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Piangi, terra amata (Alan Paton)

Siamo in Sudafrica, nel 1946.

Il vecchio parroco Kumalo, di stirpe zulu, riceve una lettera da Johannesburg: è un grande evento, perché è da tanto che lui e sua moglie aspettavano notizie del figlio, che è andato nella grande città in cerca di lavoro e che non si è più fatto vivo.

Ma la lettera, in realtà, arriva da un altro religioso, e porta notizie di Gertrude, la sorella di Kumalo, anch’essa andata a Johannesburg tempo prima e di cui non si era più saputo nulla. La donna era andata in cerca del marito, che era partito in cerca di fortuna nelle miniere, e ora si trova in pericolo… spirituale.

Il reverendo Kumalo decide di partire per andare a salvare la sorella, e subito uno della parrocchia gli chiede di cercare la figlia, anch’essa scomparsa nelle spire della grande città.

Insomma, Johannesburg appare subito come un mostro divoratore di esseri umani.

Là, il reverendo trova anche il fratello – di cui da anni non sapeva più nulla – che si è dato alla politica: ce ne sono di cose di cui lamentarsi, ci sono scioperi da organizzare, folle da sollevare, e John Kumano si dedica all’opera con passione: fin troppa, si accorge il reverendo, perché il potere inebria e rovina le persone.

Tanto che anche il nipote è scomparso… è finito in un brutto giro, come sembra sia finito anche il figlio.

La ricerca è una discesa agli inferi: più volte incontra qualcuno che gli dà informazioni sul giovane, e ogni volta deve rassegnarsi che le informazioni erano vecchie e che il figlio si è spostato per l’ennesima volta.

Finché non trovano la sua donna, incinta e poco più che una bambina, anch’essa abbandonata.

Ora voi immaginatevi questo vecchio religioso che gira in lungo e in largo per la città spaventosa: non ci sono telefoni, non c’è internet, bisogna sempre chiedere e affidarsi alla memoria di qualcuno che non si conosce.

Ovunque regna la paura: la paura dei neri di morire di fame, e la paura dei bianchi, di venir uccisi dai neri.

Eppure, nonostante il titolo, e nonostante l’atmosfera lugubre che fuoriesce da queste pagine, il finale offre speranza. Anche troppa, forse, perché di tutto il male e i problemi che affliggono il Sudafrica sembrano possano essere eliminati con l’amore e col tempo.

Il sentimento principale che ho provato leggendo questo romanzo è la compassione per il vecchio che cerca, cerca e, alla fine, trova un figlio perduto, in tutti i sensi.

Ma ho provato anche un senso di impotenza di fronte agli innumerevoli problemi di un paese, problemi così intrecciati che neanche con la fine dell’Apartheid si sono risolti.

Paton ha uno stile particolare: a volte ricorre a una scrittura altalenante, come se si ascoltasse una nenia africana; altre volte ci riporta stralci di lettere, articoli di giornale, spezzoni di discorsi politici o di sentenze, e sono questi variegati scorci di Sudafrica che ci mettono davanti alla multiformità del paese.

Per quanto trovi un po’ ingenuo il finale (l’amore trionfa sul male), ammetto che ho tirato un sospiro di sollievo. La salvezza, però, può essere raggiunta solo nel luogo natio, non a Johannesburg, diventata il simbolo del potere che rovina le vite delle persone.

Certo, la salvezza non è a portata di mano, bisogna lavorare, rendere di nuovo il terreno fertile, non solo nel senso materiale del termine, sfruttando il concime degli animali, ma anche convincendo i giovani a restare nel veldt e a non andarsene distruggendo le famiglie e le tribù.

Si può salvare l’Africa, dunque? Sì, ma…

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Virus (Clive Cussler)

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Tutti parlano di corona virus e io… leggo un libro intitolato “Virus” (anche se nella versione originale il titolo è Vixen 03).

Che ci posso fare? Io mi rilasso così.

E, fatalità, oggi, all’età di 88 anni, è morto Clive Cussler.

E’ una coincidenza strana, perché era un pezzo che non leggevo libri d’avventura. E c’è un motivo: questo, come altri del genere, è commerciale, banale e deludente.

Intanto non si scende nei particolari dell’agente patogeno, mescolando il concetto di virus con quello di batterio, senza dire quali organi va a intaccare per provocare la morte in diciotto minuti.

Poi c’è la solita caduta di tono delle coincidenze: guarda caso, Dirk Pitt, il protagonista bello-bravo-figo-intelligente-stallone ecc… sta insieme a una deputata che deve scegliere se appoggiare la richiesta di aiuti alla rivoluzione sudafricana; ed è proprio la guerra civile sudafricana che rischia di far detonare una testata batteriologica di cui Pitt ha scoperto l’esistenza per puro “caso”.

Questa è la coincidenza più evidente, ma ce ne sono altre che non meritano attenzione.

Altre cadute di tono? Questa, ad esempio: Pitt e la deputata vengono fotografati mentre fanno sesso, allo scopo di ricattare la donna e farla votare in un certo modo sulla questione degli aiuti alla rivoluzione sudafricana.

Dirk Pitt interviene e, ricattando a sua volta il ricattatore, risolve la questione. Peccato che non spieghino come abbia fatto lui a venire a conoscenza delle foto, visto che nessuno gliel’ha detto…? La questione non viene chiarita.

E poi, diciamolo, anche se dei morti non si può parlar male: Cussler era un lipofobico maschilista.

Le donne sono tutte belle, magre e assoggettate agli occhioni verdi di Pitt. Non ne scappa una. Se, di striscio, si passa davanti a una signora “in carne”, la si definisce obesa, lasciando intendere che è una casalinga frustrata che cerca di farsi passare la depressione entrando in una giostra dell’orrore.

Mi dispiace parlar male di un libro di Cussler proprio oggi che è deceduto, ma certe storie è meglio vederle sullo schermo che leggerle sulla carta.

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Camminando nell’ombra, Doris Lessing

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My job in this world is to write.

Questa presa di coscienza mi ricorda tanto una frase dell’autobiografia della De Beauvoir, anche lei donna, scrittrice, impegnata in politica, presa da viaggi e uomini. Entrambe hanno sentito il bisogno di dirlo, qual è il loro lavoro, non tanto forse al mondo esterno, quanto per non perdersi tra tazzine da lavare, orari dei treni e spasimanti.

I parallelismi tra l’autobiografia della Lessing e quelle di altri scrittori non si fermano qui. Guardiamo ad esempio alla struttura del libro, suddiviso in capitoli che seguono i vari indirizzi in cui l’autrice ha abitato: come Paul Auster nel suo Diario d’inverno. E’ come se i traslochi, pur con tutti gli inconvenienti che provocano, tenessero in esercizio l’angolino del cervello adibito alla riesumazione dei ricordi e delle sensazioni: angolino essenziale nella quotidiana scrittura che ruota attorno a personaggi fatti di carne e sangue.

E poi, altro parallelismo: l’alcolismo. La Lessing non ne è diventata schiava come altri scrittori (cito solo Hemingway e John Cheever: gli americani sembrano non sentirsi abbastanza scrittori se non si ubriacano con una certe frequenza), ma la tendenza c’era, come sul fianco ripido di una collina, dove devi puntare i piedi per non andare giù di corsa.

Nel memoir Joseph Anton, Rushdie ci racconta un incontro con Doris Lessing e di come lei gli avesse esternato dei dubbi su quello che poi è diventato Walking in the shade: gli uomini, sempre gli uomini. Maschi, intendo. Lei era una bella donna, da giovane, le facevano la corte, ci provavano. Ma quanto di queste avventure o aspiranti tali era lecito riportare nell’autobiografia? Questo il dubbio della Lessing davanti a un perplesso Rushdie già alle prese con i casini della fatwa. Credo questa signora che ne abbia taciute parecchie, di storie, per rispetto ai vivi e ai discendenti; perché alla fine, tra le pagine, il non detto si intuisce.

Il libro trabocca di attivismo politico, di comunismo, di dubbi, di delusioni e speranze dopo la scoperta delle atrocità staliniane. Erano giovani che parlavano di mondi ideali. Belli questi giovani (ma anche se fossero stati più vecchi)… Non importa che non abbiano ottenuto ciò in cui speravano. L’idealismo è una componente della speranza: ci vuole!

Però, alla fine, la Lessing parla poco, in questo volume come nel primo, dell’atto della scrittura in sé.

Impossible to describe a writer’s life, for the real part of it cannot be written down.

Lo dice chiaro e tondo: come puoi scrivere della scrittura?

Ci ha provato: ha raccontato del suo bisogno di camminare, dormire e fumare mentre sta buttando giù una trama o sta revisionando un racconto, ma questi sono gesti al di là della scrittura vera e propria. Ha raccontato della sua idiosincrasia per le lunghe file di lettori in attesa di autografo, della passione che gli editori di allora nutrivano per la cultura in sè, della necessità di accudire il figlio e di togliere le briciole dalla tavola prima di mettersi a lavorare; ma neanche qui parla dell’atto dello scrivere vero e proprio.

E ciononostante, quando racconta la sua vita, respiriamo la sua arte, non fosse altro per la moltitudine di gente che incontra: gente che legge, scrive, riflette. Idee che si incontrano e scontrano. Non è vero che si impara a scrivere solo dai libri: per gli scrittori, l’entourage conta, conta molto.

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