Tag Archives: violenza

Il canto dell’ippopotamo (Alberto Garlini)

Il canto dell’ippopotamo è qualcosa che si dice quando si vuol dire qualcos’altro, ma è anche una specifica allusione ad un suono che esce da un animale sgraziato che sguazza nel fango: è, insomma, una metafora della poesia.

Anche la poesia ha bisogno di mettere i piedi sulla terra e di sporcarsi, per elevarsi.

“Ci piaceva considerarci degli animali sgraziati, degli ippopotami appunto, che però possono cantare con una voce vera.”

E di poesia in questo libro si parla parecchio: ne ha scritta Garlini, l’autore, ma ne ha scritta soprattutto Pierluigi Cappello, che di Garlini era grande amico.

Ma si parla anche del fango della depressione e dei rapporti umani avvelenati, come quello con Esther, la donna ha un ruolo non indifferente nella caduta dell’autore.

Arrivato alla soglia dei trent’anni, Garlini si accorge che non sa cosa fare della propria vita. Ha una laurea in legge, ma la sola idea di entrare in uno studio legale gli fa venire la nausea. Gli piace scrivere poesie, ma si ritrova sempre squattrinato, e per di più incontra questa Esther, ballerina, studente universitaria di non si sa cosa, bellissima e dannosa come un veleno che crea dipendenza e ti uccide lentamente.

Gli unici momenti in cui si sente bene sono legati alla poesia, quella vera, soprattutto se si trova assieme all’amico Pierluigi, che, pur essendo costretto su una sedia a rotelle, non parla mai del dolore, né fisico né morale, ed ha un sorriso per tutti.

E’ interessante leggere dei rapporti personali tra letterati. Quando leggo un libro mi faccio sempre un’idea degli autori come di persone che vivono di pensieri elevati e che parlano di argomenti inerenti alla storia culturale del nostro paese.

Niente di più fuorviante, visto che si dedicano spesso al pettegolezzo, anche quello cattivo, e che gran parte del tempo passato assieme se ne va in birre, pizze e scemenze varie.

“Non c’è letteratura senza la felice vergogna di avere detto o fatto stupidaggini bambinesche”.

Però poi il libro che hai davanti agli occhi lo hanno scritto, e allora ti interroghi sulle incongruenze della natura umana.

La depressione clinica io non l’ho mai provata, non al punto di dover ricorrere ad un medico o a delle medicine; in realtà non sono sicura di non averla mai provata… il fatto è che Garlini te la descrive in modo da farti riconoscere questi momenti di abisso come qualcosa di conosciuto, asfissiante, in modo da farti venire il dubbio che anche tu, in qualche momento della tua vita, ci sei stato, laggiù, e guardavi in alto la luce, come dal fondo di un pozzo.

Il bello del libro, il lato più umano, dunque, non è la sequenza degli eventi, che sono abbastanza scarsi: il bello è che Garlini è sincero (o perlomeno è sincero finché gli è possibile esserlo). Anche se eventi e persone possono non essere avvenuti ed esistiti come li ha descritti, lui si mette a nudo con le sue debolezze, e non cerca scusanti: sono stato così, sembra dirci, non posso farci niente.

Ce lo dice da un punto di vista di un uomo che si è allontanato dalla depressione (anche se la minaccia è sempre dietro la porta) e che ha, non dico accettato, ma preso atto della violenza (il fango) che il mondo può esercitare:

Pierluigi “sapeva come la violenza del mondo ti obbliga a fare cose che non vuoi fare“.

E’ un libro abbastanza cupo, anche quando racconta delle mattane combinate con gli amici, ma la cupezza non è un giudizio di valore, perché non si può dare un valore morale a una giornata nuvolosa, e comunque questo buio si dissolve quando Pierluigi parla, legge, muove le mani.

E’ stato un sollievo leggere, alla fine (attenzione: spoiler) che Esther non è una persona reale, bensì il condensato di una serie di incontri che hanno infestato la vita di Garlini in quegli anni.

Io non ho avuto una gioventù così stropicciata, anzi, era tutta ordine e obbedienza, e durante la lettura ho sentito un po’ di invidia per questi momenti: senza di essi Garlini non sarebbe forse diventato scrittore, forse è grazie ad essi che ha trovato il coraggio di dedicarsi alla scrittura, perché se non fosse caduto così in basso forse non avrebbe fatto lo sforzo che ha fatto per scrivere, gliene sarebbe mancata la motivazione. Chissà.

Leave a comment

Filed under Libri & C.

Borgo Sud (Donatella di Pietrantonio)

Questo romanzo è la continuazione de “L’arminuta”. Le protagoniste sono sempre l’arminuta, che adesso insegna letteratura italiana in Francia, e la sorella Adriana, che è rimasta al paese.

La storia inizia quando l’arminuta riceve una telefonata che la costringe a mollare tutto, a salire su un treno e a tornare a casa di corsa. Non sappiamo cosa sia successo fin quasi alla fine del libro, ma pian pianino, durante la sua insonne nottata in albergo, ricostruiamo gli anni di presenza ed assenza delle due sorelle.

La narratrice si è sposata con Piero, odontoiatra; Adriana ha avuto un figlio da Rafael, un figlio di cui non aveva detto niente alla sorella. I loro rapporti con i genitori sono molto altalenanti, soprattutto per Adriana, che ha vissuto le esperienze più estreme in famiglia.

Il racconto si snoda su più piani temporali: uno presente e diversi passati.

Adriana non mi piaceva nel primo romanzo e non mi piace neanche adesso. Secca, antipatica, taciturna quando dovrebbe parlare, troppo aperta quando dovrebbe riflettere sulle parole che usa, opportunista.

L’arminuta invece è troppo passiva, ingenua, accondiscendente.

Ma solo i libri ben scritti ti fanno provare simpatie ed antipatie per i protagonisti, e questo è molto ben scritto.

Sebbene fin dall’inizio si capisca che è successo qualcosa di brutto e che il dramma è sempre in agguato; sebbene sia poco verosimile che una sorella si presenti a notte fonda a casa dell’altra con un figlio che la zia non ha mai visto, e che sia ancora più inverosimile che non si parli subito della causa di questa apparizione improvvisa… è un libro che ti costringe ad andare avanti con la lettura.

I personaggi spingono al limite l’analfabetismo emotivo: a tratti è davvero eccessivo, ma per raccogliere certi messaggi, l’arte deve essere spesso estrema.

E poi lo vediamo nella vita di tutti i giorni: il 99,99% delle incomprensioni è dovuto a incapacità o a poca volontà di esprimersi.

3 Comments

Filed under Libri & C.

I serial killer (Massimo centini)

IMG_20200415_143224[1]

Breve saggio sui serial killer: in questa quarantena non succede niente, tra le quattro mura di casa, avevo bisogno di qualcosa di forte…

In realtà, questo libro non mi ha soddisfatto del tutto perché non racconta nel dettaglio le biografie dei singoli assassini: è più una summa scientifica di tutto il fenomeno. Ci sono riflessioni generali sul Male, richiami letterari e ai miti, nozioni di storia, classificazioni…

Di interessante, sui serial killer, c’è da dire che non sono capaci di fermarsi: smettono di uccidere solo quando li arrestano o quando muoiono. 

C’è inoltre un altro elemento comune a questo tipo di assassini: un passato fatto di sofferenza, violazioni, soprusi.

Sono pazzi?

La definizione di malattia mentale cambia a seconda dei contesti, ma se li consideri pazzi non puoi condannarli, perché incapaci di intendere e di volere. A volte la lucidità con cui agiscono ce li fa apparire razionali, e se confondi la razionalità con la sanità mentale, allora devi considerarli sani.

Ad esempio, è stato considerato sano di mente, e dunque condannato a morte, il russo Chikatilo, insegnante di letteratura,

che dal 1978 al 1990 uccise e mutilò cinquantatré persone, bevve il sangue di numerose di queste vittime e mangiò le loro carni.

C’è una parte in cui viene riportata la confessione di Alberto Fish (1870-1936), detto “l’Orco di Westchester”, che era talmente pieno di perversioni da farne un caso sui generis. Vi dico subito che non vi racconto cosa dice in una delle sue confessioni circa l’omicidio di un bambino di 4 anni (che poi ha cucinato e mangiato), perché è… troppo, anche per me, che sono abituata a guardare film horror.

Vi riporto invece la confessione della “saponificatrice di Correggio”, attiva negli anni ’30:

Dopo aver fatto a pezzi il cadavere, mettevo la caldaia a bollire sul fuoco la sera alle ore 19 e per tuta la notte la lasciavo andare, fino alle 4 del mattino. (…) I pezzi non adatti alla saponificazione, deposti in un bidone a parte, li versavo un po’ nel gabinetto e un po’ nel canale (…). Nel sapone c’erano dei pezzi più duri. Erano le ossa che non ero riuscita a saponificare, ma che pure erano divenute fragilissime, tanto che si dissolvevano a toccarle. Il sangue di solito lo riunivo a marmellata con cioccolato, aromi di anice e vaniglia, oppure garofano e cannella. Qualche volta in queste torte, che offrivo alle mie visitatrici, ci metteva un pizzico della polvere ricavata dalle ossa delle morte.

Questa signora qui, secondo voi, è pazza? Aveva orari specifici, strumenti quotidiani, routine, visitatrici…

I serial killer, molto spesso, sono all’apparenza persone normali, vicini di casa, padri irreprensibili: sono figure che – spinte all’estremo – mostrano le contraddizioni della natura umana.

A modo loro (e finché non diventi un loro obiettivo) sono affascinanti.

2 Comments

Filed under book, Libri, Libri & C., Scrittori italiani

Works, Vitaliano Trevisan @EinaudiEditore

Siamo nel Nordest (nel libro ma anche io, ci vivo, nel Nordest). In questo memoir, Vitaliano Trevisan ci racconta l’interminabile lista dei suoi lavori: diplomato geometra, un’esperienza con la droga, venditore di cucine componibili, tecnico in un ufficio comunale, lattoniere, manovale, dipendente di un laboratorio orafo, gelataio in Germania, sceneggiatore, costruttore di giostre, magazziniere, giardiniere per una cooperativa sociale, magazziniere per un’industria del settore della plastica…

Li ha passati quasi tutti, i lavori, prima di iniziare a vivere di scrittura; e di tutti ci svela arcani e magagne. Di raro parla bene di qualche fabbrichetta o ufficio. Anzi, non ne parla bene per niente. Dalla tirchieria dei titolari, al mancato rispetto delle regole della sicurezza, dall’ottusità dei colleghi, alle guerre intestine per guadagnarsi il plauso di un superiore… e giù così, uno peggio dell’altro.

Ed è forse questa acrimonia che fa perdere punti al libro; frasi come queste:

Vecchio testa di cazzo, pensai, se è vero che lavoriamo coi secondi, perché cazzo devo perdere tutto il tempo che perdo solo per spostare le vostre macchine di merda?

Mi manca la tridimensionalità psicologica dei grandi romanzi. Voglio dire: nei Grandi, anche il cattivo di turno non è poi così cattivo. Viene descritto sempre in modo ambivalente, sfaccettato, come sono tutti gli esseri umani, alla fine. Qui no: l’ex moglie, la madre e la sorella sono erinni, e di là non si spostano; i capireparto sono nasi marroni (perché leccano il culo a chi conta); i dipendenti comunali si appropriano degli attrezzi pubblici; gli industriali non pagano le tasse e tirano sugli stipendi… un aspetto positivo, un punto forte, ce l’avranno?

No.

Non dico che tutto ciò sia falso: dico che è parziale, che manca l’altra faccia della luna di tutti questi “cattivi” (lui è molto più colorito con gli aggettivi), e questa mancanza toglie letterarietà al libro. E’ per questo che gli do un 3,5 (su 5) al posto di 4.

Perché Trevisan sa scrivere. Non mancano i riferimenti ad autori davvero letterari(Bernhard e tanti americani), e certe similitudini sono proprio azzeccate. Proprio per questo, dispiace quando i paragrafi si trasformano in un lungo elenco di recriminazioni, insomma, in uno sfogo (vendetta?) che non è molto diverso da quelli che si sentono al bar; contro l’ex moglie, ad esempio (di cui però accetta l’appartamento gratis) o contro Toni Servillo, il regista (ho notato un filetto di invidia per la carriera illustre?).

Al di là di tutto questo, che dire?

Il Nordest c’è, ed è così (o era: dieci, quindici anni e un libro è già un po’ obsoleto, quando si parla di industria)

I dipendenti (operai e impiegati e amministratori) ci sono, e sono così.

Ad esempio, parlando di un titolare (sì, bestemmiano tutti, nel Nordest, non conta il titolo di studio né il conto in banca):

(…) un Presidente sempre meno sicuro di se stesso diventava perciò sempre più aggressivo, e spesso, pieno di rabbia e frustrazione, non riuscendo a trattenersi, si sfogava bestemmiando e sbattendo i pugni sul tavolo.

Oppure, parlando di un collega (qui, ci possono essere eccezioni):

(…) nella sua voce un tono sempre rancoroso, e stupido, ottuso (…) che rimbambisce nella ripetizione stolida e priva d’invenzione di frasi fatte, sempre uguali.

O, parlando in generale (vero, in tutte, tutte le aziende dove sono stata io, e ne ho provate diverse):

Almeno una mezz’ora di abbuono, sempre a beneficio del datore di lavoro, è prevista ovunque.

Nel complesso: il libro di un autore arrabbiato.

Con cui non andrei d’accordo. Non potrei mai andare d’accordo con uno che ritiene normale rubare 40-50 marchi dalla cassa della gelateria.

Stop.

Leave a comment

Filed under Arte, autobiografie, book, Libri, Libri & C., Scrittori italiani

Alaska, Brenda Novak @GiuntiEditore

Comprato a 9,9 euro all’autogrill. Mi era venuto il dubbio che fosse in offerta perché di bassa qualità… ma aveva una copertina così invitante, e poi avevo voglia di “vedere” un po’ l’Alaska, insomma, l’ho letto.

Ecco qui solo alcuni dei difetti che mi sento di segnalarvi:

a) l’amicizia tra la dottoressa Talbot e Lorraine, la prima vittima, non è resa bene: non basta dire che erano amiche, e che la dottoressa l’ha ospitata a casa sua dopo la separazione di Lorraine dal marito. Il rapporto non si sente, non traspare: non viene mostrato.

b) l’auto che non va in moto e che costringe il poliziotto ad ospitare la protagonista a casa sua per la notte è più banale di un’unghia incarnita.

c) il poliziotto bello, giovane, rispettosissimo, paziente, intelligente, dalle spalle ampie è più banale di un’unghia smaltata.

d) non si vede l’Alaska. Si vede solo la neve, ma non c’è una descrizione di una, dico una, casa o costruzione. Non so come sono fatte le strade, non so se per arrivare da un posto all’altro bisogna attraversare boschi o fabbriche. L’Alaska qui non c’è.

e) gli spostamenti delle persone sono incompleti. Da un momento all’altro te li trovi in una stanza o per strada e non hai letto da nessuna parte che si erano mossi.

f) per tutto il romanzo ti parlano di un episodio in cui Jasper si è fatto vivo dopo venti anni di latitanza. E’ successo l’estate precedente alla vicenda del romanzo. Ma non si sa come è successo, come è iniziato, perché è andato a buon fine (per la dottoressa). Non si sa niente.

g) i dialoghi tra la Talbot e il poliziotto figo sono molto improbabili. Si trovano nel mezzo di una possibile evasione di serial killer dal carcere di massima sicurezza e loro stanno a parlare di come e quando, vista la storia pregressa di Evelyn, potrebbero far sesso.

h) tralascio la banalità dei tempismi di apparizione di Glenn e Garza nella scena finale.

i) la direttrice del carcere è in Nuova Zelanda per il matrimonio della figlia, e per tutta la durata della vicenda non c’è modo di contattarla. Improbabile. Una con una responsabilità del genere deve essere sempre rintracciabile, matrimonio-della-figlia una mazza.

Eppure… sono arrivata alla fine della lettura. E che volete farci, dovevo capire se l’assassino era quello che avevo individuato fin dalle prime pagine!

Era quello.

E se una incapace come me lo ha capito fin da subito, allora il libro è proprio un thriller da poco.

Leave a comment

Filed under book, Libri & C., Scrittori americani

Il figlio – Philipp Meyer

Uno dei libri più belli che ho letto nelle ultime settimane!!

Ci sono tre punti di vista, tre personaggi principali, tutti della stessa dinastia, quella dei McCullough: Eli, che viene rapito dai Comanche da adolescente; Peter, che si innamora di una discendente dei Garcia, la famiglia che i suoi parenti hanno decimato; Jeanne Anne, l’unica donna che prenderà in mano il patrimonio dei McCullough.

Non è un libro per stomaci delicati, soprattutto quando descrive gli indiani che fanno lo scalpo ai bianchi o ad altri indiani (per la cronaca: io NON ho lo stomaco delicato). Ma le ricerche che Meyer ha fatto prima di scrivere il romanzo, lo stile chiaro con cui ci descrive i dettagli di come vivevano negli Stati Uniti del Sud alla fine dell’Ottocento, e le verosimili psicologie dei personaggi, ti fanno innamorare del libro fin dalle prime pagine.

Questo è il secondo romanzo di Meyer, ma non ho paura di pronosticare un grande futuro per lui!

Un autore che scrive dal punto di vista di una donna in questo modo credibilissimo, tanto da farmi immedesimare coi pensieri di J. A., salirà agli altari letterari mondiali.

E’ un romanzo pieno di violenza, sì, ma perché descrive una realtà che è tale. Vado oltre: è un romanzo che si pone su una linea polemica nel panorama politico contemporaneo. Perché ci ribadisce un’altra volta che gli Stati Uniti sono il frutto di una serie di furti di territorio.  Perché la torta è quella che è, e se ne vuoi una fetta in più, devi prenderla al tuo vicino.

Gli americani… (…) Rubavano una cosa e poi pensavano che nessuno avesse il diritto di rubarla a loro. (…) La sua gente aveva rubato la terra agli indiani, eppure quel pensiero non lo aveva mai sfiorato: pensava solo che i texani l’avevano rubata alla sua gente. E gli indiani, che erano stati derubati dalla sua gente, avevano rubato la terra ad altri indiani.

E poi, sentite questa frase, che potrebbe uscire direttamente dalla bocca di Trump:

Solo le pallottole e i muri ti garantiscono dei vicini onesti.

Il personaggio più enigmatico è Eli, che poi verrà chiamato il Colonnello: sarà il capostipite della ricchezza dei McCullough. Ma quanta fatica ha fatto a reinserirsi nel mondo dei bianchi dopo esser stato venduto dalla sua famiglia comanche? E come si fa a far coincidere questa figura di adolescente inquieto e confuso con quella del vecchio che fa decimare la famiglia del vicino, che pure conosceva?

E’ un romanzo con mille sfaccettature. Per quanto se ne possa scrivere, non se ne renderà mai la ricchezza: leggetelo!

1 Comment

Filed under Libri & C., Scrittori americani

Boonrod – Paola Tonussi

imageLa voce narrante descrive stati d’animo e sensazioni: parla di sua madre, di un bambino che diventa suo amico, dei paesaggi della Thailandia. Ad un certo punto: un rapimento, e paura, terrore, orrore, dolore, sete. Poi, alla fine, la luce, un salvataggio, la fine dell’inferno. Solo alla fine si viene a scoprire che la voce narrante è quella di un cane: mi ricorda un racconto di fantascienza in cui la voce narrante parla di alieni orripilanti da cui bisogna difendersi e poi si scopre che questi alieni sono gli esseri umani.

Questo libro è un po’ così, ma gli esseri umani sono anche Atid e il vecchio che ha raccolto Boonrod per strada insieme alla madre, sebbene non avesse neanche il cibo per sé.

E’ un romanzo pieno di colori e paesaggi, tutti travisati dagli occhi di un cane (che però potrebbero essere gli occhi di una persona particolarmente sensibile). La prosa un po’ ottocentesca – ci sono tante descrizioni – non ci risparmia la durezza della paura quando Boonrod è imprigionato.

E’ una storia vera, tanto che il cane ora vive con la scrittrice, e i proventi del libro andranno alla Soi Dog, un’associazione che si occupa di salvare i cani dal mercato alimentare. In Thailandia ora è illegale commerciare carne di cane, ma nel resto dell’Oriente no. E i numeri sono spaventosi (per il commercio dei gatti, addirittura non ci sono).

Notevole l’intento di Paola Tonussi che lo ha scritto di getto per dare una mano in questa crociata.

Mi permetto solo un invito personale: non facciamo differenze tra cani, gatti, rane, maiali e mucche. Se il commercio di carne di cane solleva un vespaio anche tra chi vegetariano non è, cerchiamo di essere coerenti. E’ la posizione dei c.d. onnivori che mi sembra un po’ dubbia quando se la prendono con gli orientali per i loro usi e costumi: le usanze si cambiano. Dappertutto, quando serve.

 

Leave a comment

Filed under Libri & C.