Lo avevo iniziato e interrotto dieci anni fa, ma stavolta mi sono imposta di arrivare alla fine; mi son detta: se è brava da prendere un premio strega, qualcosa deve avere anche per me. E invece no (almeno con questo romanzo).

La trama è quasi inconsistente: quattro amici squattrinati vivono in un appartamento a Milano. Le loro giornate trascorrono senza grandi eventi. Sono permeati di ideali comunisti, sono dei sognatori, e sperano di portare nel mondo – attraverso la loro arte – un miglioramento morale ed economico.
Ma non riescono neanche a sbarcare il lunario: sono sempre in debito con qualcuno, e quando Bettina, la voce narrante, vince un premio letterario, pur mettendo in comune tutto il ricavato, riesce a malapena a coprire i debiti contratti fino ad allora (che includono sigarette e trattoria…).
Andrea e Sonia sono sposati. O così sembra…
Bettina si innamora di Gilliat, un giornalista, ma vi rinuncia perché pensa che anche Sonia ne sia innamorata. Poi le cose si capovolgono, e si scopre che Gilliat è innamorato di Bettina.
L’unica che lavora, Ziuccia, sembra bipolare, visti i suoi sbalzi di umore.
La padrona di casa, pure lei, non ci sta tanto con la testa, ma la sua malattia si esprime solo in richieste di anticipo dell’affitto per comprarsi i lussi che le sono necessari.
Poi muore il padre di Bettina. Poi muore la madre di Gilliat. Poi vanno a trovare la mamma di Sonia, povera pure lei.
Insomma, non c’è una vicenda centrale, non c’è una trama composta da cause ed effetti forti.
Tutto gira attorno alla presunta bontà dei protagonisti, e alla loro semplicità di carattere, che a volte sconfina nella banalità.
Ma quello che mi ha veramente innervosita durante la lettura, e che è il risultato di un pietismo molto forte nei confronti dei personaggi, è l’uso smodato dei vezzeggiativi: ziuccio, pennuccia, tavoluccia, boccuccia, pennuccia, casuccia, stanzuccia, quadrucci, alberguccio, abituccio… e vai di questo passo.
Ogni pagina gronda di vezzeggiativi, pietà e di una lacrimazione di fondo che al giorno d’oggi sono proprio fuori posto.
L’edizione che ho io contiene una presentazione di Alfonso Gatto, scritta in una maniera che è un modo per dire: se non sei abituato a leggere, metti giù questo libro, perché a noi non importa diffondere il piacere della lettura, ci basta solo mostrare quanto siamo bravi a usare le parole.
Alfonso Gatto dice:
L’opera della Ortese è un’opera buona. Un lettore che si creda provveduto di malizia e di disincanto, per quest’opera, deve fare i conti con la sua miseria morale, con la sua sterilità orgogliosa, con i suoi sensi spenti.
Accetto il rimbrotto e confermo che questo libro non fa per me.
Vi anticipo però che sto leggendo un altro libro della Ortese, più recente, e la scrittura è tutt’altra cosa… Ci vediamo presto.