Finalmente sono andata alla presentazione di un libro! E ho rincominciato in grande, ieri sera, al Caffè Letterario di S. Donà, con Paolo Malaguti, Premio Campiello 2021 Selezione Giuria dei Letterati.
Davanti a un gruppetto poco numeroso ma molto attento, ci ha parlato di “Se l’acqua ride”, un romanzo ambientato nella bassa padovana che ci racconta della fine della fine navigazione fluviale tra il 1965 e il 1967.
E’ dunque un libro incentrato sul momento di passaggio da un sistema economico che ruotava attorno al fiume, ad uno che ruota attorno all’industria e al trasporto su gomma. Non lo ho ancora letto, dunque non mi soffermerò sui dettagli, ma mi limiterò a raccontarvi un po’ di quello che è stato detto ieri sera.
Malaguti è affascinato dalle parole, soprattutto da quelle che sono cadute in disuso, e ammette che spesso parte da un termine per costruirci attorno una storia: cioè, non è il contenuto che guida la scelta delle parole, ma è l’autore che vuole assolutamente utilizzare una parola e inizia a chiedersi cosa può succedere attorno ad essa.
E qui è intervenuta Irene Pavan, che, in veste, per la prima volta, di presentatrice, gli ha chiesto se l’utilizzo di parole venete in un romanzo pubblicato da un editore a distribuzione nazionale non poteva essere pericoloso.
E’ una domanda che avrei potuto fare anche io, che ho sempre difficoltà a leggere libri di autori siciliani o napoletani che utilizzano troppi termini dialettali, ma devo ammettere che col veneto, per ovvi motivi, faccio meno fatica.
Qui Malaguti però ha detto una cosa interessante: la comprensione va… provocata. Cioè, non bisogna limitarsi a scrivere quello che si sa che il pubblico può capire, non stiamo leggendo un libretto di istruzioni per montare un mobile Ikea. La letteratura in quanto tale possiede un’anima poetica, e la poesia può e deve celarsi: è dunque tutto a posto se la sfumatura che un lettore dà a una frase è diversa dalla sfumatura che ne dà un altro lettore (cosa che potrebbe creare problemi invece se dovessimo montare una libreria).
In secondo luogo, ha aggiunto Malaguti, l’italiano non è una lingua parlata (Meneghello docet) e non ha una origine popolare, e questo lo priva di alcuni connotati affettivi che sono intrinseci alla lingua che si usa tutti i giorni e che di fatto è nostra nel senso più completo del termine.
Sono stati affrontati anche molti altri temi prima di chiudere l’incontro e di dedicarci alla firma degli autografi, ma mi fermo qui, perché voglio prima leggere il romanzo e poi confrontare quello che ho sentito con quello che leggerò.
Mi concedo solo un ultimo commento sulla sensazione generale della serata.
Come ho detto c’erano poche persone: se da un lato S. Donà non ci ha fatto una bella figura, dall’altro… si stava proprio bene! La gente era seduta ai propri tavolini, con la possibilità di bersi uno spritz, non c’era confusione, e non ho dovuto uccidere nessuno per farmi fare l’autografo.
Malaguti ed Irene, poi, avevano un atteggiamento rilassato, sembravano a casa propria tutti e due: capisco Malaguti, che è insegnante ed è abituato a parlare davanti a tanti occhi che lo guardano, ma lasciatemi fare i complimenti ad Irene Pavan (che è l’autrice di Solo per dirti addio) e che non ha lasciato trasparire quasi nulla dell’emozione che si portava dentro.
Ci sono scrittori che ti fanno sentire un animale di razza inferiore: magari non lo fanno consapevolmente, perché non ti conoscono e non vogliono farti del male, ma la sensazione ti arriva lo stesso attraverso l’uso di una frase in latino, o un movimento della testa quando dici qualcosa di ingenuo dal loro punto di vista.
Malaguti non è così: pur avendo vinto uno dei più importanti premi letterari italiani e pur essendo pubblicato dall’Einaudi, quando sorride, sorride.
Non è scontato.