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Gita al faro, Virginia Woolf @NewtonCompton

Ma cosa c’è da recensire, qui?

In questi giorni, in classe di mio figlio (una quarta elementare) stanno studiando le recensioni. La recensione, in soldoni, dovrebbe presentare il libro attraverso un breve riassunto che non sveli il finale e poi dovrebbe essere corredata da un parere sull’opera. Una recensione è tutta qui: perché non mi piacciono, non capisco (non ci arrivo) le recensioni piene di paroloni, più complicate del testo che stanno cercando di spiegare.

Eppure, un libro come questo non lo puoi né riassumere né valutare.

Cosa fai, dici che è un bel romanzo? Che la Woolf è una bravissima scrittrice? Ma per favore…

La storia è brevissima: una madre promette al figlioletto di andare a visitare il faro, solo che poi non ci vanno. Passano dieci anni, in cui la casa al mare va in rovina. Alla fine, la famiglia torna (la madre e due figli sono morti), e la gita al faro, finalmente si fa. Ecco, il riassunto non dice nulla. Come non ti direbbe nulla una persona a cui non parli.

Bisogna leggerlo. Scontrarsi con la prosa, con le ipotattiche e con le parentesi. E poi scoprire che certe immagini, certe sensazioni, sono le stesse che hanno colpito anche noi, e che continuano a colpirci, ogni tanto. E che siano immagini e sensazioni positive o negative, non importa: ci si sente meno soli.

E’ curioso, che un romanzo così, che parla, dopotutto, di solitudini, riesca a farti sentire meno solo. Ma ci riesce grazie al monologo interiore, quell’artificio che spalanca i corpi, che apre la corazza della pelle e ti fa vedere e sentire come qualcun altro. Si scopre che siamo tutti esseri umani con le stesse pulsioni, simpatie, antipatie e debolezze.

E ti fa riflettere sul fatto che quando qualcuno ti sta, letteralmente, sulle palle, tu non sai mai, mai, davvero, cosa quel qualcuno sta pensando o provando. Ce lo dimostrano bene Cam e James, durante la traversata che li porta al faro.

Ecco: non posso comunicare ai lettori del blog cosa significa leggere l’Incomunicabilità attraverso i personaggi di “Gita al faro”. Tanto vale chiudere qui.

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De Brevitate Vitae – Seneca

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Traduzione del titolo (più o meno): sulla brevità della vita.

Evviva, che felicità…

No, scherzi a parte: Seneca se la prende con tutti quelli che perdono tempo e poi si lamentano che non ne hanno. Per lui il massimo della vita è dedicarsi all’Otium, non inteso nel senso di ozio (della sedia divano e TV), ma nel senso di studio della natura umana, studio di se stessi, lavoro sul proprio carattere.

Ci va giù duro, e quel che è peggio è che le sue parole si adattano benissimo all’uomo e alla donna di oggi:

Sentirai i più dire: “A cinquant’anni mi ritirerò a vita privata, a sessant’anni abbandonerò le cariche pubbliche”. Ma alla fine chi ti garantirà che avrai ancora da vivere? (…) Non ti vergogni di riservarti gli avanzi della vita e di destinare alla cura dello spirito quel solo tempo che non si possa impiegare in alcuna altra pratica?

Non gli vanno bene, ovviamente, neanche quelli che studiano nozioni pure per fare le figure da sapientoni nelle chiacchiere al bar (bè, non c’erano i bar, quella volta, ma penso di essermi spiegata):

(…) queste nozioni di chi correggeranno gli errori? Di chi terranno a freno le passioni? Chi renderanno più forte, più giusto, più generoso?

Secondo Seneca, gli unici che non buttano via il proprio tempo, sono quelli che

ogni giorno vorranno coltivare la più stretta intimità con Zenone, Pitagora e Democrito e gli altri sacerdoti della conoscenza, e con Aristotele e con Teofrasto (…). E’ possibile frequentarli di notte come di giorno. (…) Nessuno di loro ti costringerà a morire, tutti te lo insegneranno; nessuno di loro consumerà i tuoi anni, tutti aggiungeranno i loro ai tuoi. (…) Siamo soliti dire che non abbiamo potuto scegliere i genitori, ma che ci sono stati dati a caso: ma per gli uomini virtuosi è possibile nascere secondo il proprio arbitrio.

Proprio ieri sera abbiamo assistito alla recita della scuola dal titolo “Momo alla conquista del tempo”. Gianna Nannini a parte (Madonna, non la sopporto, come facciano a considerare grande artista una con la voce così, davvero non lo capirò mai) il messaggio non passa mai di moda, né ai tempi di Seneca, né oggi. E ciò nonostante, gli uomini continuano a perdere tempo (bè, sì, anche le donne).

Siamo stupidi?

 

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