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Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sconcertante.

All’inizio ero combattuta e mi sono chiesta se continuare a leggerlo fino alla fine: ha delle parti che sfiorano la pornografia. Però se sai tener duro e arrivare alla conclusione, ne trovi altre, di parti, dove ti scende la lacrima.

Perché Mickey Sabbath, ex burattinaio con l’artrosi alle dita, è un essere che molti definirebbero pervertito: la prima moglie Nikki è scomparsa nel nulla; la notte in cui è scomparsa, lui era con un’altra donna che poi è diventata la seconda moglie, e che è finita in un centro a disintossicarsi dall’alcool; continua a restare con lui per motivi non meglio definiti, ma per sopportare questa situazione ha bisogno di stordirsi di volantini e riunioni dell’Anonima Alcolisti.

Quando lo incontriamo, all’inizio del libro, Sabbath è nel pieno di una relazione con l’immigrata croata Drenka, moglie del proprietario di un ben avviato albergo: è una relazione ai limiti del perverso, dove arrivano perfino a urinarsi addosso.

Ma Drenka muore e Sabbath cade in depressione. O per lo meno così dico io, lui non lo ammetterebbe mai. Anche se ammette che vuole suicidarsi, non si parla mai della sua depressione: semmai di perversione. Vive per il sesso e in ogni donna trova un’attrattiva che giustifichi un rapporto.

Ci prova perfino con la moglie dell’amico che cerca di aiutarlo, e va al funerale di un altro amico tenendo in tasca gli slip della figlia del primo amico…

Ma alle storie con le donne di oggi, si affiancano i ricordi del passato, soprattutto quelli di Morty, il fratello maggiore morto durante la seconda guerra mondiale a soli vent’anni. E quelli della madre, che dopo la morte del figlio si è chiusa nel suo dolore e non è più stata né madre né moglie, salvo poi riapparirgli davanti mentre lui sta facendo sesso con Drenka.

Sono ricordi che si fanno via via sempre più strazianti e verso la fine del libro si comincia quasi a capire Sabbath e il suo bisogno di perdersi nel sesso.

Sapete perché Roth è un grande scrittore? Perché se uno di noi comuni mortali incontrasse uno come Sabbath si limiterebbe a etichettarlo come pervertito. Ma Roth no. Roth riesce a tirarne fuori l’umanità. E sebbene le scelte di Sabbath possano essere molto diverse dalle nostre, sebbene le sue reazioni alle disgrazie umane possano – secondo la morale imperante – considerarsi vergognose, Roth sa che in fondo Sabbath è tutti noi.

E’ insopportabile perché non usa veli: dice le cose come stanno. Non ha il minimo senso del pudore, la minima delicatezza. Dire cinico è dire poco. A modo suo, è un estremista della Verità. Anche lui si abbassa a qualche compromesso, certo, ma lo fa quasi compiacendosi di questo cedimento che, per lui, è una perversione alla rovescia.

E’ un romanzo disturbante proprio perché ci mette davanti al nostro perbenismo.

Non mi piacerebbe frequentare un tipo come Sabbath, no, assolutamente no.

Ma leggerlo è un’altra cosa.

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Le intermittenze della morte, José Saramago @feltrinellied

Non mi aspettavo di trovare un Saramago così ironico, dopo la lettura di Cecità, ma, si sa, i grandi sanno giocare con lo stile; e ho l’impressione che qui il premio Nobel si sia divertito un sacco.

TRAMA

La morte decide di non lavorare per un po’, solo per far capire agli uomini di un certo paese (che non viene mai nominato) quanto lei, in realtà, sia necessaria. Infatti quando nessuno muore più cominciano i problemi. Nella prima parte Saramago passa in rassegna una serie di istituzioni che vanno letteralmente nel pallone: la Chiesa, le case di riposo, le assicurazioni, le pompe funebri…

Ma il problema tocca subito il privato, le famiglie in cui ci sono dei malati che non muoiono, indipendentemente dalle condizioni in cui si trovano. Perché nel paese si continua a invecchiare, con tutti gli svantaggi del caso. Per “aiutare” un po’, ci si mette anche la mafia (“maphia”, col ph), che si incarica, dietro compenso, di trasferire i malati terminali al di là dei confini per rendere possibile il trapasso, con conseguenze internazionali che mettono in pericolo anche i rapporti coi paesi confinanti.

Ad un certo punto, dopo aver dato questa dimostrazione, la morte ricomincia a operare, ma decide di farlo mandando delle lettere di avviso, in modo da dare una settimana ai predestinati per sistemare le proprie cose.

Sembra che tutto sia ristabilito, con le dovute modifiche della procedura, quando la morte si accorge che un tipo, un violoncellista, non muore.

Un romanzo dissacratore, che si prende gioco della Chiesa, del re, della filosofia, del lettore e di tutte le velleità umane; ma che si prende il gioco anche delle morte: insomma, non si salva nessuno, tranne il violoncellista (o quello che lui rappresenta).

Prendete fiato (perché di punti e di paragrafi ce ne sono pochi), dateci una letta e ditemi cosa ne pensate. A causa della mia idiosincrasia verso l’ironia, ho preferito Cecità, però devo ammettere che Saramago è stato bravissimo a rendere la tragicità delle conseguenze di un evento assurdo: e il rovesciamento della prospettiva è sempre un indice di genialità.

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Il senso di una fine, Julian Barnes @CasaLettori

Perché nessuno mi ha mai parlato di Julian Barnes?

Questo scrittore è bravissimo!

“Il senso di una fine” unisce il racconto di una bella storia a tutta una serie di piccole e grandi riflessioni su una marea di argomenti: il rapporto tra gioventù e vecchiaia, la memoria, la storia singolare e la Grande Storia, il tempo che può tornare indietro quando si aggancia ai ricordi, l’inconoscibilità del passato e delle persone…

La prima parte del libro racconta la gioventù di Tony Webster e della sua amicizia con Adrian, ragazzo intelligentissimo e, sotto certi aspetti, misterioso, con un senso della vita tutto suo, improntato alla filosofia e alla storia.

Eppure… eppure Adrian, che nel frattempo si era fidanzato insieme a Veronica, l’ex fidanzata di Tony, si suicida.

Fioccano le teorie sulle ragioni del gesto. Secondo alcuni, era troppo intelligente per vivere; secondo altri, ha portato all’estremo limite la sua teoria filosofica sulla vita.

La seconda parte del libro inizia con una lettera che comunica a Tony di esser stato nominato erede di 500 Sterline e di un documento. E da chi arriva questa eredità?

Il finale è spiazzante (anche se devo dire che qualche sospetto sulla madre di Veronica mi era venuto).

Al di là dell’antipatia che mi ha ispirato Veronica, la giovane fidanzata del protagonista (va bene fare la misteriosa, ma ad un certo punto bisogna anche spiegarsi!), i personaggi sono intriganti e hanno così tante sfaccettature che non puoi non immedesimarsi in una di queste.

E ora… alla ricerca di altri libri di Julian Barnes!

Più impari, meno temi. “Imparare” non in termini di studio accademico, ma di comprensione effettiva della vita.

Dobbiamo conoscere la storia di chi scrive la storia, se vogliamo comprendere la versione degli eventi che ci viene proposta.

 

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La festa è finita – Lidia Ravera

Questo è il primo libro che leggo della Ravera. Devo ammettere che fino a pagina 50 circa non capivo dove andasse a parare e la sua prosa mi ha messa alla prova: le figure retoriche sono spinte al limite, spesso dovevo rileggere le frasi due o tre volte per capirle. Mi è venuto il dubbio che il suo fosse anche un esercizio un po’ spinto, forse un modo di mettersi in mostra… dubbio che mi rimane aperto, perché comunque credo che uno stile del genere sia difficile anche da scrivere, oltre che da leggere.

A parte questo, una volta ingranato, la lettura procede più spedita.

I personaggi sono tutti attorno ai cinquant’anni, un’età in cui si dovrebbe iniziare a fare i conti col passato. Questo gruppo di persone, per di più, viene da esperienze di impegno politico-sindacale: scioperi, attività contro i “padroni” e i “borghesi”, scontentezza in genere.

Ma il modo in cui la vicenda si sviluppa ci lascia il dubbio che quegli anni non siano serviti a nulla. Angelo, in particolare, il più arrabbiato e disilluso, arriva a rapire Carlo, che in gioventù gli aveva fatto prendere coscienza della sua identità di operaio contrapponendola alle figure dei “nemici”. Solo che Carlo ora si è spalmato proprio sulla figura del borghese riuscito e arricchito, che è andato a vivere in America e che fa il direttore d’orchestra. Ha insomma incarnato le peggiori caratteristiche dei nemici contro cui aveva spronato Angelo a lottare.

Esito tragico: non poteva essere altrimenti.

Non c’è un solo personaggio che mi sia diventato simpatico.

Non Carlo, perché davvero si è adeguato a tutti gli stereotipi di classe del suo ceto. Non Angelo, perché ad un certo punto devi venire a patti con la tua aggressività, e non puoi dare sempre la colpa al tuo passato e a quelli che hai frequentato. Non Alexandra, che mi è sembrava senza carne né sangue. Non Giorgia, perché una che accetta così passivamente di farsi menare da un uomo non è un buon esempio per le altre donne. Né tutti gli altri che girano attorno a questi tre, perché mi sembrano tutti senza ideali: effetto sicuramente voluto, per sottolineare la contrapposizione col loro passato pieno di utopie.

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