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Come ha imparato le lingue straniere Katò Lomb

Katò Lomb è stata una delle più famose poliglotte, traduttrici e interpreti del secolo scorso. Ungherese, nata nel 1909 e morta nel 2003, è stata una delle prime interpreti simultanee al mondo. L’amore per le lingue l’ha spinta a impararne (e a usarle nel suo lavoro) ben sedici.

Questo breve libro parla di diversi argomenti inerenti le lingue: il ruolo degli insegnanti, l’esperanto, le inibizioni, il monolinguismo, il decadimento del linguaggio, la punteggiatura…

Ma per me le parti più interessanti sono quelle in cui dava i suoi suggerimenti per lo studio delle lingue straniere. Eccone alcuni.

  • L’interesse gioca un ruolo essenziale nel processo di apprendimento (anche) delle lingue. Le lingue si studiano come uno strumento per approfondire i propri interessi o per instaurare rapporti interpersonali.
  • Non bisogna basarsi troppo sulla traduzione: la traduzione implica il ricorso costante alla lingua madre, ma la lingua bersaglio ha un suo modo di ragionare che non può sempre avere il corrispondente nella lingua madre.
  • Il dizionario va usato per raffinare la conoscenza, non come primo strumento di apprendimento. Si deve sempre cercare prima di dedurre il significato di una parola dal contesto.
  • I libri non hanno rivali come strumento per l’apprendimento delle lingue. La dott.ssa Lomb lo consiglia sempre, perché la lettura ti permette di venire in contatto più e più volte con certi termini e certe strutture, e questo è l’unico metodo per imparare.
  • Preferisce la lettura dei libri di carta, perché a margine scrive le frasi che ha imparato (frasi, non parole isolate).
  • La curiosità tiene vivo l’interesse.
  • Raccomandava di ascoltare spesso la radio e di parlare con se stessi per mettere in pratica quanto si apprende. Non riusciva invece a studiare le lingue attraverso l’ascolto ripetuto di cassette (siamo negli anni Ottanta), perché si annoiava.
  • Iniziava a scrivere in una lingua straniera molto presto, a costo di semplificare le frasi.
  • Prendere appunti, scrivere note o diari in una lingua straniera, così come parlarla con se stessi, permette di evitare lo stess e la paura di commettere errori.

Il suo metodo era ampiamente basato sulla lettura e sull’ascolto, e andava (va) particolarmente bene per studenti che non possono dedicarsi allo studio full-time.

Le sue osservazioni sono state confermate anche da più recenti studi sull’apprendimento delle lingue straniere: per disporre di un buon vocabolario attivo, bisogna prima disporre di un ampissimo vocabolario passivo, proprio come fanno i bambini, che rimangono mesi e mesi ad ascoltare prima di iniziare a parlare.

Il libro poi contiene alcuni simpatici aneddoti che raccontano piccole gaffes fatte da lei o da colleghi a causa dei fraintendimenti che nascono nel processo di interpretazione.

E’ un libro disponibile solo in inglese, ma è molto abbordabile.

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Sindbad torna a casa, Sandor Marai @Adelphiedizioni

Sindbad era lo pseudonimo dello scrittore ungherese Gyula Krudy, che Sandro Marai amava moltissimo. In questo romanzo Marai lo ritrae una giornata facendogli ripercorre le strade della vecchia parte di Budapest in cerca del mondo perduto.

Va in bagni termali, caffè, alberghi e ristoranti in cerca delle sensazioni della vecchia Ungheria, degli uomini che scrivevano per scrivere, delle donne vere, del cibo e del vino che gli ricordino cos’era una volta la sua patria.

Non succede nulla, è tutta una narrazione basata sui ricordi e sulle sensazioni: ma quanta nostalgia!

Dove sono gli scrittori e i poeti ungheresi, quelli veri? si chiede Sindbad.

(…) gli unici che si potessero vedere, in città, erano solo i giornalisti di mezza tacca e gli pseudoscrittori. Quelli veri, giovani e vecchi, quei pochi che custodivano ancora nella loro grotta segreta la lingua, lo spirito, le regole del gioco, il fervore, ovvero in generale tutto ciò che dava il diritto alla nazione, tra popoli invidiosi, di vivere sulla terra degli antenati, gli scrittori non andavano più da nessuna parte.

Sindbad (ma anche Marai) scrive per ritrovare la sua vecchia Ungheria, per riprodurre odori e pietanze, e ogni piatto o luogo che nomina si allarga per inglobare tutta una cultura perduta.

Scriveva perché sentiva quella voce nella sua vita, che era fragile e infelice come quella di ogni vero scrittore e di ogni autentico ungherese (…). Quella voce l’avevano sentita tutti i suoi antenati, ma non erano stati capaci di esprimerla in parole, per cui avevano soffocato nel vino, nelle avventure e nella musica le domande sollevate da quella voce.

Libro breve, densissimo di nomi di autore ungheresi, tanto che uno si chiede: ma quanti scrittori e poeti ha l’Ungheria?

Su tutto, aleggia la tristezza e il desiderio di morte.

E Marai, per quanti anni se l’è portato dietro questo desiderio di morte?

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