Il libro si divide in due parti. Nella prima, Paul Auster inizia a scrivere della morte del padre un paio di settimane dopo che è avvenuta. Nella seconda, si passa dalla prima persona alla terza, ma il soggetto è sempre – più o meno – Auster (chiamato “A.”).

Tutto gira attorno al tema della memoria. Che cosa resterà del padre dopo la sua morte se il figlio non ne scriverà? E anche se il figlio ne scriverà, ne resterà davvero qualcosa che sia assimilabile a quello che suo padre era stato? E la memoria, il luogo in cui gli eventi accadono per la seconda volta, può servire ad attribuire un significato alla vita di una persona o lascia che tutto rimanga nel regno del Caso?
La parte più lineare è senza dubbio la prima (“Ritratto di un uomo invisibile”): ci racconta dell’uomo che ha conosciuto, col quale non è mai riuscito a comunicare davvero, quello che era benestante ma spilorcio, incapace di guardarsi dentro e deciso a non desiderare mai nulla troppo intensamente.
Un uomo insomma che si è sempre difeso dalla sofferenza, ma che per farlo ha rinunciato a tutto ciò che poteva dare spessore ed emozione alla vita.
E’ difficile parlare di questo libro perché non c’è una vera e propria trama (soprattutto nella seconda parte, dove le digressioni abbondano), ma la scrittura di Auster contiene sempre i suoi bocconi di verità: leggi una frase e ti accorgi che Auster sta parlando di te.