own meanings: it is often light (compared to heaviness of Sixties’ art) and one of its main feature is the transitoriness. It gives you the idea of a fragmented reality and it often requires interactivity, as if the public is a little piece of the whole collage.

Contemporary art is often a developing process, not an object, and here you see the frequent use of -ing form (happening, dripping…).

I found particularly interesting the part that explains how some artists put their works in very hard-to-reach places (for instance in the desert, far away from autoroutes or airports); with a two-faces purpose: to show a critic to institutional art places and to educate the public, that must be ready to make some efforts to go there to “admire” the art work.
The result? Very little public. Anyway… I appreciate the attempt.

At the end, Angela Vettese try to sum up the direction of contemporary art. It seems that this art doesn’t want to show the author anymore. The point is not the subject anymore, it must be something else; the society, maybe, with its trends and fears. Maybe this is only modesty. Or, more probable, loneliness.

The problem of this essay is that Vettese wants to put too many examples to explain what she is telling. They are so many, that I doubt that the average reader knows all artists and art works that she mentions. And the book cannot show a picture for each art work, otherwise it would have been 20 times longer.
As a result, I think that this book is an essay for contemporary art lovers, not for someone who wants to get an idea of this odd world.

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Arte: regole e/o libertà

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Sto leggendo “Vita d’artista” di Cassola e sono sorpresa dall’attualità della tematica.
Leone Verrasto è un giovane scultore che si trasferisce a Roma con lo scopo di sfondare. Siamo negli anni Trenta, in pieno periodo fascista.
Verrasto vuole vivere da artista tra gli artisti, e così inizia a frequentare un gruppo di giovani come lui che però, a giudicare dalle premesse, non arriveranno molto lontano. Mi colpisce la volontà di Verrasto di adattarsi a questa compagnia, a costo di andar contro a certe sue convinzioni. Ad esempio, da buon meridionale, crede nel matrimonio, gli piacerebbe sposarsi, ma siccome nella cerchia degli artisti si dice che sia meglio restare scapoli, anche lui se ne convince.
Poi: lui è un tipo solare, a cui piace attaccare bottone con tutti, anche se appena incontrati per strada. Ma nel giro vige la regola non scritta che non si debba mostrare entusiasmo per nulla.
Parla bene dell’arte moderna, quando invece sarebbe portato più per il monumentale e si sente come se fosse nato nel secolo sbagliato.
E arriva al punto di rimpiangere la sua ricchezza: lui è un figlio di papà mantenuto con larghezza dal genitore che si aspetta grandi cose dal primogenito; ma se fosse povero… sì, le privazioni gli donerebbero un punto in più nella sua rincorsa all’immagine dell’artista che si è creato nella testa.
Insomma, si obbliga a tante di quelle finzioni e reticenze, con se stesso e con gli altri, da non risparmiare nessun campo, nè privato nè pubblico.
Mi pare dunque che il tema della Verità salti fuori spesso in questo romanzo. E il lettore di oggi sorride davanti ai discorsi che Verrasto sente fare sull’Urss dai suoi amici che, da comunisti dichiarati, negano l’esistenza di ubriachi e prostitute nel paese di Stalin.
Ma… ci può essere libertà senza Verità?
L’idea che ci si fa dell’artista è proprio quella dell’outsider, del coraggioso iconoclasta, dell’uomo sciolto da vincoli sociali e morali. Eppure Verrasto vive ed opera in pieno fascismo: totalitarismo non fa certo rima con libertà (anche se la ristretta libertà di Verrasto non è dovuta solo al regime).
Certo, se prendo in mano il Gombrich, l’importanza delle regole nell’arte salta subito all’occhio. Pensiamo agli egiziani: i piedi dovevano essere rappresentati solo di fianco, il petto doveva offrirsi in tutta la sua ampiezza, l’occhio, sebbene ripreso di lato, doveva essere disegnato intero rinunciando ad ogni velleità prospettica… Poi però arrivano i greci, e nel 500 a.C. vediamo il primo piede rappresentato di fronte, dove le dita sono ridotte a cerchietti: eresia!
O libertà?
Penso che l’arte viva/sopravviva sul confine tra regola e libertà. Senza regole rischiamo che tutto finisca nello scatolone etichettato “arte”, anche una stanza piena di specchi rotti, come a una Biennale veneziana di qualche anno fa.
L’equilibrio tra regole e libertà è un equilibrio dinamico: dagli egiziani ai sassi in mezzo alla stanza la distanza non è certo solo temporale. Oggi sembra che si penda verso l’eccesso di libertà, tutto può diventare arte, come tutto poteva entrare nelle capsule del tempo di Warhol. Ma è solo apparenza…
Come dicevo all’inizio, un artista deve essere libero, e per essere libero deve conoscere la Verità.

Intanto, stiamo perdendo la memoria (e non è un caso se Mnemosine era la madre delle muse). Poi siamo poveri di energie spirituali: le poche che ci restano le dedichiamo a far soldi e a coltivare i simboli di stato. E quando l’energia interiore (nonostante tutto, ne abbiamo ancora) si fa sentire, non siamo capaci di controllo, e cadiamo negli eccessi. La povertà di energie si riflette nella debolezza del desiderio e nella scarsa propensione alla manualità. In queste condizioni è sempre più difficle che i nostri atti, arte compresa, permettano quello svelamento della Verità che sfocia nell’utile e nel buono (senza scomodare i filosofi greci, sfioriamo il Mancuso di “L’anima e il suo destino”: alla Verità si giunge con un lavoro sia intellettuale che morale).
Insomma, l’arte è regola, libertà, memoria, energia, controllo, desiderio, manualità, svelamento, bontà…
E perché non tornare alle origini. L’arte deve ritrovare e ricreare la spinta che l’ha fatta nascere nelle caverne preistoriche, e che non vedo nei musei contemporanei, né leggo nei discorsi di Leone Verrasto: la magia.

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