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La luce che è in noi (Michelle Obama)

Questo libro è il seguito di Becoming. Mentre in Becoming ci raccontava la sua vita dall’infanzia fino all’esperienza alla Casa Bianca, stavolta non segue una linea narrativa.

Affronta più genericamente il tema delle difficoltà che si incontrano nella vita e della forza che ci serve per superarle.

Lei ammette di essere una persona che ha sempre cercato di darsi da fare, a volte troppo; si è spessissimo trovata a combattere contro un dubbio: Sono abbastanza? Abbastanza brava, intelligente, bella? Forte? Nonostante i miei sforzi, ho davvero diritto a quello che ho ottenuto?

Questi dubbi sono sicuramente influenzati dalla sua appartenenza a una doppia minoranza: Michelle Obama è una donna di colore. E’ nata e cresciuta a Chicago in una famiglia normale, non ricca, e ha usufruito di aiuti statali per frequentare l’università e la scuola di legge. E’ diventata prima un’avvocatessa di successo, e poi è arrivata alla Casa Bianca, in un ruolo che l’ha posta sotto i riflettori, suo malgrado.

Questo libro è stato scritto dopo che la pandemia di Covid era già iniziata, e Michelle, come tutti noi, si è trovata chiusa in casa senza nulla da fare, tranne che rimuginare e pensare. Ha trovato un po’ di sollievo nel lavoro a maglia, apprezzando le piccole cose che alleggeriscono la mente.

Tutti, ci dice, abbiamo una parte della mente che è paurosa e che teme i cambiamenti: non ci si libera di questa paura. Bisogna però agire nonostante i timori, con un po’ di gentilezza verso se stessi (cosa che lei ha spesso dimenticato di fare).

Ci parla dell’invisibilità che a volte sembra avvolgerci, perché non siamo abbastanza belli o abbastanza ricchi. Ci racconta l’episodio in cui la sua tutor le aveva sconsigliato di andare a Princeton perché sarebbe stato troppo difficile per lei (lasciando ad intendere che era una donna nera, che non aveva diritto a un tale privilegio o non aveva le capacità per esserne degna).

Insomma, ha dovuto lottare tutta la vita contro un senso di inferiorità e insicurezza.

Come tutti. Non importa che tu sia la first lady o la sua signora delle pulizie: le insicurezze personali colpiscono tutti.

Quello che cambia è il modo in cui le affrontiamo.

Lei ricorre spesso a degli aiuti: dal lavoro a maglia, alle amiche, alla madre, al compagno.

E’ stata fortunata, sì, ma non è partita con delle buone carte (donna, nera, Chicago).

Ad un certo punto il libro si allarga sugli ideali. Qui si perde un po’, diventa più generico, a volte un po’ scontato, ma è comunque una lettura che vale merita.

A volte sappiamo cosa va fatto, ma abbiamo bisogno di sapere di non essere soli ad affrontare certi dubbi e incertezze.

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Ci vuole più dopamina, a scuola e nel lavoro

Sto leggendo un libro intitolato “Imparare” di Manfred Spitzer, professore di psichiatria all’università di Ulm.

L’essere umano è programmato per imparare, ma certi fattori facilitano il processo, mentre altri lo rallentano.

Tra i fattori che lo accelerano possiamo citare la novità, la rilevanza (cioè l’importanza, la ricaduta che ciò che apprendiamo ha sulla nostra vita) e il sonno.

Tra i fattori che lo rallentano ci sono la paura e lo stress. Qualcuno può obiettare che quando viviamo un evento fortemente traumatico, ce lo ricordiamo nei minimi dettagli. Ebbene, è vero, ma il ricordo dettagliato di un singolo fatto è qualcosa di diverso dalla vera e propria procedura di apprendimento. Imparare non significa ricordare eventi isolati, bensì interconnetterli con quello che sappiamo già e creare un sistema complesso di interrelazioni.

Un capitolo a parte occupa, nel libro, la motivazione.

La motivazione è strettamente legata alla produzione di dopamina, un ormone la cui circolazione aumenta in concomitanza con eventi positivi: un’occhiata benevola, una parola di incoraggiamento (tempestiva e motivata), la soddisfazione che proviamo quando il risultato di un nostro sforzo è migliore di quello che ci aspettavamo, o altri stimoli (dalla droga alla cioccolata alla musica).

Quello che però non è sempre chiaro, è che l’essere umano è costruito in modo da motivarsi da sé.

E gli studenti demotivati? E gli impiegati demotivati?

Beh, una cosa è automotivarsi per eventi che ci procurano un piacere immediato, un’altra cosa è motivare altre persone a fare delle cose che tu vuoi che facciano!

Qui Manfred Spitzer è categorico: serve entusiasmo. L’entusiasmo è una scintilla che può contagiare altri. Ma attenzione: l’entusiasmo non si può fingere. O si è entusiasti, o non lo si è.

Un capo-progetto può essere motivato a fare il proprio lavoro dallo stipendio che prende: ma questo non è entusiasmo. E se manca l’entusiasmo, non si può pretendere che i sottoposti sprizzino gioia da ogni poro.

Il medium, il mezzo attraverso cui si trasmette l’entusiasmo è sempre e solo una persona: un insegnante, un manager… non una presentazione in PowePoint o delle fotocopie colorate… e neanche uno stipendio maggiore.

L’entusiasmo e, tramite di esso, la conoscenza, si trasmettono dunque attraverso una persona entusiasta, magari con l’aiuto di una parola di incoraggiamento ogni tanto.

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Leggere in altre lingue?

Mai e poi mai avrei pensato di arrivare al punto di leggere la Sirenetta, soprattutto la versione edulcorata, tratta dal cartone animato della Disney: bellissime principesse vittime del cattivo o della cattiva di turno, nessuna sfumatura psicologica, e… unico scopo nella vita di una donna: cercarsi un uomo!

Ma come primo livello di cinese, si può fare. Certo, ci metterò un anno a finire di leggere 86 pagine (disegni inclusi), ma già noto una differenza: mentre all’inizio dovevo tradurre ogni singolo carattere (e vai di Pleco app), ora, a pagina 55, qualche cosa già me la ricordo senza controllare tutti i tratti.

Insomma, se per leggere 5 righe (e capirne il significato) ci impiego “solo” mezz’ora, sono fiera di me stessa.

Ovviamente non ho iniziato con la lettura tout court. Il mio primo testo è stato “Dialogare in cinese 1” di Magda Abbiati e Zhang Ruoying (ed. Cafoscarina, con CD incluso), che ho comprato su Amazon a metà del prezzo; purtroppo due capitoli sono saltati: mi sono trovata i capitoli 47 e 48, che farebbero parte del secondo volume… errore di stampa o di fascicolazione? Boh, ho scritto all’editore ma non mi ha mai risposto.

Non importa: il libro di Abbiati-Zhang mi ha dato una spolveratina delle regole di base.

Senza internet, tuttavia, sarei molto più indietro, soprattutto a livello di ascolto: YouTube è una miniera di racconti brevi, e un gran passo in avanti l’ho fatto con LingQ, un sito in cui si può ascoltare e importare testi di propria scelta (il fondatore è Steve Kaufman, canadese, capelli bianchi e una ventina di lingue all’attivo): l’ascolto, in realtà, è quello che prende meno tempo, perché una volta che hai una playlist te la puoi sparare in macchina quando vai al lavoro o dal dottore.

Non leggo spesso libri in lingua straniera: almeno, non tanto spesso come quelli in italiano. Però cerco di tenermi in esercizio sulle lingue che uso al lavoro (inglese, tedesco, francese e spagnolo, nell’ordine di conoscenza): diciamo, un libro per lingua all’anno.

Lo spagnolo l’ho imparato da sola l’anno scorso: è una conoscenza molto passiva, lo scrivo e lo parlo malissimo. Ma riesco a leggermi un libro in lingua originale, e questo era il mio scopo iniziale (poi riesco a capire una mail commerciale? Echissenefrega?).

Il cinese è ancora allo stato brado… non so se riuscirò mai a parlarlo, o a capire qualcuno che mi parla in mandarino, ma lo scopo principale, anche qui, è leggerlo.

Mi ci vorranno anni, molti, prima di leggere “Piccole donne” in cinese: il libro è sullo scaffale che mi aspetta, me lo ha regalato mio marito di ritorno da un viaggio a Shanghai.

Forse “Piccole donne” sarà già troppo difficile, nonostante il testo inglese a fronte…

Bah.

Allora ho un altro paio di libri per bambini…

E poi potrò darmi da fare con gli aforismi di Confucio e le poesie (poesie??) di Mao Zedong…

Ma forse mi sarà più utile il testo di Zhang Jie, a cura di Serena Zuccheri (Hoepli, CD incluso), visto che ha un glossario cinese-italiano alla fine…

Anni, anni, anni.

Ok, prendiamocela con calma. Già è difficile trovare mezz’ora al giorno, tutti i giorni… ma sì, si può fare, basta non fare le pulizie e consumare molti surgelati.

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De Brevitate Vitae – Seneca

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Traduzione del titolo (più o meno): sulla brevità della vita.

Evviva, che felicità…

No, scherzi a parte: Seneca se la prende con tutti quelli che perdono tempo e poi si lamentano che non ne hanno. Per lui il massimo della vita è dedicarsi all’Otium, non inteso nel senso di ozio (della sedia divano e TV), ma nel senso di studio della natura umana, studio di se stessi, lavoro sul proprio carattere.

Ci va giù duro, e quel che è peggio è che le sue parole si adattano benissimo all’uomo e alla donna di oggi:

Sentirai i più dire: “A cinquant’anni mi ritirerò a vita privata, a sessant’anni abbandonerò le cariche pubbliche”. Ma alla fine chi ti garantirà che avrai ancora da vivere? (…) Non ti vergogni di riservarti gli avanzi della vita e di destinare alla cura dello spirito quel solo tempo che non si possa impiegare in alcuna altra pratica?

Non gli vanno bene, ovviamente, neanche quelli che studiano nozioni pure per fare le figure da sapientoni nelle chiacchiere al bar (bè, non c’erano i bar, quella volta, ma penso di essermi spiegata):

(…) queste nozioni di chi correggeranno gli errori? Di chi terranno a freno le passioni? Chi renderanno più forte, più giusto, più generoso?

Secondo Seneca, gli unici che non buttano via il proprio tempo, sono quelli che

ogni giorno vorranno coltivare la più stretta intimità con Zenone, Pitagora e Democrito e gli altri sacerdoti della conoscenza, e con Aristotele e con Teofrasto (…). E’ possibile frequentarli di notte come di giorno. (…) Nessuno di loro ti costringerà a morire, tutti te lo insegneranno; nessuno di loro consumerà i tuoi anni, tutti aggiungeranno i loro ai tuoi. (…) Siamo soliti dire che non abbiamo potuto scegliere i genitori, ma che ci sono stati dati a caso: ma per gli uomini virtuosi è possibile nascere secondo il proprio arbitrio.

Proprio ieri sera abbiamo assistito alla recita della scuola dal titolo “Momo alla conquista del tempo”. Gianna Nannini a parte (Madonna, non la sopporto, come facciano a considerare grande artista una con la voce così, davvero non lo capirò mai) il messaggio non passa mai di moda, né ai tempi di Seneca, né oggi. E ciò nonostante, gli uomini continuano a perdere tempo (bè, sì, anche le donne).

Siamo stupidi?

 

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