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Amore liquido (Zygmunt Bauman)

L’amore non si può imparare, non è un’arte, è un evento unico, perché, ogni volta, le persone coinvolte sono uniche.

Dunque non è possibile dedurre delle regole generali, non è possibile raggiungere un vero apprendimento, nel senso di acquisire abitudini utili per un certo scopo. Questo è più che mai vero nel mondo moderno, dove le coppie nascono “a termine”, dove si rifugge il più possibile dall’impegno a vita.

Se un rapporto di coppia ha durata determinata, se ogni esperienza con l’altro sesso si concretizza in episodi brevi, non si riesce a affrontare abbastanza prove per poter dire: è vero amore.

La definizione romantica dell’amore come vincolo che dura “finché morte non ci separi” è decisamente fuori moda (…). Ma la caduta in disuso di tale nozione ha finito inevitabilmente con l’abbassare il livello di difficoltà delle prove che un’esperienza deve superare per fregiarsi del titolo di “amore”.

L’amore non lo impari perché per imparare serve una certa dose di ripetitività, di prevedibilità, e gli esseri umani non si ripetono, sono imprevedibili.

Si può imparare a svolgere un’attività laddove esista una serie di regole fisse riferite a uno scenario stabile, monotonamente ripetitivo, che ne favorisce l’apprendimento, la memorizzazione e il successivo espletamento.

Certo, se si parte da questo assunto, si capisce perché chi si lascia impegolare sempre da relazioni sbagliate sembra non imparare mai. Però le conseguenze di un pensiero del genere rischiano di sconfinare…

Perché alla fine, anche noi siamo sempre indefinibili e imprevedibili, perfino a noi stessi: dunque non si può mai giungere alla conoscenza di sé?

E comunque, anche se non si possono prevedere i comportamenti umani e non si possono conoscere tutte le sfumature del partner, è vero che alcuni atteggiamenti sono universali, e certe regole comuni, in qualche modo, si possono scovare qua e là.

Secondo Bauman, se si guardano i mass media, dalle riviste che parlano di rapporti di coppia alle trasmissioni, i consigli più diffusi sono quelli che ci insegnano a chiudere un rapporto col minimo dispendio di energie possibile; ma me non sembra che sia proprio così: a me sembra che ci siano ancora tante “poste del cuore” dove si chiede come conquistare un uomo o come gestire certi problemi di coppia, senza necessariamente arrivare allo scioglimento del matrimonio o del fidanzamento…

Certo, è vero che i legami d’amore (anche i legami d’amore) sono più effimeri. Però ho comunque sospeso la lettura del saggio a pag. 67 (su 214). Bauman non dà soluzioni. Il suo è un libro descrittivo, che usa molte metafore e molti richiami ad altri pensatori. Tutte affermazioni difficili da contestare le sue, ma… che tristezza.

D’altronde, le soluzioni per una coppia che è in difficoltà, esistono? Ponendomi questa domanda ricado nel prototipo di consumatrice baumiana, lo so. Però ho bisogno di speranza. Diciamo che “L’arte di amare” di Fromm (a cui Bauman sembra dichiarare guerra in questo saggio) mi è piaciuto di più.

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Di bene in peggio – Paul Watzlawick @Feltrinellied

Siete “in cerca di garanzie, di certezze, di realizzazione e di conseguente, definitiva felicità”?

Allora, probabilmente, siete dei costruttori di ipersoluzioni, ovverosia, soluzioni le cui conseguenze sono altrettanto nefaste dei problemi che vogliono risolvere.

Cercate un assoluto? Il senso della vita? Allora probabilmente, a forza di pensarci, cadrete nell’inerzia.

Credete che se una cosa è buona, allora aumentandone la quantità riuscirete ad aumentare anche la sua qualità? Allora siete caduti in una fata morgana.

Siete convinti che il contrario del male sia sempre il bene? Che non esista una terza via? Siete convinti di sapere sempre cosa pensa chi avete di fronte? Che chi è in possesso della verità debba trasmetterla agli ignari, se necessario, anche contro la loro volontà?

Beh, allora ricordatevi, quando sarete convinti di aver trovato l’ipersoluzione che fa per voi, che il grande è celato nel piccolo.

Non è un manuale, questo: nessun suggerimento concreto. Solo un ragionamento al contrario, con molta, molta ironia, che ci fa capire come siamo bravi a rovinarci la vita.

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L’ospite inquietante – Umberto Galimberti @Feltrinellied

L’ospite inquietante è il nichilismo, e Galiberti in questo libro se ne occupa con riferimento ai giovani tra i 15 e i 25 anni.

Una cosa bisogna tenere bene a mente: “il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale“. Ne consegue che le soluzioni devono essere culturali, non psicologiche o, peggio, farmacologiche.

Ad esempio: la società ragiona in termini di risultati, non di fini.

Guardiamo un’azienda, un’azienda qualunque: lo scopo è il fatturato, è la quota di mercato, è il prestigio. Ti diranno poi, per giustificarsi, che l’imprenditore ha sulle spalle tutte le famiglie dei suoi dipendenti, ha una responsabilità… lo dicono sempre, come se avesse avviato l’azienda per fini umanitari.

In una società del genere, il futuro, da promessa, si trasforma in minaccia, soprattutto per i giovani, che vivono nel futuro, visto che di passato ne hanno poco e il presente è deludente.

E la scuola?

Istruisce, non educa. Inserisce dati nei cervelli, non si occupa dell’analfabetismo emotivo degli alunni, non li guarda in faccia, non li considera nelle loro individualità. Ha bisogno di numeri, la scuola: deve misurare, confrontare. Non si occupa del desiderio di riconoscimento.

La frustrazione, (…) è utilissima per crescere, ma che, come tutte le medicine efficaci, va dosata. Un eccesso di frustrazione – come nel caso di voti troppo bassi distribuiti in nome dell’oggettività delle prove, senza un minimo sospetto che dietro le prove c’è qualcuno che ci prova e che si mete alla prova – sposta altrove la ricerca di riconoscimento.

Le conseguenze? Droga, sassi dal cavalcavia, suicidi, depressione, disturbi alimentari, sociopatia, bullismo, collasso della comunicazione ecc…

Mancano i luoghi di incontro e di scambio intergenerazionale, ma anche intragenerazionale: i giovani spesso si isolano dai propri coetanei e, quando li frequentano, i rapporti restano superficiali.

Galimberti ha una particolare forma di approfondimento dei problemi, li guarda sempre da un punto di vista diverso dalla maggioranza ma… ha un linguaggio troppo poetico, quasi un esercizio stilistico, a volte.

Voto: 3 su 5.

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Prostituzione, alcolismo, droga e altre dipendenze

Il tentatore non “mette alla prova”, ma “commette un reato”, e il tentato che cede non è un “colpevole”, ma gode dell’innocenza della “vittima”.

La prostituta in quanto tentatrice è perseguitata dalla legge, mentre il cliente, in quanto cede a una forza a cui non può resistere, è innocente.

Ma perché questa sociologia che fa tesoro delle scoperte scientifiche mantiene la categoria mitico-religiosa della tentazione per lo spacciatore e per la prostituta, e adotta invece la categoria psico-biologica della forza irresistibile per il drogato e il cliente della prostituta?

Per sottrarre al drogato e al cliente anche la sola ipotesi di avere a disposizione la libertà dell’autocontrollo, perché solo persuadendo gli uomini che non si possono autocontrollare si può esercitare su di loro il controllo esterno a cui il potere per sua natura e per sua essenza tende.

(U. Galimberti (“L’ospite inquietante”)

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Elogio della letteratura, Bauman/Mazzeo @Einaudieditore

 


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Zygmunt Bauman ci ha lasciato quest’anno: era un autore prolifico, esponente di una sociologia fuori dagli schemi, lontana dalla disciplina accademica tutta dedita ai numeri e alle statistiche.

Credo che non ci sarebbe potuto essere un ricordo più gentile, di questo libro, scritto a quattro mani col suo amico Riccardo Mazzeo.

E’ un dialogo sul rapporto tra sociologia e letteratura, che pur condividendo gli la struttura discorsiva e molti degli scopi (l’analisi dell’uomo), spesso sono viste come due discipline lontane, quando non antitetiche, visto che la prima mira a farsi definire come scienza, mentre la seconda rientra senza dubbio nel campo delle arti.

Il colloquio tra Mazzeo e Bauman verte sì sulla relazione tra le due discipline, ma finisce per toccare argomenti apparentemente molto lontani: dalla figura del padre, alla twitteratura, dalla perdita degli intercessori all’homo consumens.

Essendo un saggio breve (appena 136 pagine) non si può riassumerlo in modo valido, perché ogni frase è pregna di significati e rimandi; ma un messaggio si può cercare di trasmetterlo: è che la letteratura, per quanto dotata di un potere salvifico, da sola non può risolvere i problemi di una società, esattamente come un insegnante singolo (che sia un Affinati o un Bergoglio) non possono risolvere i problemi della povertà e dell’ignoranza.

Risulta qui essenziale la distinzione tra troubles (i problemi che ognuno di noi vive nella propria quotidianità) e gli  issues (i problemi comuni a tutti gli esseri umani che possono essere affrontati solo tramite azioni collettive).

Notevole è poi l’elenco degli autori che, nel corso del dialogo, vengono menzionati: si passa da Nietzsche a Kafka a Kraus ad Alberto Garlini a Jonathan Franzen a Luigi Zoja alla Nussbaum ecc….

Insomma, anche se a volte un po’ troppo colto, è sicuramente una lettura stimolante.

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L’albero della vita – Francesco Alberoni

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Il fatto che lo abbia scritto Alberoni non ci costringe mica a leggerlo, questo saggio. In verità, se mi chiedete di cosa parla, ho qualche difficoltà a riassumerlo. Scordatevi che il sottotitolo – Le forze, i desideri, le passioni che ci fanno vivere – sia in qualche modo esplicativo, anzi.

Diciamo che tratta diversi argomenti: dalla paura della guerra, allo spauracchio ecologico, dalla religione, alla morte, dalla capacità del cervello, ai movimenti, alle forze umane distruttive… ecc…

Il filo che lega ogni capitolo è lo Stato Nascente, quello stato di rinnovamento e morte, di euforia e solidarietà che caratterizza la nascita dei movimenti sociali. Ma questo stato è stato esaurientemente descritto nell’altro libro, Movimento e istituzione: l’autore de L’albero della vita, ora, prende quel nocciolo e lo spalma su altri argomenti dandogli un taglio più individualistico, meno sociologico. Tanto per far vedere che la sua teoria spiega tante cosucce. Ma tra un capitolo e l’altro, ogni volta perdevo il filo.

Va bene, è un saggio, non è tenuto a seguire una fabula, un ordine cronologico o di qualche tipo, può farsi guidare solo dai topics, ma non ho capito la linea, la direzione. Non ho capito che razza di albero è questo albero della vita. Forse era proprio questo l’intento di Alberoni: farci capire che le forze in campo quando si parla di uomini sono tante e contrastanti tra loro. Può essere. Va bene, me lo segno.

Per il resto,  qualche parte l’ho sottolineata: o perché mi ci trovavo d’accordo, o perché non condividevo. Per esempio, siamo sulla stessa linea d’onda quando scrive questo:

se l’artificiale diventa monotono, oppressivo, invivibile, ciò non dipende dal fatto che è artificiale, ma dalla specifica forma che ha assunto.

Poi però ci sono diverse parti in cui l’autore si abbandona all’ottimismo, quasi direi: utopia. A parole non nega le difficoltà e le strade sbagliate del progresso e dell’evoluzione umana: accenna alla bomba atomica, alle guerre, al buco nell’ozono. Ma poi la sua visione ottimistica prevale (perché continua a dire che i movimenti e lo stato nascente danno speranza). Non sono d’accordo quando dice

è la vita stessa che produce in noi i desideri giusti, quelli con cui essa vuole continuare a crescere. L’importante è seguire questa traccia, non abbandonarla mai.

Mi ricorda La strategia del gene, di Sabino Acquaviva. Ma i desideri di crescita si possono far valere in tanti modi. Anche combattere il vicino è un desiderio di crescita. Lo definiamo giusto se non muore nessuno, a posteriori. O se muore quello che voleva ucciderci.

Insomma, i tentativi e gli errori del genere umano si moltiplicano, è vero, con l’aumentare delle interazioni. Aumentano le probabilità degli errori e delle azioni a favore della vita. Poi però la decisione ultima spetta sempre al singolo.

 

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L’amicizia – Francesco Alberoni

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Esiste ancora l’amicizia? Alberoni sostiene di sì, perché non esiste un modello da applicare, ma, dice, l’amicizia è un ideale a cui tendere. Certo che l’ideale che ci propone lui è davvero alto, e io non ne vedo molti esempi in giro.

Prendiamo subito una caratteristica che è anche riportata nel sottotitolo: poco lagnosa.

Auguri!

La stragrande maggioranza delle c.d. amicizie che vedo in giro non fanno altro che lamentarsi (soprattutto quelle femminili). Dei mariti, dei figli, del lavoro, del tempo, della casa, dei parenti, del cibo, degli animali…. Spesso, spessissimo vedo donne che passano gran parte del tempo insieme a creare alleanze, come se l’inimicizia verso qualcuna rafforzasse l’amicizia nella coppia. Tanto poi le parti si mischiano, e la nemica di prima diventa la confidente di adesso contro l’amica di prima. Se togliamo tutte queste chiacchiere lamentose, quanto dialogo resta? Puro dialogo, di quello che fa crescere entrambe, come dice Alberoni?

Su certi punti però sono pienamente d’accordo col sociologo. Innanzitutto, l’amicizia può aversi solo tra pari (anche se la parità va definita di volta in volta). Difficilissimo che ci sia amicizia vera tra maestro e allievo, o tra chi assume il ruolo di maestro di chi il ruolo di allievo: le traiettorie devono essere parallele e allo stesso livello, nessuno deve stare sopra o sotto. Non ci deve essere uno che ha bisogno, che chiede troppo spesso, perché questo crea dislivello (i sindacati non chiedono, ma esigono, proprio per mettersi allo stesso livello della controparte).

(…) solo chi vive nello stesso ambiente, parla la stessa lingua, appartiene allo stesso mondo, ha una concreta possibilità di incontrarsi.

Amicizia significa progredire insieme, non far cambiare l’altro. Ma neanche star fermi insieme! Entrambi devono essere in movimento.

Se c’è noia, non c’è amicizia.

La società ha paura dell’amicizia, perché l’amicizia si apparta e va oltre le convenzioni e la buona educazione. E’ per questo che i gruppi cercano di non permettere l’incontro agli amici (e l’incontro è il punto focale attorno cui ruota l’amicizia). Leggetevi questi estratti, che ne vale la pena anche se sono un po’ più lunghi del solito (i grassetti sono miei):

Siamo ancora una volta di fronte al processo di rimozione che le strutture sociali, le istituzioni consolidate, compiono nei riguardi di ciò che è vivo, irrequieto, di ciò che cerca il nuovo ed il diverso. L’amicizia come ricerca inquieta è disturbante.

C’è gente che si incontra, la sera, anno dopo anno, per fare quattro chiacchiere. Talvolta sono coetanei, compagni di scuola. hanno ben poco da dirsi. Gli argomenti sono quasi sempre gli stessi. Ripetono le stesse battute, fanno le stesse osservazioni. anche quando i partecipanti, presi singolarmente, sono intelligenti e vivaci, non appena entrano nella “compagnia” si appiattiscono completamente. la compagnia assorbe ogni interesse, banalizza ogni rapporto. Impone a tutti un minimo comun denominatore linguistico che impedisce di dire cose nuove. La conversazione, costruita su infinite ripetizioni, non può più uscire da se stessa. (…) La “compagnia” illustra, in modo emblematico, l’istupidimento e la degradazione dell’individuo ad opera del gruppo, quando il gruppo non ha un ideale, un fine, una ideologia, nulla. La compagnia amicale è un gruppo tradizionalista senza altro scopo che la propria sopravvivenza. (…) Moltissima gente, quando pensa agli amici, ha in mente questo tipo di formazione sociale. Si comprende, perciò, perché consideri l’amicizia poco stimolante (…)

Un’altra parte che secondo me molti dovrebbero fotocopiarsi in formato ingrandito e appiccicarsi sul lunotto dell’auto in modo da vederla ogni giorno, è questa in cui definisce l’organizzazione:

E’ una struttura sociale costruita in modo tale da realizzare i suoi obiettivi prescindendo dai fini e dai desideri di coloro che vi lavorano. La gente non va a lavorare in una fabbrica di scarpe perché ha una particolare passione per le scarpe, ma perché prende uno stipendio. Se, infatti, le offrono una retribuzione più alta, cambia volentieri lavoro.

Nell’organizzazione i partecipanti sono dei mezzi per il raggiungimento degli scopi. Non sono dei fini. Ecco perché il lavoro stanca: non tanto dal punto di vista fisico. La stanchezza, la frustrazione, vengono dall’essere sempre mezzo, mai fine. Nella vera amicizia, bisogna essere fine, non mezzo. Ecco perché è così difficile, direi impossibile, che ci possano essere forme di amicizia tra manager e sottoposti.

Insomma, se qualcuno legge questo saggio e poi riesce a individuare nella sua vita qualcuno che corrisponde o almeno tende all’idealizzazione di Alberoni, me lo faccia sapere, per favore. Pura curiosità.

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Con entusiasmo – Ludovico Ferro

imageL’argomento sindacati non è tra i miei preferiti ma questo libretto si legge in un’oretta (e mezza, se c’è un settenne che ti rompe le scatole): l’approccio molto personale dell’autore, non scevro da qualche termine da videogame, ti fa andare avanti pagina dopo pagina. E poi, parla del territorio in cui vivo…

Il sottotitolo dice molto: Interviste, colloqui, riflessioni sull’agroalimentare veneto. Si parte dunque da una serie di interviste ai dirigenti sindacali territoriali della Cisl/Fai (agroalimentare e ambiente), e lo scopo è sedimentare la memoria. Viene presentato ogni dirigente e viene presentata una sintetica carrellata dei problemi e dei punti di forza di ogni territorio, come se si trattasse dei piatti di un pasto.

Si parla di crisi, che nel settore non è ancora molto sentita, di rapporti con la politica, che a questo livello sono quasi inesistenti, dei rapporti con le altre confederazioni, di fusioni tra territori…

Insomma, per una come me che non si intende di sindacati (e che non li ha sempre in simpatia), è una buona introduzione. Tanto più che l’approccio sociologico/neutrale dell’autore traspare dalle metafore usate, più dense di significato di quello che potrebbero permettersi in una pubblicazione che dovrebbe, o quasi, essere di parte (e infatti questo a me è piaciuto).

L’ultima riflessione riguarda il sindacalismo nel suo insieme e la difficoltà di entrare nelle piccole imprese. E te credo. Chi si prende la briga di far entrare un sindacato in un’azienda di pochi dipendenti, dove i titolari ti guardano negli occhi ogni volta che passi davanti al loro ufficio? Nell’agroalimentare il numero dei tesserati negli anni analizzati dallo studio è aumentato, ma i numeri non dicono molto (ad esempio grandi entrate di tesserati si hanno in casi di crisi aziendale, quando c’è bisogno di qualcuno che spalleggi i lavoratori contro i… paroni). Le piccole aziende restano un osso duro. E con la crisi o con quella che vogliono far passare per crisi, lo sono ancora di più, anche se la crisi riguarda gli altri.

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L’artigiano alchimista – Ludovico Ferro

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Le crisi non hanno gli stessi effetti su tutti. Ce lo dimostra la fondazione di grandi imperi come Fortune Magazine (fondata appena 90 giorni dopo la caduta delle borse del 1929), Fedex e Microsoft (recessione dei primi anni Settanta), Hewlett-Packard e Revlon (grande depressione), Standard Oil (1865, ultimo anno della Guerra Civile), e molte altre.

“Ma questi sono i soliti colossi industriali americani, quello è un altro mondo” ci dicono.

Sbagliato.

Il sociologo Ludovico Ferro ci dimostra che anche nel nostro Veneto ci sono molte realtà d’eccellenza. In particolare questo studio ne analizza venti nel settore agroalimentare, tramite lo strumento empirico dell’intervista; e si tratta di aziende artigiane, piccole per gli standard americani, a volte microscopiche, ma che, nell’impaurito panorama prospettatoci dai media, spiccano come esempi di controtendenza. E che soprattutto occupano una fetta non indifferente di operatori.

I luoghi comuni da sfatare sono tanti. Il primo, è che la crescita dimensionale si un elemento necessario per l’eccellenza. I dati raccolti dallo studio ci mostrano artigiani orgogliosi della qualità del proprio prodotto, ma che non smaniano di diventare più grandi, anzi, li vediamo a volte sospettosi verso la grande distribuzione e l’allargamento del bacino dei clienti, se questo può ripercuotersi negativamente sull’immagine “familiare” e sul controllo diretto che esercitano sulla loro filiera produttiva.

Un altro mito da dimenticare, è legato al passaggio generazionale: si pensa spesso che i figli subentrino ai padri perché non hanno trovato altri sbocchi nel mercato del lavoro. A volte può essere così, ma sono sempre più frequenti gli esempi di giovani che entrano nell’azienda di famiglia dopo percorsi di consapevolezza che li ha portati a fare esperienza in altri settori. Non si tratta quasi mai di scelte di ripiego, e soprattutto gli esiti sono – a giudicare da queste interviste – molto positivi.

Il che non vuol dire che i passaggi generazionali non mostrino le loro incognite, ma di sicuro la scelta di entrare nell’azienda familiare non è più scontata: per questo è più consapevole.

Scordiamoci anche l’immagine dell’artigiano che lavora solo con le mani e che rifiuta ogni innovazione tecnologica. Gli investimenti nelle “macchine” ci sono, e può variare la percentuale di automazione rispetto al lavoro manuale: quello che non può mai mancare è l’elemento umano, la fonte delle decisioni sul cosa e quanto automatizzare. L’importante è garantire sempre la miglior qualità possibile e tenere fidelizzato il cliente e “farsi cercare”.

Tutto bello e lindo, dunque?
In confronto alle aziende che chiudono e lasciano a casa i lavoratori, sì, certo. Ciò non toglie che i soggetti istituzionali debbano impegnarsi di più su certi fronti: in primo luogo quello creditizio, ancora troppo lontano dalle reali necessità artigiane. In secondo luogo, nel campo della formazione, che al momento ci mostra un vuoto pericoloso. In terzo (ma non ultimo) luogo, sul lato burocratico, che impastoia e rallenta anche i più volenterosi. Un altro punto può essere, poi, la tutela ambientale.

Aziende eccellenti, dunque.
Attenzione però: non si deve essere ossessionati dall’eccellenza. Meglio parlare di qualità diffusa, tenendo sempre conto dei rischi e senza velleitari esclusivismi.

Sapete una cosa? A forza di leggere di millefoglie e pane fresco, e di vedere foto di pastine e cioccolatini, a me è venuta fame!

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C’è una vita prima della morte? – Miguel Benasayag, Riccardo Mazzeo

Per chi è ignorante come me, Miguel Benasayag è un filosofo e uno psicanalista (sì, tiene persone in analisi, ma solo due giorni alla settimana, si giustifica).
La biografia che trovo nel libro è piuttosto scarna: solo leggendo capisco che Benasayag ama viaggiare tra le discipline e che odia, per ragioni che ci spiegherà, i curricula. Argentino, ha conosciuto Sartre, si è fatto quattro anni di galera, ha rischiato la vita, ha sopportato le torture del regime, ma è ancora vivo. Perché ci tiene a diventare… anziano. Non vecchio, attenzione: tutto il saggio (anzi, il dialogo tra lui e Mazzeo) è incentrato su questa differenza.

Il dialogo dovrebbe vertere sulla “terza età”, ma si parla molto anche dei giovani, perché sia ai giovani che ai vecchi si negano la vera vita, i Wuensche, i rischi: lo scopo è sempre quello, creare consumatori, instradare le persone, renderle prevedibili.
Se la prendono, Benasayag e Mazzeo, con l’individualismo. Cioè: bisogna smetterla di pensare in termini individualistici. Un vecchio pensa: sono vecchio. Ed è una tragedia. Un anziano pensa: sono vecchio, ma… non è un’esperienza che tocca solo me, è nel corso delle cose, accade.
Oppure: una donna viene picchiata dal compagno e pensa: sono picchiata. Un’altra donna pensa: sono picchiata ma… non sono un’individualità che viene picchiata!
Se si passa dal mi succede al succede, cambia tutta la prospettiva! E’ quello che ha fatto Benasayag quando era in galera e lo torturavano:

Che si sia in un momento felice o che ci si trovi nella merda più nera, il fatto di aver scelto in prima persona cambia tutto.

Alla fine, i vecchi non sono delle vittime, sono delle persone che hanno raggiunto una certa età senza accettarlo, dei coglioni, dice Bensayag. Non sono degli anziani. Attenzione, perché qua non si parla di terza età, ma di tutti noi. Tutti o quasi abbiamo perso il senso del tragico, ci tocca solo il senso del grave, se in Jugoslavia fanno un massacro, noi lo riteniamo un episodio grave, ma non facciamo nulla, la nostra vita non cambia.

Un libro pieno, pieno pieno di spunti di riflessione.
Ma su un punto non sono d’accordo con Benasayag, quando dice:

(…) sono riuscito a dire merda all’università, merda ai media, merda a tutti e nondimeno pubblico, vivo, mi abbuffo. ho avuto una fortuna sfacciata, non ci credo al merito. Penso che il merito sia un concetto reazionario secondo cui se io mi merito quello che ho, allora il piccolo africano che sta morendo di fame si merita quello che ha. La verità è dunque che esiste un fattore arbitrario, perché la stessa forza che ho, che mi permette di fare tante cose, non ho deciso io di averla. Il fatto è che si possono fare buoni incontri da cui trarre profitto e che aiutano. Da questo punto di vista, nessuno merita ciò che ha. Si ha semplicemente la fortuna di incontrare certe persone, in certi momenti, o la sfortuna di non incontrarle o di fare brutti incontri.

Perché non è solo una questione di fortuna, ma una combinazione di fortuna e di un quid personale/merito. Cioè: io potrei incrociare nella mia vita le persone più intelligenti e buone del mondo, ma se non me ne accorgo, se le lascio passare, o se non faccio nulla per andarmele a cercare, allora la colpa è mia. E viceversa, se mi attivo.
E’ colpa mia se io mi identifico col mio curriculum e ho smesso di rischiare, se preferisco la sicurezza di un posto fisso (che non corrisponde alle mie aspirazioni/capacità) all’incertezza di una vita in giro per il mondo a conoscere gente nuova.
Benasayag, come la Marzano, ci dicono che non si può avere tutto solo perché lo si vuole. Ma è anche vero che qualche cosa non si può avere perché non si è disposti a rischiare.

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